Si può guardare all’iter di Vallone dantista sulla traccia del canone, per così dire, delle opere di Dante. E la prima ad inscriversi nel canone è quella Vita Nova sulla quale Vallone ha riflettuto a lungo cercando di liberare il libello dantesco dall’ipoteca che definizioni come “libro di devozione” o “Legenda sanctae Beatricis” avevano posto sull’opera giovanile dantesca. Il critico cerca la ragione propria di quella particolare costruzione narrativa e poetica e giunge ad una definizione fondata su una parola-tema, memoria, ch’è il centro propulsore del libello.
Il volumetto La prosa della Vita Nuova (1963) costituisce la prima organica sistemazione del problema della prosa in Dante. E sulla falsariga di quel fortunato libretto, e con lo stesso metodo critico, l’esplorazione si estenderà più tardi (nel 1966 in rivista, nel 1967 in volume) a La prosa del Convivio e all’esplorazione sul Latino di Dante, dove si esaminano le modalità dell’opera dottrinale in volgare e delle opere latine del poeta.
Studi complessivi o particolarmente angolati su un’opera singola o su un tema che attraversa varie opere trasversalmente rifluiscono, armonicamente ripresi, nel monumentale Dante vallardiano (in prima edizione nel 1971, in seconda edizione – ampliata – dieci anni dopo). Nella prestigiosa collana di Vallardi il Dante di Vallone è preceduto dalle opere, fondamentali e per tanti versi ancora utili, di Nicola Zingarelli e di Mario Apollonio. Alle opere precedenti, quella di Vallone somiglia per la carica innovatrice, ma su un rigoroso fondamento di filologia e storia. È un’opera in cui il punto di vista personale è tenuto a bada dal rigore della costruzione aliena da libere avventurose escursioni. Un’opera in cui il dato storico, anche quello erudito, contribuisce ad un racconto critico arioso, sciolto da ogni pedanteria e sostanziato di ragioni estetiche e morali.
Vallone ci dà la chiave di lettura dell’opera nel breve capitolo iniziale intitolato L’uomo di Dante e Dante uomo. L’uomo di Dante è l’uomo medievale posto «tra due poteri assoluti ed eterni, cui egli deve ispirarsi ed ubbidire» ma è anche l’uomo che, per il fondo ottimistico ch’è nella concezione dantesca, appare fiducioso nel “bene universale”, nel realizzarsi della giustizia.
Se c’è un uomo che la coscienza del poeta rifiuta, questi è l’ignavo. «L’ignavo […] non suscita né pietà né sdegno: né la fama del mondo s’interessa di lui, né mai per lui si piegano la misericordia e la giustizia di Dio». Dante rifiuta chi non prende posizione, quale egli pensa che l’uomo debba prendere per il bene o per il male ma con una scelta chiara.
Il Dante è la summa di anni ed anni di lavoro e di meditazione sull’opera dantesca. Il critico è impegnato a stringere in sintesi non solo il molto della sua produzione sull’argomento, ma a dare organicità alle parti. Ne nasce un disegno equilibrato nella distribuzione dei capitoli per argomenti; larga parte vi ha il Dante dalla Vita Nova al Convivio, un Dante colto nel suo cammino di formazione letteraria ed umana. La Commedia formalmente occupa un solo capitolo, ma la sua presenza è avvertibile dappertutto. Campeggiano, in un capitolo espressamente dedicato a loro, due figure emblematiche, essenziali: Beatrice e Virgilio. L’analisi puntuale di temi e sezioni particolari di testo, riversata entro le grandi linee dell’interpretazione, diventa estremamente efficace nella “lectura Dantis” di Vallone. La “lectura Dantis” è quasi un “genere” a parte nella storia dell’esegesi dantesca per il fatto di connotarsi per suoi caratteri specifici. Storicizzandola nella apposita ‘voce’ preparata per l’Enciclopedia Dantesca della Treccani, Vallone ne illumina l’articolato svolgersi, che all’inizio mostra la coincidenza tra commento e lettura e in seguito distinguerà le due situazioni venendo, di fatto, a separare il commentatore dal lettore.
La “lectura” ha una sua specificità a fronte del commento: essa, scrive Vallone, «presuppone oggi come ieri l’immediatezza e la presenza del pubblico, cui il lettore, anche istintivamente, è indotto ad adattare la sua esposizione». Così Vallone ritrova quel senso del “pubblico in ascolto” ch’era già nel Boccaccio espositore del poema.
Credo che basti quanto detto fin qui per dare un’idea del Vallone dantista. Soltanto un cenno, qui, alla Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo dove una messe infinita di dati e di notizie, criticamente riesaminati, è disposta sempre sullo sfondo di grandi movimenti di cultura, le correnti sono disegnate nei loro tratti salienti, le figure di rilievo si staccano dal fondo per apparire nella loro originalità che pure è carica della vita e della cultura della loro epoca. Il materiale è enorme, ma Vallone lo domina con forza, lo sistema con chiarezza entro un’intelaiatura complessa ma di limpida lettura. Qui, come già nel Dante e poi nella Storia della letteratura meridionale, emergono alcuni caratteri peculiari dell’impostazione del lavoro in Vallone. Egli ama le grandi costruzioni, le strutture robuste dove si nota un modo di procedere largo, sicuro, senza indugi che non siano strettamente funzionali a rifinire un concetto, a fissare un’idea di fondo. C’è, ovunque, una curiosità prensile: si afferra un argomento e non lo si abbandona se non gli si è data chiarezza di svolgimento, saldezza di argomentazione, eleganza d’esposizione. Caratteri che, diversamente disposti, rifluiranno nel commento alla Divina Commedia.
Ne è linea-guida, o “programma”, se così è consentito chiamarlo, una pagina del Convivio in cui Dante sostiene che «quando si dice l’uomo vivere, si dee intendere l’uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte. E però chi da la ragione si parte […] non vive uomo, ma vive bestia» (Cv II vii 3). Un motivo ispiratore tenuto d’occhio costantemente.
L’altro grande filone di studi ai quali Vallone ha dato un notevole contributo è quello dell’indagine sulla letteratura meridionale.
Il volume Storia della letteratura meridionale è un progetto che attrae Vallone, ma un poco lo tiene guardingo di fronte ad un’impresa non certo semplice. L’opera sarà pubblicata a Napoli nel 1996 per cura dell’Istituto Universitario “Suor Orsola Benincasa”.
Ammirevole è, in questa come nelle altre grandi opere di Vallone, la saldezza costruttiva, l’impianto robusto, la sicurezza delle fondamenta. È un edificio monumentale, che sembra sgomentare chi l’avvicini, ma poi si lascia esplorare col gusto della scoperta e, letto sistematicamente (come dovrebbe essere) o rapsodicamente per cercarvi questo o quel nome o tema, sempre offre alimento all’intelligenza. Tutto è legato, all’interno di un discorso di grande respiro, dal vasto giro d’orizzonte. Parte per parte si avvia una ricostruzione generale del momento storico-letterario, si individuano le correnti che alimentano l’opera letteraria e la cultura in senso generale nella prospettiva del suo operare dentro la “civiltà” di un momento (e ho già ricordato che uno dei libri di Vallone s’intitola proprio Civiltà meridionale).
Il primo problema che si pone a chi intenda affrontare una materia disperante già solo a causa della sua vastità, della quantità di materiali da esplorare, è quello di scegliere e di selezionare. Sarebbe abbastanza semplice trasformare un’opera del genere in una sorta di enciclopedia o di galleria di ritratti cesellando medaglioni, producendo carte d’identità, incasellando profili e sistemandoli su uno sfondo generico di dati di riferimento. Vallone segue un’altra via. Dopo aver creato uno sfondo specifico di volta in volta, ricchissimo di motivazioni, brulicante del vivo movimento delle idee, delle tensioni intellettuali, delle passioni di un’epoca, procede calandovi dentro figure esemplari, personalità significative, a conforto e verifica del quadro tracciato. Figure che solo dentro di quello trovano collocazione esatta e piena giustificazione. E può sembrare, ad un approccio superficiale, che la figura “maggiore” sia sacrificata, e quasi messa nell’angolo, da figure “minori”. La Storia della letteratura meridionale è non semplicemente “storia della letteratura” ma, come meglio si definisce nella densa Introduzione, Storia dialettica della civiltà letteraria meridionale. Tutta la luce è sul grumo di problemi che quell’aggettivo, dialettica, comporta ed esprime. La dialettica è quella di modello e antimodello, di un confronto tra Napoli e Firenze: confronto sul piano della lingua e della cultura.
Lo svolgimento della letteratura meridionale, nell’interpretazione di Vallone, è siglato da questo confronto ora evidente ora sotterraneo ma presente sempre, e determinante. La letteratura napoletana «è dinamicamente oppositiva, – scrive Vallone; e aggiunge: – Napoli crea modelli […]; ne sottintende però un altro, diverso dal proprio, con cui si misura e confronta: il toscano. È questa la sua vitalità dialettica, la sua grande forza interna».
È dentro questa prospettiva che trova giustificazione la riflessione critica sulla “civiltà” meridionale e sulla letteratura che ne esprime gli aspetti multiformi. Il discorso di Vallone non ritaglia i puri elementi formali dell’attività letteraria; accanto ad essi, o alla radice, vi sono le motivazioni profonde della società che li esprime. Il cammino della letteratura è anche il cammino della società: questa persuasione anima di ispirazione civile le pagine di Vallone.
Presiede all’opera un lucido disegno, meditato a lungo, composto per linee interne, per aggregazioni tematiche in cui argomenti apparentemente conclusi vengono abilmente rilanciati. Vallone, in un’opera che persegue un intento di alta divulgazione pur nel rigoroso impianto che la distingue, porta a più vasta luce di conoscenza, traendole dall’ombra di studi strettamente specialistici e settoriali, le figure di tanti poeti e scrittori che spesso non troviamo in storie della letteratura di pur notevole mole e di ampia diffusione.
[“Il Titano” Supplemento economico de “il Galatino” del 16 giugno 2009, pp. 19-20]