La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino. Filosofie film narrazioni 13. Weltanschauung, ironia e satira. “Il Travaso delle idee”

La storia de “Il Travaso delle idee” è abbastanza nota. Il giornale satirico apparve nel febbraio del 1900, diretto da Filiberto Scarpelli, con Carlo Montani, Marchetti, Tolomei e Yambo. Il periodico si era ispirato al foglio omonimo “Il travaso d’idee nella mia recipiente testa fatto da corpi animati e inanimati travaso nell’altrui recipienti teste”, che era stato realizzato da un personaggio stranissimo, definito “un filosofo da strada”, filosofo perché presentava per i lettori una sua “filosofia”, e “da strada” anche, ma presumiamo non solo, perché vendeva le copie per strada. Si chiamava Tito Livio Facondo Cianchettini e rese famoso il suo motto “Accidenti ai capezzatori”, ossia a “coloro che vorrebbero impormi capezza come a bestia da tiro o da soma”. “Capezza” era corruzione di “cavezza”. Il motto sarà ripreso nella testata della nuova rivista satirica, il cui disegno fu eseguito da Filippo Scarpelli che vi aggiunse il pupazzetto del Cianchettini.

Il primo numero apparve domenica 25 febbraio 1900. Dopo meno di due anni, il 12 dicembre 1901, nacque “Il Travaso quotidiano”, diretto da Gandolin, pseudonimo di Luigi Arnaldo Vassallo (1852-1906) che fu tra l’altro autore della rubrica dedicata alla Famiglia de’ Tappetti e di dodici monologhi. Il successo fu progressivo al punto, che nato, in età giolittiana ed affermatosi agli inizi del fascismo, “Il Travaso” raggiunse trecentomila copie grazie ad una satira che talvolta colpiva anche Mussolini. Ai collaboratori veniva rilasciato uno scherzoso attestato con nomina a “Pescatore di Perle”.

Persino Antonio Gramsci era lettore del “Travaso”. Infatti in uno dei quaderni del carcere (5, IX, 1930-1932), riprende la “Civiltà Cattolica” del 2 marzo 1929 che aveva fatto il conto degli “scrittori cattolici viventi”. Gramsci riporta che la rivista dei gesuiti “si augura che, allargati i quadri (inclusione giornalisti e pubblicisti) e vinta la ritrosia dei ‘modesti’, l’elenco italiano si raddoppi. Il che sarebbe sempre ben poco”. Gramsci osserva:

Il curioso è che la “Civiltà Cattolica” parla di “snidare alcuni dalla propria modestia” e accenna all’‘orientalista prof. P. S. Rivetta, il quale se è modesto come “orientalista” e come “prof. P. S. Rivetta”, non è certo modesto come “Toddi”, freddurista del “Travaso delle idee”, e redattore del foglio “Via Vittorio Veneto” per le garçonnes e per i frequentatori dei caffè di lusso e per tutti gli snobs[40].

Con il “Travaso delle idee”, da gennaio 1947 fino al 1955, furono pubblicati anche i supplementi mensili “Travasissimo”. Il numero 41 del gennaio 1951 fu sequestrato a causa di una vignetta in ultima pagina che metteva in ridicolo la repressione dei poliziotti, i “celerini”, ordinata dal ministro degli interni Scelba contro le manifestazioni operaie. Il numero venne sostituito dal numero 41bis dedicato alla memoria di Trilussa, sicuramente il più prestigioso autore della rivista, morto improvvisamente. L’1 dicembre 1950 Trilussa era stato nominato senatore a vita; venti giorni dopo morì e gli si dedicò quel numero speciale, con alcuni inediti, che era già stato impaginato dallo stesso Trilussa.

1. Da Giolitti a Mussolini

La satira contra la classe politica è uno dei leitmotiv ricorrenti nella storia del “Travaso”. Nel 1904, quando gli onorevoli delle due Camere votano all’unanimità l’istituzione dell’indennità parlamentare, sul periodico si legge:

Venga, ben venga a dar coraggio e lume

a questi eroici del lavoro figli

l’indennità modesta

dalla pietà richiesta,

che a bene oprare ognora li consigli.

Allor soltanto il nostro Parlamento

potrà dirsi un teatro a pagamento. (p. 23)

Nello stesso anno si ebbe la scissione socialista dopo lo sciopero generale: da una parte Turati e dall’altra Ferri. È l’occasione per una parodia dell’inno manzoniano:

S’ode a destra uno squillo di tromba,

a Milano risponde uno squillo

ed ancora

Elettori il partito è finito!

Son finiti i suoi giorni più belli:

i fratelli hanno ucciso i fratelli,

questa orrenda novella vi do. (p. 30)

Ancora più dura è la rivista quando, un anno dopo, cade il ministero Sonnino. “Il Travaso” (p. 33) compone una lapide con un epitaffio:

Qui giace il Gabinetto Sonnino

esso fu sempre

cogli one-

sti.

La rivista non perde occasione per stigmatizzare i mali della politica nostrana. Tra questi è il trasformismo dileggiato dai versi di Trilussa (Er ministro novo):

Poiché da socialista intransigente,

un giorno diventò repubblicano,

poi, doppo, radicale e piano piano

sortì dar gruppo e fece er dissidente.

Adesso? È ricevuto ar Quirinale,

e siccome è ministro, nun te ne nego

che sia ‘na conseguenza naturale.

Però nun so capì co’ che criterio

chiacchieri cor sovrano e nu me spiego

come faccia er sovrano a restà serio.

Così come, non si perde occasione di mettere alla berlina intellettuali famosi che facevano opinione. Avviene anche con questi versi del 1911 il cui bersaglio è Giovanni Papini, nella fase del suo futurismo:

Papini, futurista di cervello,

– che gli funziona male in verità, –

vuol distruggere tutto quel ch’è bello –

tant’egli è certo che si salverà. (p. 50).

2. La Chiesa e i pontefici

“Il Travaso” prende spesso a bersaglio personaggi o politiche del Vaticano. Nel 1904, in occasione della visita del parlamentare italiano Felice Santini al papa, sulla rivista apparve una vignetta con la quale si ironizzava sulla celebrazione delle nozze tra Stato e Chiesa, officiate da Giolitti, soprannominato dai nostri Palamidone, e Bepi, che altri non era che Pio X, e un giovinetto impersonante lo Stato italiano.

A Papa Sarto, il romagnolo Olindo Guerrini, usando lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, dedicherà Le ciàcole di Bepi, scritte in veneto. Sono versi in cui si mettono in evidenza, attraverso frasi attribuite allo stesso papa, la sua bonomia e la sua genuinità. In un numero del 1905 leggiamo:

Tutti i cerca raspar per ogni verso,

nessuno pensa a Dio, tuti a la panza,

se va mal in Italia e pezo in Franza

e al primo temporal semo a traverso.

Quanto alla verità povera e nuda,

sol Gesù Cristo la conosse in cielo:

degli Apostoli poi de l’Evangelo

chi ghé rimasto? A malapena Giuda. (p. 32)

Non così è con altri pontefici, ad esempio, con Benedetto XV – Giacomo Della Chiesa – ribattezzato Benanetto. Lorenzo Stecchetti, che si era allontanato dal “Travaso” dopo la morte di Pio X, vi fa ritorno con versi di fuoco. A Roma il numero che porta le stilettate del Guerrini si esaurisce in ventiquattro ore, benché la copie distribuite fossero il triplo del consueto. In  Sanctissimo è stigmatizzata la voglia di potere politico del pontefice:

Scaltro pastor che per coperte vie

muovi, come la volpe, il cauto pie’,

e con l’astuzia e le lusinghe pie

tornar vorresti ancora il Re dei Re.

Invan con la malizia e con l’ingegno

tenti di mascherar la verità.

Non è la strage ma il perduto regno

che ti contrasta e dolorar ti fa.

Non a te certo incanutì la chioma

su l’Evangelio santo di Gesù,

ma nello studio di regnar su Roma

non come Iddio la volle, ma come fu. (p. 61)

I decenni passano e gli eventi della Chiesa continuano ad interessare la satira del periodico, sino alla fine o quasi della testata. In un numero del 1965 si parla della chiusura del Concilio vaticano II e appare una vignetta dal titolo: Uno “strano” osservatore. Chi è costui? Tra tante teste di vescovi si nota figura di Martin Lutero, segno evidente di una presumibile non condivisione della progettualità innovativa decisa dal consesso ecclesiale. (p. 234)

3. Il Fascismo e l’opposizione

Nel 1921 il giornale passa da Vanzi a Guasta. Quando sono indette le elezioni politiche, Mussolini assicura che i fascisti terranno “un comportamento estremamente corretto”. “Il Travaso” ne è scettico. E le vignette sul tema sono numerose. In una, un elettore dice a un altro: “Entra, coraggio, fa’ il tuo dovere…” e l’altro: “già, ma io sono armato della sola scheda”. (p. 73)

Nello stesso anno è pubblicata una vignetta di Guasta dove sono tre immagini in cui un leone si trasforma in Mussolini e una palma, alle spalle, in manganello. La didascalia: “Le bestie umane. Rubrica quasi scientifica, metà zoo, metà logica e metà..morfosi, nella quale si vede come – con buona pace del Signor Darwin – non tutti gli uomini discendono dalle scimmie”[41]. Nel 1922, leggiamo che gli italiani sono divisi in tre soli partiti: fascisti, filofascisti, fifafascisti.

Inoltre appaiono due vignette di Camerini: una intitolata Il governo d’una volta vede una carrozza sgangherata tirata da due cavalli macilenti, a loro volta tirati da Palamidone (Giolitti), un prete (Sturzo) e vari personaggi politici. All’interno una emaciata Italia. La seconda, dal titolo … e quello d’oggi, presentaun’automobile da corsa guidata da Mussolini, che manda in area il prete e investe altri politici. L’auto, dietro, ha una calotta di carro armato da cui escono cannoncini. L’Italia qui sorride[42].

La simpatia verso il regime è palese. Dal 1923 appare la vignetta di Mussolini seguito dal Padreterno, che viene disegnato più piccolo del primo, e poi da un leone ancora più piccolo. Quando si introduce la censura, siamo nel 1925, riappare Tito Livio Cianchettini che mette la propria testa in una cassa e afferma: “Mi conviene metterla da parte… tanto non si può più usare”. Sulla schiena ha un cartello con su scritto: “Accidenti ai…” e poi un altro cartello: “Censura”. (p. 83)

Nel 1926 la direzione passa a Scarpelli, che ammorbidisce la linea. Altro bersaglio sono i comunisti di cui si evidenzia il contrasto col regime. In un disegno troviamo “gli uni” e “gli altri”. Gli uni sono seduti su una grossa bomba: Amendola: “Il pericolo bolscevico? Ma non esiste!…” Turati: “Difatti; se ci fosse, guardandoci intorno lo dovremmo vedere…” E gli altri: Farinacci (e Balbo) sul tavolo c’è un cappello a cilindro: “Una bomba!!!… Abbiamo scoperto un attentato comunista! La polemica contro il comunismo sovietico continua”. Nel 1932, in una vignetta di De Seta, vediamo due ombre maschili nere: “Nel paese dei Soviety molte donne si chiamano Cooperativa” e l’amico ribatte: “Si chiamano soltanto?”[43]

Due anni dopo, in una vignetta di Bompard, sono due donne, di cui una che fuma: “Da noi, in Russia, la donna fa il soldato!”, “Da noi, in Italia, la donna fa i soldati!”[44] La politica demografica del fascismo fa testo. Anche nel 1938, in pieno clima di euforia imperialistica, in una vignetta di De Seta, Arrivi in A. O., un uomo e una donna sono davanti ad una gip e sullo sfondo sono disegnate le montagne africane. La moglie: “Senti caro: hai risolto da solo i problemi militari, quelli logistici, quelli sanitari, stradali, industriali, agricoli, ma il problema demografico lo devi risolvere con me…”[45]. Dello stesso anno è Ritorno del legionario. La fidanzata: “Speriamo che adesso ti riposerai dopo tante battaglie!…” Il volontario: “Ma che dici?!… Adesso devo vincere la battaglia demografica”[46].

Ma non mancano segnalazioni dei limiti della realtà politica e sociale del ventennio. Per esempio, nella vignetta (1931) “I treni popolari estivi”, con  il capofamiglia che entra a casa urlando festante:  “Allegri, sono riuscito a prenotarmi per la prossima estate”.

E quando dal 1934 non si possono usare termini stranieri e c’è il divieto del “lei”, la satira deborda, trasferendosi anche sul piano sessuale. Infatti “Manon Ladò”, sorella di “Sisì”, scrive A Lucio passando progressivamente dal lei, che indica distanza, al voi che non ammette confidenza, per giungere alfine al tu che è affettuoso e paritario:

Lucio mi sei simpatico

nonostante quel fare

frigido, chiuso, apatico,

sento che ti amerei:

ma… dandoti del lei.

Un giorno, rotto il ghiaccio

dopo sei mesi almeno,

tu con un lieve abbraccio

mi stringeresti al seno

e da quel giorno in poi

io ti darei dal voi.

Dal midollo alla scorza,

divamperebbe il fuoco

che nessun’acqua smorza

e, dell’amor nel giuoco

tuffandomi ancor più,

oh, ti darei del tu!

Se poi, senza ritegno,

la passione selvaggia

andasse oltre quel segno

che fa la donna saggia,

allor, fra tu, voi, lei…

chissà che ti darei! (p. 106)

Inizia il tormentone delle sanzioni contro l’Italia: nel 1936 troviamo una vignetta con un angelo emaciato e l’olivo in mano davanti ad un “termometro politico” che ha in salita: sereno, sanzioni, embargo (poco prima di questo si ferma il mercurio), blocco, guerra. Nel 1937, nell’anniversario dell’Impero, i rappresentanti dei governi sanzionisti, guardando di nascosto le manifestazioni: “A noi non ci hanno invitati… Eppure anche noi abbiamo collaborato a crearlo…” (p. 118)

L’autarchia è anche nell’arte, come in Non più film stranieri, che è il titolo di un disegno del 1938, che rappresenta un gruppo di cavalieri medievali con l’asta in pugno, pronti a competere. Sono indicati i nomi: Blasetti, Materazzo, Righelli, Gallone, Bonnard, Malasomma, Vergano, D’Errico, Mastrocinque, Brignone, Bragaglia, Mattoli, Palermo.

Quindi comincia il clima di guerra. Troviamo Sezione di un proiettile ad alto esplosivo modello 1939 dove sono rappresentati i nemici dell’Italia e del fascismoÈ un proiettile a 6 strati. Dall’alto in basso vediamo: personaggi con cartelli “profittatori” e “accaparratori”; negri che sfilano in cilindro e alle spalle i cannoni; una riunione di ebrei; alcune testate famose francesi e inglesi; un incappucciato con le insegne massoniche; un volume dal titolo Trattato di Versaglia[47].

Più preoccupante, nello stesso anno, il disegno con due omini: “Beh stasera dove ci vediamo?”, mentre una bomba sta per cadere sulla loro testa (p. 126). E con la guerra una nuova tipologia umana. Siamo nel 1940: Salotti mondani. Il mormoratore: “Compermesso, signore. Vado un momento a sfogarmi in un angolino e torno subito…” (p. 131). E una copertina de “Il Travaso – Numero speciale” porta lo stemma inglese: a sinistra un leone malconcio, a destra un asino incatenato e sotto la didascalia: “Storia d’Inghilterra dalle origini alle fine”[48].

Ma, con pari efficacia, sono segnalati i problemi reali. Siamo nel 1941 e un signore dice alla moglie, guardando la figlia che seduta sul lettino legge un libro: “Non mi piace che la bimba si dia a letture che eccitano la fantasia: è tutto il giorno che legge l’Artusi”. (p. 140)

La situazione peggiora. Nel 1942 il Minculpop impone ai giornali satirici di pubblicare un’edizione in tedesco. Anche Il Travaso lo fa, inserendo i nomi dei collaboratori sin dalla fondazione, ma omettendo Guasta, che il regime aveva epurato nel 1926.

E per finire questo schizzo sul rapporto “Il Travaso”-fascismo, va ricordato che Mussolini doveva  autorizzare le poesie di Trilussa. Quando questi scrisse il componimento Però…, Mussolini lo tenne tre mesi e poi firmò l’imprimatur con la solita M. Nel numero dedicato al poeta romano appena morto è riportato un immaginario, crediamo, dialogo sulla M. mussoliniana:  “Ci si vede ‘l’uomo fatale’ – osservò un amico a Tri[lussa]. ‘Pure Napoleone firmava una condanna o una grazia, con la semplice iniziale’. E Tri, serafico: ‘Qui, però, c’è una zampa in più’ ”. (p. 186)

Vediamo solo le strofe finali del famoso Però…

Ecchete che una sera er Re je chiese:

– Sete d’accordo tutti quanti? – E allora

de centomila bocche non s’intese

che un “Sì” allungato, che durò mezz’ora.

Solamente un ometto scantonò

e, appena detto “Sì”, disse “Però…”.

V’immaginate quello che successe!

– Bisogna bastonallo! – urlò la folla –

L’indecisioni nun so’ più permesse

sennò ricominciamo er tir’e molla…

– Lasciate che me spieghi, eppoi vedremo…

-disse l’ometto che nun era scemo.

Defatti, appena il Re cià domannato

s’eravamo d’accordo, j’ho risposto

ner modo ch’avevamo combinato;

ma un bon amico che me stava accosto,

pe’ fasse largo, proprio in quer momento

m’ha acciaccato li calli a tradimento.

Io, dunque, nun ho fatto una protesta:

quer “però” che m’è uscito in bona fede

più che un pensiero che ciavevo in testa

era un dolore che sentivo ar piede.

Però – dicevo – è inutile, se poi

se pistiamo li calli fra de noi.

Quanno per ambizzione o per guadagno

uno non guarda più dove cammina

e monta su li calli der compagno

va tutto a danno de la disciplina… –

Fu allora che la folla persuasa

disse: – Va be’… Però… stattene a casa. (p. 187).

4. Post-fascismo e democrazia

Il 1945 è anno di sospensione di tutti i giornali romani. Nel 1946, alla ripresa, la rivista torna ad essere diretta da Guasta. Comincia la satira contro la nuova classe politica.

Disegno di corazzieri e chierichetti; didascalia: “Corazzieri e corazzoggi” (p. 149). 4 agosto 1946, in copertina: “Governo di coalizione”. Troviamo Togliatti e De Gasperi che duellano. Due occhielli: “De Gasperi e i socialcomunisti hanno lo stesso programma”: “Fregarsi a vicenda”. (p. 150)

Nel dicembre 1946: “Il malanno di ieri: La Camera dei Fasci e delle Corporazioni”; “I malanni di oggi: La Camera dei Falci e delle Complicazioni”. (p. 151)

E la penuria delle fonti di energia fa sì che l’Italietta, davanti al camino da cui pende una calza, rattoppata, a forma d’Italia, scriva alla Befana: “Cara Befana, io sono stata fascista per 20 anni; ho fatto la guerra a fianco dei tedeschi; ho pugnalato alle spalle la Francia; ho tentato di rompere le reni alla Grecia; ho aggredito l’Etiopia e l’Albania… Insomma, sono stata cattiva… Portami tanto carbone!…”. (p. 155)

Nel numero del 29 giugno 1947, dopo che la Costituente ha rieletto il “recalcitrante” De Nicola  (nella la copertina si vede il busto che rimane attaccato alla poltrone; le gambe sono andate via) Capo provvisorio dello Stato, così il suo soprannome diviene sintetizzato in quattro pr: Pr Pr Pr Pr: Primo Presidente Provvisorio Prorogato (p. 157). Chiaramente il tutto richiama, onomatopeicamente un versaccio sul quale fece una famosa lezione Eduardo De Filippo in L’oro di Napoli, film del 1954, regista Vittorio De Sica.

Nel 1948, la Costituzione prevede le Regioni. In una pagina della rivista si vede l’Italia fatta a pezzi che sono sparsi per terra. Poi c’è De Gasperi, con un coltellaccio dove è scritto “Costituzione”, e dice ai carabinieri: “Mica l’ho uccisa io!… La poveretta è vittima della sua cattiva Costituzione…” (Questo sarà l’alibi, p. 161).

Dopo il famoso attentato a Togliatti, il ministro Scelba si lamenta: “Deploro, stigmatizzo ed esprimo il più accorato sdegno, ma mi sa tanto che se fossero stati al governo i comunisti e Antonio Pallante  avesse attentato a me, lo avrebbero fatto senatore di diritto…”. (p. 164)

Nel 1949 ancora un confronto col regime: Rompiscatole di ieri “(Mussolini) ‘Italiani, in piedi!’ Di oggi (Di Vittorio con un cartello: Scioperi Ferrotramviari): ‘ Italiani, a piedi!’ ”.  (p. 170)

La paura del comunismi circola sempre di più: “Il Foro Italico. ‘La democrazia se ne vanta, ma è stato Mussolini a fare agli italiani questo po’ po’ di Foro.’ ‘Sai che roba! Lascia che vinca il Pci, e poi vedi come ce lo fa Togliatti!’…”. (p. 208)

E nel 1953, davanti a palazzo Venezia il popolo urla Lu-ce Lu-ce: Nostalgici ma furbi “Volevano arrestarli per apologia del passato regime, ma sostengono che stanno dimostrando a favore dell’ambasciatrice degli Stati Uniti d’America”. (p. 207)

Un anno dopo, in un disegno, la maestrina corregge un tema di Pierino che ha scritto: “L’Italia è uno Stato pretamente democratico” e lo rimprovera: “Pierino, prettamente si scrive con due t”. E il bambino: “Lasci andare, signora maestra, so io quel che mi dico!…”. (p. 175)

In riferimento a Trilussa nominato senatore a vita, il numero speciale, impaginato prima che morisse, ha in copertina un sillogismo aristotelico-trilussiano: “Senatus mala bestia. – Trilussa, poeta degli animali. – Ergo: il Senato ha trovato il suo poeta”. (p. 181)

Ma la povertà rimane ancora. 1951: Statale in autobus “Come, vi hanno rubato lo stipendio e ridete?! – Sì, perché era al netto delle ritenute… Stavo pensando che se il ladro ha pagato il biglietto ci ha rimesso…”. (p. 202)

E per finire, una nota di costume, all’interno della satira contro l’esistenzialismo francese (1954): Esistenzialisti “Hai una chiazza di pulito sul “montgomery”… “Ma già: devo essermi macchiato con la benzina…” (p. 211). Quanto alla satira contro l’igiene e la sporcizia materiale degli esistenzialisti si è già detto abbastanza nel saggio su Totò.

5. Oronzo E. Marginati

Tra i personaggi fissi che resero famoso “Il Travaso”, uno fu senz’altro quello creato nella rubrica di Luigi Lucatelli: Oronzo E. Marginati e le sue lettere. Guasta ricorda che lo stesso Lucatelli si compiaceva con gli amici di apparire sotto due aspetti diversi: era discendente di una delle ultime vittime del patibolo pontificio e figlio di una madre uscita dalla piccola borghesia romana, “quella borghesia minima che, ancora alla vigilia della Breccia, non sapeva persuadersi che il quieto vivere dell’Urbe potesse essere disturbato dagli obici del generale Cadorna”. (p. 26)

Del suo personaggio scrive persino Gramsci, nel 1934, in carcere: “Il lavoro dell’impiegato è fonte inesausta di comicità; in ogni impiegato si vede l’Oronzo E. Marginati del vecchio ‘Travaso’”[49]. Nel febbraio del 1904 appare la prima puntata delle lettere di Oronzo E. Marginati. Costui è un cittadino scontento, modesto impiegato statale, quasi il Travet della situazione. Si firma “Membro onorario, Ufficiale di scrittura ecc…”; successivamente si firma anche “ex-candidato”. La sua famiglia è composta dalla moglie Terresina, dall’“amico di famiglia”, in particolare amico della moglie…, ed è sor Filippo, afflitto dal “solito incommodo”, e dalla prole: il “pupo – è Guasta a dirlo – che non si decidono a chiamare Oronzippo o Filipponzo per non far torto né all’uno né all’altro dei due uomini di famiglia”.

Le lettere di Oronzo sono in linguaggio tra ciociaro e spoletino che richiama quello del Sor Clemente, portato sulle scene, in televisione e in cinema da Alberto Talegalli. Presentiamo qui alcuni brani presi da quell’epistolario che è tutto impostato sulla educazione del figlio. Non a caso Lucatelli ne raccolse una parte nel volume Come ti erudisco il pupo. Nel 1907, centenario della nascita di Garibaldi, Oronzo E. Marginati, in una lettera al “signor cronista”, narra di aver accompagnato il pupo al Gianicolo, “come l’antichi Romani ti accompagnavano i figli alle Termopili”, e al figlio aveva detto:

Laddoveché guarda bene quella statuva e aricordati che ci ha, non fo per dire, un mazzarello in mano. Quando sarà il giorno della riscossa, che i galantuomini metteranno sotto i boglia, lui zomperà giù con quell’arnese in  mano e allora che ti voi vede’: Pìmfete e Pàmfete!… Pezzi di sor Bonaventura che zompeno a destra, frammenti di capisezzioni che volene per aria, bogliaccia che scappeno, interessi di Roma che si arefuggeno in sacrestia e sorbe, sleppe, birole, papagni, leccamuffi, sgargamelle, pignoli, svèntole, come piovessero su tutta la massa dei profumoni che, non fo per dire, sono leggione. E quando averà sistemato le cose, verà quassù e si arifermerà il mazzarello. Col quale ci stringo la mano e mi credi di lei devotissimo. (p. 40)

Un anno dopo, invece, obiettivo è Basiliola Faledra, protagonista de La Nave di D’Annunzio. A detta di Oronzo, questa donna è una “zozzagliona”, “una trebbiatrice d’ommini”:

Il peggio è che l’esempio è contaggioso, per cui Terresina [la moglie] l’altro giorno me te se n’esce con seguente frase che ancora si ci aripenso me te si drizzano in testa i consuveti 3 peli: – Dice, che te ne fai dal focolaglio domestico? Arma, piuttosto, si ci hai coraggio, la prora e salpa come si fusse gnente verso il mondo!!  Raggione per cui rimasi impressionatissimo e la notte me te sognai la fossa Fuglia e mi messi a strillare tra le veglia e il sogno: Agliuto che vi casco dentro. Per cui lei mi tocca con mano che di questo passo il teatro educatore ti riva a un punto che si si salva l’onore della statua di Madama Lugrezzia, è proprio perché ce n’è un pezzo solo. (p. 41) [50]

6. Maria Tegami

Il personaggio nasce con la rubrica di Trilussa Le lettere di Maria Tegami. Già nel 1903 se n’era fatto un volumetto dal titolo Maria Tegami intima, dato in omaggio agli abbonati. Di lei Guasta scrive che era una donnina “di manica larga in fatto di morale, con velleità letterarie inversamente proporzionali alla scarsa cultura e che, volendosi dare con tutta l’anima alla politica, si dà ai politici anima e corpo” (p. 36). C’è anche un’autobiografia: “Da piccola ero piuttosto bionda e ci avevo una voglia di caffè e latte da una parte perché mammà lo pigliava tutte le mattine”. Ed ancora:

Fui messa in collegio dove ci rimasi fino a diciotto anni. Mia madre me veniva a trovare un giorno sì e un giorno no, con uno grasso e calvo che era pure mio padre. Mi portava i dolci e i “smaron glasé”. Molte volte baciavo quell’uomo dalle gratelle del parlatorio avanti alla superiora ma mi pareva che nell’amplesso superficiale lui non fosse paterno come si deve. Quei baci mi facevano male; mi scuotevano tutte le fibre e mammà lo capiva per aria. Io pure comprendevo che l’affare non doveva essere liscio e un giorno che lui venne solo ci dissi a brucia pelo: Ma è proprio vero che tu sei mio padre? Lui, che si vedeva davanti una bambina che ci faceva un discorso così serio, diventò rosso, tossì e mi rispose: No, bambina. Io sono perito agrimensore. Come piansi quel giorno… (p. 36)

Inutile qui ribadire che, al di là dello scherzo trilussiano, è palese la ricerca d’identità e il desiderio di conoscere il padre e non.. un agrimensore.

Il personaggio divenne tanto famoso da essere rappresentato al Salone Margherita da NicolaMaldacea che recitava una macchietta scrittagli da Trilussa:

La vita della donna è un punto nero!

A quindici anni già lo presentivo

e in forza ai sentimenti che sentivo

decisi di scappar dal monastero…

Ma scavalcando il muro del giardino

pieno di vetri e di bottiglie rotte

fui ferita nel cuore della notte

nonché nell’amor proprio. Era destino.

Scusi, chiesi poi al medico, vorrei

sapere se si vedrà la cicatrice…

Lui, con la vecchia storia che si dice,

mi fece: ciò dipenderà da lei… (p. 37)

Nella sua falsa ingenuità, Maria Tegami fa allusione anche ad un onorevole dell’opposizione:

Dopo di questo feci conoscenza

d’altri colleghi suoi, ci fu un momento

che avevo in mano tutto il Parlamento

compresa una grandissima influenza.

Ero di moda allora! La mia stanza

sembrava un’altra Camera, per via

che le riunioni della maggioranza

si facevano sempre a casa mia. (p. 37)

Sennonché nel 1906 una certa Maria Vedrani, sentendosi raffigurata nella donna, citò la rivista per diffamazione ed ingiurie, ma un contatto tra i legali evitò la causa.

7. Clara Tadatti

Guglielmo Guasta al 1911 completa la nuova rubrica femminile L’epistolario di Clara Tadatti. Anche questa era una donna diciamo libera e, tra l’altro, utilizzata dal marito che voleva fare carriera politica. I ricordi della Tadatti iniziano dalla licenza liceale. Ricordo di scuola:

Come un sogno sta impressa nel mio cuore

la lontana licenza liceale,

coi quadri, i voti e l’esaminatore

che mi diede una spinta nell’orale.

Era bello, era giovane, era biondo,

lo sguardo pieno di malinconia:

con una mano sopra il mappamondo

mi domandò: cos’è la geografia?

Io gli risposi la definizione

guardandolo con gli occhi titubanti

e in quell’istante mi si aprì davanti

di tutto l’avvenire la visione.

Perché vidi che mentre mi parlava

s’accostava tacendo, piano piano,

sempre più accanto a me, che palpitavo

e mi guardavo l’unghie della mano.

Tacque un po’, poi mi disse alcuni versi

e il nome dell’autor mi domandò…

Io chiusi gli occhi, quindi li riapersi:

– Monti – gli dissi e lui mi disse: – No!

Chinai la testa con disillusione

quasi piangendo ed egli si commosse.

Mi fece ancora un’interrogazione,

non rispondetti niente e mi promosse. (p. 48)

Nel 1912, il Cavalier Totò Tadatti che pensa di presentarsi candidato, scrive ad un senatore per essere sponsorizzato. Già il luogo di provenienza della lettera è indicativo e il Cavaliere non evita di dire, en passant, che l’adorata Clara lo mette al corrente dei suoi rapporti col senatore:

Buco di sotto, venerdì. Onorevole senatore ed amico, la mia Clara mi tiene al corrente di tutto quello che Voi fate per me e così ho potuto apprezzare al giusto valore quanto mi siete amico contro ogni mio merito. Non mi dite indiscreto perciò se approfitto della vostra amicizia chiedendovi ancora qualche aiuto. Voi lo sapete che non lo faccio egoisticamente per l’ambizione di andare al Parlamento ma un poco anche per un sentimento patriottico che mi dice che se ci sono tanti altri deputati che non valgono nulla, potrò esserci anch’io. Ho saputo che costà a Roma c’è qualcuno che sta mestando per ritirare a galla tutto l’affare del 1911 con le relative responsabilità. Per parte mia vi dichiaro sinceramente che non avrei nulla da temere, perché tutto sommato io ho fatto solamente quattro volte da intermediario per la sub-cessione di appalti di costruzioni a Piazza d’Armi: sì e no ci avrò guadagnato pochi milioncini. Ma siccome ricevute non ce ne sono e gli affari sono affari, così non c’è da correre nessun pericolo. Solamente mi seccherebbe che si facesse l’inchiesta prima delle elezioni, per via dell’avversario che ci ho qui, il quale in piazza è moralista e di tutto approfitta per gettare in faccia il fango ai galantomini. Vedete se vi riesce da far rimandare l’inchiesta a elezioni fatte. Allora tra l’altro ci sarà anche l’immunità parlamentare e le cose si potranno mandare in lungo. Cav. Toto Tadatti. (p. 54)

Qui è l’uomo scaltro che finge di non sapere, e sta al gioco, come stanno gli altri, e sfrutta le situazioni personali ambigue. “Povero cristo” o “uomo di mondo”? Non solo ironia: ma satira, che in trasparenza, condanna.

8. La vedova scaltra

Uno dei personaggi più famosi de “Il Travaso” è “La vedova scaltra”: un donnone che, da piccolo, a chi scrive sembrava simile a Rosina Anselmi, la compagna d’arte di Angelo Musco. Nella vignetta questa donna, vestita a nero, piange sottobraccio a un uomo vestito anch’egli in nero, con cilindro e una corona funebre. Il personaggio era, presumibilmente, di Alberto Giannini. Perché questa vedova è “scaltra”? Perché chiedeva, sì, di unirsi nell’aldilà al marito defunto, ma poneva come condizione la soluzione di problemi irrisolvibili. Ecco alcuni esempi:

“Dio mio, fatemi rivedere un Natale con il termosifone acceso e l’odio spento, e poi raccoglietemi pure accanto a quell’anima benedetta!..” (1946; p. 154);

“Dio mio, fatemi arrivare all’Anno Santo in cui funzioneranno la Stazione di Termini, la Metropolitana e la Litoranea Ostia-Anzio e poi raccoglietemi pure accanto a quell’anima benedetta” (1950; p. 173);

“Dio mio, fatemi arrivare a comprendere l’incomprensibile fenomeno per il quale quanto più petrolio viene scoperto in Italia, tanto più il prezzo della benzina aumenta, e poi raccoglietemi pure accanto a quell’anima benedetta”. (1959; p. 222)

Ancora oggi, quando, soprattutto in politica, si vuol dire che le richieste di qualcuno sono strumentali a un rinvio sine die, si fa riferimento alla vedova scaltra del “Travaso”.

9. La ripresa (?) dell’Italia

Nell’ultimo decennio, quello dei governi democristiani e del primo centrosinistra “Il Travaso” continua l’opera di demistificazione. Così nel 1956 troviamo, in una vignetta intitolata Case popolari,un funzionario che dialoga col dirigente a proposito di un candidato all’abitazione: “Dice che se non gli danno la casa, si ammazza”, “Bene, uno di meno, avanti un altro!” (p. 214). Così pure è richiamata in copertina la forte attenzione alla moda. In Fin saison Schubert: “Mon dernier sforzo creativo: tessuto color burro, decolleté Supermercato a vita altissima, al livello dei prezzi…” (p. 219)

Si criticano anche leggi dall’alto valore sociale come la “legge Merlin”, dal nome della senatrice socialista che l’aveva promossa, che dichiarava fuori legge le case di tolleranza. Nel 1959 troviamo sul periodico: “La serie continua. Assassinata l’ennesima passeggiatrice notturna. La senatrice Merlin: Le mie previsioni si stanno avverando: fra poco non ci saranno più mondane”. (p. 221)

Anche le Olimpiadi a Roma del 1960 sono occasione di scherzoso dileggio pornolalico: “Secondo il Dizionario della lingua italiana di Ferdinando Palazzi. p. 742, prima colonna, settimo vocabolo: ‘L’accentazione olimpìonico è erronea: la retta pronuncia è olimpionìco, con l’accento tonico sulla terza i’ ”. Nella vignetta una tuffatrice che sta a mezz’aria è guardata da due uomini che sorridono e dicono: “Lascia pur che il mondo dica: viva sempre la olimpionìca”. (p. 223)

E veniamo alla dichiarazione delle tasse: Pinocchio ha il naso lunghissimo e piange. “La fatina conosce i suoi polli. Ah, ci risiamo, Pinocchio, hai fatto la denuncia dei redditi!…” (p. 223) Ma c’è di più. Nel 1961, Radiointerviste Napoleone: “Generale Cambronne, ci dica un sua parola sul nuovo modulo Vanoni.” “ …” (p. 227)

È anche il periodo dei sospetti politici e personali. Nel 1961 troviamo una vignetta con  Togliatti che lascia davanti al Parlamento una bomba con cartello scritto: “Il Pci fida solo nella piazza” il commento: “La bomba al p(c.i.)lastico di Togliatti” (p. 227). Nel 1962 un onorevole, che è solo in casa, quando suona il campanello, chiede: “Chi è?” “Amici!”, “Mi dispiace, colonnello, ma io non la conosco!”

Sempre in quell’anno, tra democristiani è in atto la lotta tra Moro e Fanfani. Non manca la vignetta. Lotta clandestina: “Fanfan la nuit”. Si vede Fanfani che, di notte, col bavero alzato scrive sul muro: “Ridateci il bassetto nostro!” (p. 230)

Infine, un ritorno ai valori tradizionali. Nel 1965, si prende spunto da un fotogramma di un film con Ugo Tognazzi vestito da carabiniere che fa la guardia all’Altare della Patria. C’è una sferzante poesia firmata da Bruno Broccoli, dal titolo Milite ignoto e milite ignobile. Questo sono i versi conclusivi:

“E voliamo nel sole, anima mia”

siccome nella lirica di Locchi.

Eccola qui: l’abbiamo sotto gli occhi,

in bianco e nero: una fotografia.

Sull’ara di Vittorio Emanuele

ci è dato, finalmente, di vedere

Tognazzi in veste di carabiniere,

immobile, nei secoli fedele!

Vicino già a concludere l’assedio

ai miti, il nostro cinema che sferra

l’ultimo assalto all’ultimo famedio,

scrittura i morti della Grande Guerra.

Il dado è tratto. Orsù, si salti il fosso,

si abbatta qualsivoglia simulacro

in questa bella Italia, che di sacro

possiede forse (e pure a stento) l’osso!

(Signori, non si tratta del principio,

ma si dia tempo al tempo: avremo qui

in un gustoso sketch, l’elmo di Scipio

con un bambino che vi fa pipì).

[…] [i morti in guerra]

Scenderanno per te [Tognazzi] dal San Michele,

dal Sabotino. Ma per quella gente

tu non sarai nei secoli fedele.

No. Tuttalpiù, nei secoli fetente!

Il Travaso, che nel 1963 era passato dalla direzione di Guasta a quella di Mario La Rosa, cessa le pubblicazioni nel gennaio 1966. Le riprende nel maggio successivo diretto da Dino Verde, Bruno Broccoli e Luciano Ferri. Cessa definitivamente nel settembre.

10. Anche l’esistenza presentata sotto il linguaggio satirico ha una propria dignità e un proprio rilievo perché è un racconto, quasi sempre accompagnato da immagini, che tenta di dare a molti lettori il “senso” di una realtà che cammina – in modo positivo o in modo negativo. Per questo, forse (il forse sta ad indicare un doveroso e sincero dubbio) la “ricerca di senso” dovrebbe anche soffermarsi sulla “letteratura minore”. Ma non è l’ironia alle origini della filosofia? È il caso di scomodare Socrate e la sua ironia? No, perché qualcuno potrebbe, e lo capiremmo, parlare di accostamento irriverente. Il fatto è che quando la filosofia diventa sistema, nello stesso pensiero greco, e ne vengono codificati canoni e lessici, interrompe i rapporti con le altre manifestazioni poietiche del soggetto che, a sua volta, deve diventare trasparente e invisibile rispetto alle cattedrali speculative.

Torniamo alla satira che è un modo indiretto di dire, di irridere, ma quasi sempre con l’animo amaro e mai con gioia, i limiti o i peccati di personaggi, situazioni, sistemi. Non è filosofia, sia chiaro: però, anche qui, il fondatore era chiamato “filosofo da strada”. Ma cosa intendevano per filosofo? E se qualcuno si interrogasse sulla “filosofia” di Trilussa e ne parlasse, sarebbe fuori luogo? Vivaddio, anche il poeta romano e romanesco ha più volte con i suoi versi parlato del filosofo. Er professore de filosofia, in una raccolta del 1922,presenta una valutazione non molto elogiativa per il filosofo: “Lo chiamaveno er Matto, poveraccio!/ Invece era un filosofo, purtroppo!”, che, pur nell’ambiguità dell’espressione, potrebbe far intendere che l’essere filosofo sia peggiorativo (vedi: purtroppo) dell’essere matto.

C’è, inoltre, un componimento di Trilussa, del 1940, dedicato a La fine der filosofo:

Appena entrò ne la foresta vergine

er Professore de filosofia,

tutte le scimmie scesero dall’arberi

co’ l’intenzione de cacciallo via.

Ma l’Omo disse: – No, nun è possibbile

che torni a fa’ er filosofo davero

in una società piena de trappole

dove l’Azzione buggera er Pensiero.

Oggi, quelo che conta so’ li muscoli:

co’ la raggione nun se fa un bajocco…

Mejo le scimmie! –

E er povero filosofo

s’arampicò su un arbero de cocco.

Qui il discorso è chiaro. È messo alla berlina il fatto che nella vita contino l’Azione – c’è chi vi ha visto un riferimento politico all’azionismo del tempo– e la forza bruta, i muscoli, che imbrogliano il Pensiero. E con la ragione non si guadagna niente. Tanto vale fare come le scimmie e risalire sull’albero.

In conclusione: quella espressa in un giornale satirico non è di per sé filosofia, ma può parlare di filosofia e di filosofi, anche se in maniera indiretta e divulgativa. Dobbiamo concluderne che l’uomo medio ha un certo concetto di filosofia e gli addetti ai lavori ne hanno un altro. È una storia antica di millenni. Dal tempo della servetta di Tracia.

Postilla

Lavitaè narrazione e la storia è racconto. Nel titolo sono richiamati, con Diogene, la filosofia che “cerca l’uomo” e, con Aladino, il mito-favola di una lampada che risponde alle fantasie, ai desideri, ai dubbi, alle paure dell’uomo, creando artificiosamente situazioni e momenti che, però, incidono sulla realtà del soggetto. Ma non è questo anche il rapporto tra filosofia e arte? Non è la filosofia desiderio di sapere, di sàpere, cioè dare, avere e sentire il sapore dell’esserci? La filosofia non è philía in quanto assenza e mancanza, come Diotima insegna da oltre due millenni? Non è desiderio di sentire il senso dell’esserci e, insieme, il senso della morte, come ha detto Heidegger?

In questo l’arte e la poiesis ci aiutano. Non si tratta di inseguire mode intellettuali né la cultura ha atteso un singolo filosofo per congiungere estetica e teoresi. Il compito è quello di vedere come tutto ciò che il soggetto crea, rielaborando il vissuto, “si tenga insieme” e sia leggibile come qualcosa che ci riguarda e che parla, comunque, di noi.

Cinema, melodramma scrittura musicale, pittura, letteratura e satira possono entrare a pieno titolo come segmenti di un’unica ricerca di senso. Di questa ricerca la lettura “filosofica” non è una prevaricazione intellettuale e disciplinare né un esproprio di alcune delle ontologie “regionali”, di cui parlava Husserl, a vantaggio di altre. È un ulteriore, privilegiato ambito di autocoscienza e di autoconoscenza.

Si è usato in questi scritti il termine laico e ludico di “sciarada” proprio per dire prima a noi stessi e poi, eventualmente, ad altri che non v’è bisogno di accostamenti forzati che evidenzino e esplicitino, talvolta forzatamente, legami e confluenze. Le confluenze e le parentele dei temi si evidenziano da soli. Si è pensato più volte, scrivendo questo libro, di premettere ad ogni capitolo uno o più periodi di raccordo con il capitolo precedente e con quello seguente, ma la cosa è anzitutto si presentava come espediente molto scolastico e, pertanto, sembrava ignorare la convinzione, vivaddio oramai diffusa, che nella costruzione e nella pratica della cultura non esistano compartimenti-stagno in senso assoluto.

Qui si è parlato prevalentemente del rapporto tra la filosofia e il cinema, anche con quello ritenuto “popolare”. E quali attori-autori più di Charlie Chaplin e Antonio De Curtis sono stati “popolari”, cioè rappresentanti di una cultura di popolo e non elitaria, pur riconoscendo le dovute differenze? Come ha scritto Peppino Ortoleva, la maschera-Charlot ha valenza universale e la maschera-Totò, anche per il linguaggio che le è costitutivo, non si comprenderebbe al di fuori dell’Italia. Ma non è neanche forzato il rapporto tra Totò e Plauto, come ha dimostrato Ferruccio Bertini[51]. Chi, più di Chaplin e De Curtis, ha mediato e materializzato Weltanschaungeen, concezioni e visioni del mondo che sono limitrofe alla teoresi e sono, comunque, secrete dalla ruminazione filosofica al di là della consapevolezza e delle intenzioni dei due artisti?

Il rapporto con la filosofia riguarda anche altre regioni culturali, come la mitologia, la musica – quella lirica, classica e quella popolare o “leggera” -, la poesia, il romanzo, la satira, la pittura, il teatro. E così via. Soprattutto con il teatro il discorso va approfondito. Il teatro è la forma più vicina alla elaborazione filosofica. Molti filosofi anche scritto opere teatrali. Il teatro è, sin dall’inizio, dramma, cioè azione e história, cioè azione divenuta racconto. Molto probabilmente, epr non dire sicuramente, il rapporto privilegiato negli ultimi decenni tra filosofia e cinema ha saltato un anello intermedio: quello fra teatro e filosofia. Questo richiamo vale anche per il rapporto tra poesia e filosofia, e il Leopardi citato in queste pagine lo insegna. Così come vanno affrontati il rapporto con la narrativa e le altre forme d’arte.

Tutto ciò non serve solo a trovare nessi con altri ambiti culturali, ma anche a riconoscere la natura “specifica” della riflessione e della elaborazione filosofica. Infatti, se tutto è narrazione e racconto, non si individua la peculiarità delle singole forme culturali, così come avveniva nella notte di hegeliana memoria dove l’in-distinzione era la categoria totalizzante. Nel momento in cui si approfondisce la qualità narrativa della filosofia non si disconosce la storia plurisecolare della speculazione filosofica non solo occidentale. Il sistema filosofico, le Summae, i trattati valgono in quanto tali in tutto il loro valore conoscitivo, ermeneutico, storico. Il problema che oggi e qui si pone è un altro: quanto quelle forme specifiche di letteratura filosofica non siano state di fatto, anche e comunque, forme di narrazione e racconto di un uomo ad altri uomini?

Certamente, la scarsa alfabetizzazione dei secoli scorsi comportava una diffusione ridotta ed elitaria dei testi filosofici, una loro scarsa comprensione, in genere uno scarsissimo interesse verso la filosofia. Questo ha trasformato i filosofi una élite, in alcuni secoli diventarono una corporazione separata e autonoma senza avere una incidenza sulla cultura dell’intera comunità. Non era stato così con Socrate. I proverbi e i modi di dire popolari hanno spesso insistito, in questo senso, sulla “inutilità” o sulla inefficacia della filosofia e sul suo disancoraggio rispetto all’esistenza reale e vissuta. Se questo è vero, chi scriveva di filosofia nelle epoche precedenti raccontava, certo, ma raccontava ad un pubblico ristretto e mirato, come se  fosse in un hortus conclusus, simile a certi saperi scientifici, parcellari e autosufficienti ma non nati per dialogare con i singoli soggetti.

Oggi esiste un panorama diverso perché si è d’accordo che la filosofia sia una diffusa interrogazione sull’uomo, cioè un insieme di domande e di ipotesi di risposte che possono esprimersi con lessici, modalità, forme letterarie e stilemi diversi e plurimi.

La storia di Diogene è racconto di fatti e di persone reali, non è un mito né una favola, e potrebbe stare anzi è da sempre nelle narrazioni delle culture mediterranee. Aladino è, invece, una figura solo letteraria e rappresenta l’orizzonte fantastico di ogni esistenza. Potrebbe essere, in positivo, la risposta oggettiva e non programmata al disincanto “cinico” di Diogene.

Tra questi due poli, la filosofia “togata” e quella “secolare” del terzo millennio, avendo superato alcune paratie che le tenevano lontane da altri saperi e altre poiesi, si interrogano, si integrano e compongono l’unica filosofia che è sempre più ricerca delle fenomenologie dell’umano e esigenza di impegnarsi nella loro ermeneutica.

Note

[36] L. Pirandello, op. cit., p. 83.

[37] Principato, Milano 1975.

[38] Feltrinelli, Milano1971.

[39] Editalia, Roma 1973, pp. 248. Le pagine indicate nel testo tra parentesi si riferiscono a questa edizione. I commenti, se non riferiti a fonte diversa, sono dello stesso Guasta.

[40] Quaderni del carcere, a c. di V. Gerratana, v. I, Einaudi, Torino 1975, p. 597.

[41] Eia, Eia, Eia, Alalà, cit., p. 19.

[42] Ivi, pp. 38-39.  

[43] Ivi., p. 190.

[44] Ivi, p. 279.

[45] Ivi., p. 303.

[46] Ivi, p. 367.

[47] Ivi, p. 389.

[48] Ivi, p. 406.

[49] Quaderno 23 (VI), 1934: Critica letterariaQuaderni del carcere, cit. v. III, p. 2195.

[50] La statua citata era una delle “sei statue parlanti”, cioè statue romane su cui si mettevano foglietti con satire normalmente antipapaline scritte da popolani. L’autore più famoso fu Pasquino. Madama Lucrezia, si trova in piazza San Marco, nell’angolo del Palazzetto Venezia, ed è unica, tra le sei statue, a rappresentare una donna. Il primo maggio era il giorno in cui veniva festeggiata e addobbata con fiocchi ed un diadema di carote e cipolle.

[51] Cfr. in Totò. Tocchi e ritocchi, cit.: P. Ortoleva, Un confronto tra la comicità di Chaplin e quella di Totò , pp. 7-26 e F. Bertini, Totò interprete plautino, pp. 27-40.

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