Un libro, anzi due. Il ‘900 sedotto dalla bellezza

di  Antonio Errico

Più o meno trent’anni fa  ho conosciuto una persona che dormiva tenendosi accanto  l’Ulisse di Joyce perché voleva poter ricominciare a leggere non appena avesse riaperto gli occhi. Un po’ per passione, un po’ per lavoro, da quel libro era rimasta stregata. Eppure non riuscì mai a finirlo. Non perché mancasse il tempo. Non perché si trattasse di un testo estremamente complesso. Ma semplicemente perché mentre leggeva arrivava sempre a un punto che la rimandava ad un punto precedente, mettendo in dubbio il significato ( i significati) che aveva attribuito ad una parola, una riga, un passaggio, un’immagine, un riferimento, un’allusione. L’Ulisse uscì cento anni fa, esattamente il 2 febbraio del 1922. Esattamente il giorno il cui James compiva i quarant’anni.  E’ uno dei libri più citati e meno letti. Senza leggere l’Ulisse, si sopravvive tranquillamente. Ma non si fa l’esperienza straordinaria di comprendere che cosa significhi  vivere in un universo fatto solo di linguaggio: in forme che si fanno e si disfano, si compongono, si scompongono, si ricompongono, in una costante inaspettata insospettata metamorfosi, a confronto con una lingua straniante, che slitta continuamente, che sfalda ogni certezza nella forma, nella organizzazione testuale, nella struttura logica, nella relazione tempo-cronologia, in quella di causa- effetto, nella reciprocità di significante e significato.

La scrittura, il linguaggio, sono la sola materia esistente che si rimodella continuamente e continuamente riformula il suo senso.  

Probabilmente  era questo il motivo per il quale, quella persona di cui dicevo si ritrovava a dover tornare indietro, rinunciando a significati acquisiti e generando significati nuovi. Perché nell’Ulisse l’universo di  linguaggio genera altro linguaggio, continuamente.   

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