di Rosario Coluccia
«Cedete lo passo!», «Cedete lo passo tu!», si dicono con aria minacciosa (che in realtà non spaventa nessuno) due personaggi a cavallo che si fronteggiano fieramente sullo schermo del mio televisore. Nelle serate invernali della lunga era covid-19 capita di rivedere film non recenti che, nonostante il passare degli anni, continuano ad affascinarci per la bravura del regista e degli attori e soprattutto (per quanto mi riguarda) per la straordinarietà dell’invenzione linguistica. Favorito dalla accessibilità gratuita su RaiPlay e su YouTube, ho da poco rivisto «L’armata Brancaleone», il film di Mario Monicelli del 1966, da lui stesso sceneggiato con Age(nore Incrocci) e (Furio) Scarpelli, interpretato da una serie straordinaria di attori: Vittorio Gassman, Catherine Spaak, Gian Maria Volonté, Enrico Maria Salerno, Folco Lulli, Maria Grazia Buccella. Molti ricorderanno la trama. In un’Italia medievale famelica e stracciona Brancaleone da Norcia, soldato di ventura che si autoproclama cavaliere, vaga al comando di un’armata di velleitari e disperati malmessi per raggiungere «la città e la rocca di Aurocastro nelle Puglie», allo scopo di diventarne signore, con «le vigne, li armenti e le ricchezze annesse», impegnandosi a «saggiamente governare la città» e a liberare il feudo dal «nero periglio che viene da lo mare». Film tanto famoso che la locuzione “armata Brancaleone” nell’italiano comune indica oggi, in senso spregiativo o ironico, un qualsiasi gruppo sgangherato, inefficiente e inaffidabile.
Gli spettacoli cinematografici devono assolvere alle esigenze imposte dal mercato, tra cui quella di assicurare il maggior livello possibile di comprensibilità. La lingua rispecchia la ricerca di un mezzo espressivo adeguato, in grado di coinvolgere e interessare il pubblico. Tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso l’Italia attraversa grandi cambiamenti, passando dalla società agro-pastorale alla società industriale e terziaria. Gli anni del miracolo economico producono un miracolo linguistico altrettanto decisivo. Le migrazioni interne di milioni di manovali e contadini non specializzati (a volte analfabeti) verso il Nord, lo spopolamento delle campagne e l’urbanesimo, l’industrializzazione, l’istruzione scolastica, la diffusione della stampa e dei mezzi di comunicazione di massa, le moderne forme di vita della società repubblicana, modificano la condizione “storica”, durata per secoli, per cui si parlava prevalentemente in dialetto e si usava poco o nulla l’italiano. Lentamente ma inesorabilmente, con un processo irreversibile, poco alla volta l’italiano diventa patrimonio che tutti possiedono; nello stesso tempo, quasi miracolosamente, i dialetti rimangono in vita e i parlanti continuano ad usarli.