Di mestiere faccio il linguista 19. Dante e le origini della lingua italiana

di Rosario Coluccia

«In verità quei grandi e illuminati signori, l’imperatore Federico e il suo bennato figlio Manfredi, hanno mostrato tutta la nobiltà e rettitudine del loro animo, e finché la fortuna l’ha permesso si sono comportati da veri uomini, rifiutando con spregio di comportarsi da bestie. Proprio per questo chi aveva nobiltà di cuore e abbondanza di doni divini si è sforzato di tenersi a stretto contatto con la maestà di così grandi signori, sì che a quel tempo tutto quello che i migliori degli Italiani producevano nasceva alla corte di quei grandi re. E poiché la Sicilia era la sede regale, è avvenuto che quello che i nostri predecessori hanno prodotto in volgare si chiamasse “siciliano”: cosa che tutti noi accettiamo e che i nostri posteri non potranno mutare».

Queste parole famose del «De vulgari eloquentia» (d’ora in avanti DVE) certificano l’importanza che Dante attribuisce alla Scuola poetica siciliana, nata alla corte del grande imperatore Federico II di Svevia (1194-1250), che nel ricordo dantesco è accompagnato da suo figlio Manfredi, reggente e poi re di Sicilia dopo la morte del padre, sconfitto e ucciso da Carlo d’Angiò a Benevento nel 1266. Il DVE è il più importante trattato di linguistica dell’Europa medievale. Composto in latino da Dante tra l’estate del 1304 e la fine del 1305 (o i primi mesi del 1306), è rivolto all’individuazione della lingua letteraria, il “volgare” che lui definiva  «illustre, cardinale, aulico e curiale».  Mancava ai tempi di Dante in Italia un luogo dove trovare la lingua a cui lui dava la caccia; al contrario, questa sede  esisteva al tempo di Federico II e di Manfredi, ed era la corte di quella dinastia.

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