Sono convincimenti che sembrerebbero nascere dalla mente d’un fautore dell’antropocentrismo del rinascimento o sgorgare violenti addirittura dalla bocca d’un audace promotore dell’individualismo illuminista. Invece sono sofferte affermazioni dell’ultraottantenne filosofo francese, che Paolo VI continuava ad ascoltare e meditare. Il sodalizio culturale Maritain-Pacelli, in effetti, risaliva già a quarant’anni prima, quando, sfidando le opposte dottrine marxiste e neofasciste, nel 1925, Maritain aveva pubblicato i “Tre Riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau”, in cui criticava fermamente i principi professati dai tre “riformatori”: “l’avvento dell’io” di Lutero; “l’incarnazione dell’angelo” di Cartesio; “il santo della natura” di Rousseau. Riconosciuta e rispettata l’oggettività della realtà storica in cui avevano operato i tre pensatori, Maritain analizzava con indagine seria i contenuti e gli esiti delle idee proposte dai tre, concludendo che in ogni caso si era trattato di riforme illusorie. Infatti, Lutero falliva, perché il suo spirito mancava di religiosità; Cartesio doveva fallire, perché dubitava dello stesso strumento razionale; Rousseau sarebbe stato condannato a sbagliare, perché si fondava sul preconcetto dell’intrinseca malvagità della dimensione sociale degli uomini. Maritain, comunque, si professava anche aperto e disponibile a ogni seria ulteriore meditazione, da concretizzarsi mediante il rispetto reciproco e l’esplicazione della verità lealmente creduta da ciascuno.
Dopo appena due anni, il trentenne sacerdote Montini, nella “Festa dell’Epifania 1928”, firmava la sua traduzione del saggio maritainiano, dichiarando: “Se la sapienza di queste limpide pagine potesse convincere qualche giovane che s’ha da essere cauti a parlar di riforme, cioè ad inventare sistemi nuovi e mai prima scoperti, e a procedere nel pensiero e nella vita con la spavalda e avventurosa libertà degli egoisti e dei rivoluzionari, credo che sarebbe raggiunto scopo sufficiente e opportuno anche per i nostri tempi e per il nostro paese”.
Maritain per aver scritto questo lavoro aveva sopportato critiche e ironie; Montini, per averlo condiviso, tradotto e diffuso, era atteso da ostilità e malevolenze. Tra i due pensatori s’instaurarono una frequentazione e un‘amicizia vive e solide. Nel 1978, infatti, due mesi prima di morire, papa Montini indicò come “atto importante” dell’intera sua azione pontificale quella solenne “Professione di fede”, che dieci anni prima aveva pronunciato in piazza San Pietro a nome di “tutto il popolo di Dio”. La genesi di quella professione di fede è testimoniata dalle lettere del comune amico card. Elvetico Charles Journet, ora raccolte nel volume 3 della “Correspondence Journet-Maritain” pubblicato nel 1998. Vi si legge come fu incaricato proprio Maritain a preparare un testo adeguato alle intenzioni del pontefice. Il filosofo stese il contenuto della professione solo “come bozza”, che il cardinale avrebbe presentato al papa, il quale, però, lo accettò subito, ritenendo un “miracolo che tutti i punti difficili sono stati toccati e riposti in luce”.
Chiunque voglia dedicarsi a “riformare” qualcosa con serietà e senza manie di protagonismo, chiunque senta il bisogno (o il dovere) d’impegnarsi con leale generosità per il bene comune, potrebbe trovare feconda ricchezza di suggerimenti nell’approfondire il pensiero e nel ripercorrere il modello di vita di questi due protagonisti, che hanno scritto la storia recente, attingendo copiosamente all’esperienza anche del passato, cui hanno guardato con umile rispetto e profonda gratitudine.