Ne parlavo con un collega qualche giorno fa. Mi diceva che molto probabilmente, dal momento che il trend non è molto favorevole al latino, noi insegnanti di Lettere ci ridurremo ad insegnare solo l’italiano. Ed aggiungeva di non esserne del tutto scontento, considerato che gli studenti non fanno che copiare la versione, falsificando, dunque, la valutazione dell’apprendimento.
In effetti, se copiare la traduzione è un esercizio vecchio quanto la scuola, negli ultimi anni l’uso dei cellulari ha accentuato questa pratica a tal punto da renderla insopportabile. E taluni importanti docimologi, ossia esperti della valutazione, si sono affrettati a coniare, naturalmente in inglese, una definizione del fenomeno, cosiddetto cheating.
In realtà, lo studente copia perché è ancora una volta oggetto di un inganno e di una sopraffazione: gli si richiede di mettere in pratica un’abilità ch’egli non può possedere, se non in minima parte, per motivi che riguardano senza alcun dubbio l’assenza dello studio di questa lingua nella scuola media e la diminuzione delle ore di latino in quella superiore. A fronte di tutto questo, perché continuare a chiedere la traduzione di un passo di Cicerone ad uno studente che a malapena ha imparato le cinque declinazioni? E non sarebbe più utile, dopo il necessario e preliminare studio linguistico, leggere gli autori latini avvalendosi, senza alcun timore o ipocrisia, delle traduzioni con testo a fronte? Sono del parere che i nostri studenti potrebbero leggere con piacere e con grandissima utilità un testo di Plauto o di Terenzio, di Cicerone o di Apuleio, sempre che i docenti capissero che di un libro con testo a fronte non ci si deve vergognare, bensì bisogna utilizzarlo per attingere meglio al messaggio degli antichi, a quanto essi hanno ancora da dirci. I docenti di latino dovrebbero ricordare che l’iniziatore della letteratura latina, Livio Andronico, di Taranto, tradusse in latino l’Odissea di Omero, che utilizzava come testo a fronte per insegnare il latino e il greco ai figli del Salinatore. Perché noi non dobbiamo fare altrettanto con la lingua italiana e latina?
Noi non dobbiamo fare dei nostri allievi dei latinisti, come non dobbiamo farne dei matematici, dei fisici, degli storici, dei filosofi, ecc. A questo ci penserà l’Università. Noi abbiamo il compito di far conoscere ai nostri allievi il mondo che ci ha preceduto, senza il quale la nostra civiltà non avrebbe avuto luogo e noi saremmo diversi da quello che siamo. Quando il latino non sarà più studiato, nessuno saprà più che cos’era l’amore cantato da Catullo né cosa ne pensasse Lucrezio, non conoscerà l’arte dell’oratore di Cicerone né saprà chi sono Enea e Didone, nulla gli dirà la pacata saggezza di Orazio, e di Seneca dirà: “Chi era costui?”; e così gli rimarrà sconosciuto il romanzo di Petronio e quello di Apuleio, e di Agostino apprenderà solo ciò che gli verrà detto in qualche dubbia fiction televisiva. Il nostro futuro liceale potrà fare a meno di tutto questo? Certamente sì, dal momento che in molti licei già ora queste cose non si studiano. Ed io sono del parere che si possa vivere anche senza latino; ma al prezzo di quale deminutio? Nessuno saprà più nulla della civiltà del latino, anche le università non sapranno più a chi insegnarlo. La nostra società allora ci apparirà come un malato che si sia risvegliato da un coma senza più memoria delle cose lontane. La fine del latino provocherà – ma il processo è già in atto – il più grave disorientamento culturale che la storia ricordi. Ma noi vogliamo davvero tutto questo?
[Quel che posso dire, Edit Santoro, Galatina 2016, pp. 68-72]