In altri passaggi dello stesso trattato Dante ricorda i testi che segnano l’avvio della straordinaria tradizione lirica della nostra lingua. Tra le composizioni dei «molti maestri nativi dell’isola» che «hanno nobilmente cantato» seleziona, senza citare il nome dell’autore, due «famose canzoni» di Guido delle Colonne; e, tra i poeti nativi dell’Apulia, segnala alcuni che «si sono particolarmente distinti per essersi espressi in maniera raffinata, scegliendo per le loro canzoni i vocaboli più elevati, come appare evidente se si guarda alle loro poesie», per esempio Giacomo da Lentini e Rinaldo d’Aquino. Questi poeti hanno saputo produrre composizioni eccellenti, staccandosi dalla maniera «oscena» con la quale normalmente parlano i nativi della regione.
Dante si occupa dei Poeti della Scuola siciliana anche in altri passaggi dello stesso trattato. Nel primo presenta una lista di «maestri di poesia» che «hanno cominciato le loro illustri canzoni con un endecasillabo», di tutti i versi «il più splendido, sia per la sua durata che per quanto riesce a contenere in termini di concetti, di costrutti e di vocaboli». Tra questi i siciliani Guido delle Colonne e Rinaldo d’Aquino e i toscani Cino da Pistoia e l’amico suo (che è il modo allusivo con cui Dante cita sé stesso). Ancora Guido delle Colonne è inserito in un elenco di autori capaci di attingere il grado di costruzione «sapido, elegante ed eccelso insieme, che è dei dettatori illustri», elenco che comprende anche Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e l’amico suo (cioè Dante stesso, come abbiamo visto)..
Una rappresentazione efficace del livello elevato a cui Dante collocava la propria posizione di poeta in rapporto ai predecessori è offerto dal famoso episodio di Purgatorio XXIV, nel quale Dante incontra i golosi della sesta cornice. Il colloquio con il poeta Bonagiunta da Lucca, di una generazione precedente, contiene in successione: il riconoscimento da parte di Bonagiunta del ruolo di innovatore ricoperto da Dante rispetto alla vecchia guardia della poesia; la replica di Dante, che spiega in cosa consiste la novità; la conclusiva dichiarazione di resa da parte di Bonagiunta, segnata dalla posizione di Giacomo da Lentini, di Guittone d’Arezzo e dello stesso Bonagiunta al di qua della nuova maniera poetica stilnovistica rappresentata da Dante e dai suoi amici, che fanno parte del gruppo poetico vincente, nel quale (assegnato a Guido Guinizelli il ruolo di padre) vanno inclusi almeno anche Cavalcanti e Cino da Pistoia.
Nella ricostruzione linguistica e storica che interessa le fasi più antiche della nostra poesia e i rapporti intercorsi tra gli autori di quei decenni una particolare importanza riveste l’approdo in Toscana e la fissazione fisica, cioè manoscritta, delle poesie della Scuola siciliana nella forma in cui furono conosciute dai lettori dell’epoca e dei secoli successivi, fino ad oggi. Ogni valutazione concernente la lingua usata da quei rimatori deve tener conto del fatto che le poesie della Scuola non sono giunte in originale ma grazie alla trascrizione operata, vari decenni più tardi, dai copisti che trascrissero i manoscritti con cui quei testi si diffusero. Si tratta di trascrizioni non solo abbastanza lontane nel tempo rispetto alla fase di prima stesura delle poesie, ma soprattutto dislocate nello spazio, in quanto avvenute in area toscana, vale a dire in zona linguisticamente assai diversa rispetto all’ambiente meridionale di origine. Il trasferimento comporta che la lingua di quei testi rappresenti il risultato di una forte torsione rispetto alla veste di partenza, un vero e proprio salto da un sistema linguistico a un altro. L’intervento dei copisti produce un’opera massiccia, di ibridazione della lingua originaria con la propria. Il risultato può indurre in errore chiunque legga i testi antichi senza tener di questo fenomeno.
Dante dunque leggeva le poesie della Scuola siciliana in una veste molto diversa dall’originale, con un certo numero di sicilianismi mantenuti in una lingua per il resto toscanizzata. Il travestimento in toscano rendeva quei testi accettabili agli occhi di un lettore esigente come Dante: essi rappresentavano la tradizione, che andava accettata anche per la forza della storia. Si spiega così la presenza nella letteratura successiva di forme di origine siciliana (non salentina né pugliese, lo scrivo ancora una volta): «core» (invece di cuore), «fera» (invece di fiera), «loco» (invece di luoco / luogo), «novo» (invece di nuovo), dei pronomi personali «nui» (invece di noi) e «vui» (invece di voi), del pronome e congiunzione «ca» (invece di che), di indicativi presenti come «aggio»(invece di ho) e di «saccio» (invece di so), di parole come «disio» (invece di desiderio) e «disiare» (invece di desiderare). Alcuni di questi sicilianismi si leggono in Dante, in particolare nelle rime giovanili, quanto ancora non lavorava alla Divina Commedia. Entrati nel patrimonio della lingua letteraria essi si continuano per secoli. L’esempio forse più noto dell’utilizzazione in poesia di un antico tratto siciliano è il «nui» dell’ode manzoniana «Il cinque maggio», composta per la morte di Napoleone: «nui / chiniam la fronte». Il milanese Manzoni nella sua lingua parlata non diceva «nui», forma viva ancor oggi nel Meridione; Manzoni usava in poesia quel pronome perché lo trovava nei componimenti della Scuola siciliana, e perciò lo giudicava nobile.
Per concludere. Le poesie della Scuola siciliana, composte in siciliano illustre e in molta parte depurate dai tratti idiomatici più marcati, trascritte dai copisti toscani, attraverso la mediazione di Dante e di altri poeti, hanno contribuito in maniera significativa alla formazione della lingua italiana che, con gli ovvi adattamenti e con le ovvie modifiche determinate dal tempo, è quella che ancor oggi noi usiamo per parlare e per scrivere.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 13 febbraio 2022]