Questo non aveva impedito che, a San Pietro, il futuro cantante imparasse il vernacolo salentino che sarebbe, come afferma lo stesso critico, “assai simile al dialetto siciliano (‘soprattutto per via della pronuncia molto stretta’, come spiegano in paese), che gli torna utile per comporre i primi motivi”[15]. Il dialetto salentino, diverso da quello barese e foggiano, è vicino alla parlata calabrese e a quella siciliana. Affrontò il problema anche Pier Paolo Pasolini quando girò Il fiore delle Mille e una notte. Ha scritto Alessandra Spadino[16] che il messaggio, per così dire ideologico, ossia l’incursione nella modernità, la denuncia politica, sono affidati anche all’autenticità di attori non professionisti, a volti presi dalla strada, a uomini e donne di un mondo lontano e povero, doppiati con accento leccese. In un’intervista di Gideon Bachman il regista dichiara:
La mia ambizione è di fare film politici in quanto profondamente reali nelle loro intenzioni, nella scelta dei personaggi, in quello che dicono, in quello che fanno. […] Non faccio niente di consolatorio, non cerco di abbellire la realtà per rendere più appetibile la mercanzia: scelgo attori reali per cui basta la loro stessa presenza fisica per dare questo sentimento di realtà[17].
E ancora, a film concluso:
Ho scelto doppiatori in gran parte leccesi, perché avevo bisogno di una koiné genericamente meridionale, non immediatamente identificabile[18].
Comunque a Polignano il Modugno giovane tornava nelle estati e suonava con un amico la chitarra, cantando in un inglese maccheronico, contaminato da versi in pugliese[19].
La sua prima fuga dalla Puglia ha per meta Torino ed avviene nel 1948; il 1950, Anno Santo, è trascorso tra i poveri a Roma. Intanto nel 1949, dietro compenso di tremila lire, è la sua prima comparsa cinematografica in I pompieri di Viggiù,con Totò, film che riprende l’omonima rivista.
Le prime canzoni in dialetto risalgono al 1950-1951 e sono La sveglietta, Ninnananna, Cavaddhu cecu de la minera, Lu minatori, Ventu du scirocco, Lu sciccareddu ‘mbriacu e Tamburreddu: “Motivi semplici, gradevoli, accanto ad altri dalla notevole carica poetica in stile folk, scritti e cantati nell’idioma brindisino, assai simile al dialetto siculo. Il più delle volte chi li ascoltava si sentiva in dovere di domandargli: ‘Bella questa canzone: è siciliana, vero?’”[20]. La RCA cominciò a pubblicarli in disco tra il 1953 e il 1954.
Come aveva ricordato Gian Franco Vené, la prima canzone salentina cantata in un film fu la Ninnananna, su cui, in seguito, intervenne Franco Nebbia per una seconda versione. Nel 1952, nel film Carica eroica, diretto da Francesco De Robertis, Domenico Modugno comparve sullo schermo e cantava la canzone pugliese vestito da soldato: “Il nome di Domenico Modugno non rimase in testa a nessuno, ma la canzone sì: era una ninnananna”[21]. Come dichiarò lo stesso cantante: “Interpretavo il ruolo di un soldato siciliano ed ero alle prese con un bambino russo disperso. Per farlo addormentare gli cantavo una ninna-nanna di San Pietro Vernotico”. La canzone contribuì ad alimentare l’equivoco di quella falsa sicilianità che l’autore si era guardato bene dallo smentire, “vista la fama artistica, culturale e storica che la Sicilia si era guadagnata in tutto il mondo”[22]
2. “L’amara terra” irrappresentabile
Nel 1952, Enrico Glori chiese a Modugno di interpretare un nobile siciliano in uno spettacolo per un circolo di nobili romani e gli chiese anche di cambiare il nome in quello di Domenico de Brin[23]. La cosa durò poco e Mimmo abbandonò tutto per i pagamenti che tardavano ad arrivare.
Ma perché questo rifiuto della sua anagrafe e cultura pugliese? Il motivo è dato dal fatto che il mercato dello spettacolo da sempre identificava il meridionale italiano con il napoletano e, in subordine, con il siciliano. Chi intendeva sfondare nel mondo del cinema, del teatro e della canzone, nel momento in cui voleva caratterizzarsi regionalmente come meridionale aveva solo quelle due opzioni. La Puglia non esisteva, né poteva far testo l’anagrafe salentina di Rodolfo Guglielmi, alias Rodolfo Valentino, nato a Castellaneta, allora provincia di Lecce ed oggi di Taranto, né il fatto che Tito Schipa scrivesse testi e musica per canzoni in dialetto leccese. Sarebbero stati riferimenti puramente campanilistici e niente più.
Dopo Napoli, quindi, la Sicilia. Da Verga e Capuana in poi, l’isola e la sua produzione culturale avevano guadagnato attenzione nazionale ed internazionale. Non secondario, in questa non programmata operazione di conoscenza dei modelli culturali siculi, l’apporto di Luigi Pirandello ed, in subordine, quello della lirica con Cavalleria rusticana. Così, l’aristocratico lombardo Luchino Visconti non avrà remore nel girare nel 1948, La terra trema. Episodio del mare, ispirato ai Malavoglia, che per due ore e quaranta minuti presentava un dialogo nello strettissimo dialetto di Aci Trezza, senza sottotitoli. Successivamente girerà Il Gattopardo.
Non va, infine, sottovalutato l’apporto, in questa naturale promozione della Sicilia, di Angelo Musco, e della sua partner Rosina Anselmi, nel teatro e nel cinema. La compagnia di Musco riprendeva in gran parte i testi di quel Nino Martoglio che costituiva il corrispettivo siciliano del napoletano Scarpetta. Erano produzioni tanto vicine che una delle più belle commedie di Martoglio, San Giovanni decollato, scritta per Musco, ebbe notorietà amplissima nella versione cinematografica “napoletana” di Totò.
La Puglia rimaneva solo un’espressione geografica. L’accento barese si ascoltava, in cinema ed in teatro, dagli anni Cinquanta in poi, solo attraverso la voce del caratterista Guglielmo Inglese, tra l’altro nato a Napoli[24]. Ma questo fatto non è un’anomalia se si è giunti al comprensibile paradosso del cameriere sardo Tiberio Murgia trasformato in un perfetto e permanente siculo da Mario Monicelli, nel 1958, con I soliti ignoti. È la ragion di stato dello spettacolo.
Detto questo, Modugno non aveva alternative. Una volta identificato come siciliano, non poteva non accettare: per motivi “di pagnotta”, come dirà, e per motivi di lavoro in genere. Nel 1952, Fulvio Palmieri, direttore del secondo canale della radio, gli propose di partecipare a una trasmissione Ammuri ammuri… in quattro puntate di cui sarebbe stato oltre che voce cantante e recitante, anche rumorista, autore e regista. L’artista ricordava:
Modù, mi disse, ti offro questa opportunità a condizione che tu nel programma dichiari di essere siciliano, visto che le Puglie non hanno una grossa tradizione musicale. Così per tutti diventerai ufficialmente siciliano. Il motivo era sempre la pagnotta, il fatto di poter mangiare e dormire. Accettavo tutto, avrei detto anche che ero americano, se fosse stato necessario[25].
Con quanto risentimento da parte dei concittadini di San Pietro Vernotico, è semplice immaginare. Quanto all’America, l’incontro con il siculo-statunitense Sinatra, da cui fu generata la proposta di Palmieri, è ricordato da tutti i biografi. Vené, in particolare, riferisce di Sinatra quando partecipò a una trasmissione radiofonica per dilettanti ed evidenzia la consapevolezza che il dialetto di Modugno era pugliese e non siciliano:
I dirigenti della Rai presero nota, allora, che tra le riserve d’emergenza della canzone italiana esisteva un giovanotto “siciliano”, che cantava cose strane nel suo dialetto. E qui accadde qualcosa di strano che dimostra come sia errato parlare di Modugno come di un portatore consapevole della voce popolare. Sinatra è di origini siciliane; i dirigenti della Rai proposero di festeggiarlo chiamando, a far gli onori di casa, quel giovanotto “siciliano” che si chiamava Modugno. Modugno, contento di accettare, non si sognò nemmeno di ricordare che lui non era siciliano ma pugliese, e che pugliese era anche il suo dialetto. Sinatra non badò alla differenza: finse anzi di interessarsi a Modugno con tanto impegno che i signori della Rai cominciarono a impressionarsi. E proposero a Modugno di fare qualcosa di più impegnativo, sempre da “siciliano”, naturalmente. E lui buttò giù il programma di una serie di trasmissioni intitolate Ammuri ammuri…[26].
Insomma: siciliano per necessità e per scelta.
3. Il dialetto camuffato
Si è già detto che è opinione comune che il dialetto del primo Modugno, quello che, grosso modo, finisce nel 1956, quando il vernacolo che rimane a convivere con i suoi testi in italiano diviene il vernacolo napoletano, anche per la vicinanza di Riccardo Pazzaglia, sia fondamentalmente dialetto salentino, di San Pietro Vernotico, camuffato ed ibridato con lessico e cadenze siciliani, per i motivi sopra detti. È una vera e propria koinè culturale.
La prima considerazione da fare riguarda un fatto crediamo poco noto. Vecchio frac si rifaceva ad una storia vera: il suicidio di un aristocratico, marito dell’attrice Olga Villi, che nel novembre del 1954 si gettò dalla finestra del suo palazzo romano. La prima edizione del disco è dell’anno successivo: parole e musica di Modugno. È, apparentemente, la composizione di quel periodo meno vicina al filone dialettale. Invece siamo venuti in possesso di una versione, presumibilmente la prima, molto meno ritmata e cadenzata delle edizioni in circolazione subito dopo, dove si trova un cammeo inatteso. Dopo i versi finali del primo ritornello (“Bonne nuit – Bonne nuit/ Bonne nuit – Bonne nuit/ Buona notte”/ va dicendo ad ogni cosa:/ ai fanali illuminati,/ ad un gatto innamorato/ che randagio se ne va.) e dopo il fischio, si sente in maniera chiarissima un recitato che, dopo il suono di richiamo al gatto, dice in evidente dialetto e accento salentini: musci, musci, musci, a ddu vai, ah?[27]
A questo punto può sembrare fuori posto il ricorso al dilemma di quale sia stata la scelta di base. La domanda scaturisce qui dalla difformità tra i testi cantati da Modugno e quelli poi depositati alla Siae. I primi evidenziano una forte influenza e presenza del dialetto salentino, i secondi sono più “sicilianizzati”. Infatti, la cosa interessante che emerge è la differenza tra i testi ufficiali delle canzoni e il testo risultante dalle registrazioni discografiche in nostro possesso. Le fonti prese in considerazione sono i testi pubblicati dalle edizioni Curci[28] e la trascrizione di alcune delle canzoni dialettali più significative del Modugno dei primi anni Cinquanta[29], contenute in un LP della RCA, Domenico Modugno e la sua chitarra. Si tratta di una ripresa, dopo il 1973, di tutto il materiale del primo periodo RCA, nella “Linea tre” della famosa casa discografica[30]. È superfluo premettere che il dialetto non solo varia area per area geografica, ma che può variare anche in due comuni limitrofi[31].
Si può iniziare con la Ninna nanna,ricordata prima, e che è dichiaratamente ripresa dalla tradizione di San Pietro Vernotico. Nel testo a stampa è riportata solo in italiano, riferendola a Modugno e a Nebbia. L’unica convergenza testuale, al di là della scomparsa del dialetto nel testo, sono i due versi: “Ti faremo gran signore/ delle terre, delle fate del gran bosco” che nella canzone registrata recitano: “Nde facimu nu regnante/ de le terre de le fate de li oschi”. Estrapolati chiaramente dal lessico salentino sono, per esempio, i termini e le locuzioni duermi, chiangire, despettusu, nu mbole se durmisce, scioca (dormi, piangere, dispettoso, non vuole addormentarsi, gioca).
Quanto a La cicoria,al previsto nu bagnari il Modugno che canta sostituisce nu bagnare, e gli articoli ‘a e ‘u con quelli la e lu. Inoltre, iti (andate)viene recitato con sciati. Ancora numerose le traslitterazioni tra siciliano e salentino in La donna riccia: “Pigghiate cu ti pare” (prenditi chi ti pare) diviene “Pigghiate ci te pare”; “voli ti pianta” (vuole piantarti) è cantato: “ole te chianta”; picchì (perché) è reso percene o percé, ‘ole te vasa (vuole baciarti) con ‘ole te asa, tu t’addurmisci (ti addormenti) con tie te durmisci. Nella edizione registrate, infine, è presente una strofa non riportata nel testo a stampa con la ricorrenza di termini salentini (ogghiu/voglio, nienti/niente, an facce/in faccia). Questa canzone divenne famosa anche nella versione di Renato Carosone.
Altra storia travagliata, dal punto di vista del testo, è costituita dai vesri più volte elaborati de La sveglietta. Le differenze tra l’edizione Curci e quella RCA sono tutte a vantaggio del linguaggio di San Pietro Vernotico: Iu ai una (io ho una)diviene nel cantato Ieu tegnu na, quannu è quandu, Ma si la lassu (ma se la lascio) è cantata Ma ci la lassu, C’aiu a fari si mi voli/ tantu beni (che debbo fare se mi vuole tanto bene)è reso con Cce aggiu fare ci me vole mutu bene; si mi stringi li cateni di l’ammuri (se mi stringe le catene dell’amore) con ci me stringe le catene te l’amore. Un’intera strofa è tradotta, nell’edizione cantata, in pugliese:
Tenia trimila lire
ca aia guadagnate
fatiandu la matina e la sera e lu merisciu.
Cusì aggiu decisu:
aggiu cattare nna cosa cu me tegna
ogne giurnu cumpagnia.
Me nd’aggiu sciutu da ‘nu rulugiaru[32].
L’edizione a stampa è integralmente siciliana:
Avia trimila liri,
l’avia guadagnati
cu lu travagghiu miu
di la matina sino a sira.
E ora aiu decisu.
Mi vaiu ad attaccari
‘na cosa che mi teni notte e jurno cumpagnia.
‘Cussì mi ni su ghiutu
da ‘nu rulugiaru.
Un’altra canzone di cui si comparano i testi è Musciu niuru, anch’essa di netta assonanza salentina. Già il termine musciu (gatto)marca tutta la canzone nel senso dichiarato. Poi caminannu diviene caminandu, haiu (ho)è aggiu, zittu risulta cittu, tia (tu)è tie, ghiri (andare)è scire, il verso Ci aiu dittu senti a mia jeu ti dugnu/ nu cunsigghiu comu amicu (gli ho detto senti me, ti do/ un consiglio come amico)è cantato così: Sienti mmie, ieu te tau nu cunsigliu/ comu quandu a n’amicu. Inoltre vattinni (vai via)risulta abbande e tagghiari (tagliare)è tagghia’.
L’ultima canzone/poesia è Scarcagnulu. Il Vocabolario dei dialetti salentini, del Rohlfs, dinanzi citato, alla voce scarcagnulu dà la definizione: “spirito folletto, folletto domestico che frequenta la casa con azione benevola”. Anche qui tutto il testo può essere ascoltato come testo riportato dalla realtà sanpietrina.
Si potrebbe continuare con altre canzoni di cui non si fa un esame comparato testo a stampa/cantato e anche lì troveremmo interpolazioni del vernacolo salentino. Si offrono pochi esempi: lu sciardinu (il giardino)in Lu magu de le rose; mannaggia (imprecazione: abbia male)in Nina e lu caporali; percé nun vuei te nfacci (perché non vuoi affacciarti) di Serenata a ‘na dispittusa; cangi (cambi)in Ventu de scirocco. E così via. Sono tutte canzoni composte fino al 1956, ma in gran parte non superano il ’54.
Per tutta la produzione di questo periodo, nei testi a stampa c’è comunque la banale sicilianizzazione del linguaggio attraverso la “i” finale di verbi all’infinito e di parole. Ma non basta ad occultare il tessuto vernacolare di altra estrazione di tutta questa realtà che è la più significativa, dal punto di vista dei testi, dell’attività di Modugno come autore.
4. La fine della poesia e il transito alla retorica
La spiegazione che dava Gian Franco Vené è, a nostro parere, ancora valida. Egli ha scritto che la qualità delle prime canzoni di Modugno era altrettanto acculturata di quella della produzione successiva a Nel blu dipinto di blu e Piove. Aggiungeva che soltanto “la scarsa conoscenza degli italiani per la genuina poesia popolare può, in un certo periodo, aver fatto scambiare Modugno per un autentico cantante folk”. La conclusione di Vené era che Modugno, “cantautore di eccezionale qualità”, sia entrato nella storia della nostra canzone quando riuscì a semplificare il linguaggio della sua poesia. E la semplificazione del linguaggio, concludeva il critico, consisteva nella eliminazione del dialetto[33].
Ma non è, poi, vero che l’eliminazione del dialetto, cioè l’introduzione di un modulo espressivo nazionale che sicuramente è semplificazione del linguaggio e accesso alla comprensione di una platea più ampia, porti sempre un miglioramento della qualità. Il Modugno che ha compiuto una rottura negli schemi sanremesizzati della canzone italiana ha forse ancora un nocciolo duro di poesia urlata in maniera dirompente e trasgressiva. Forse lì è la continuità con versi come Ulie, ci tene ulie (Olive, chi ha olive), come Ci pigghiara ‘a fimemnedda,/ drittu drittu ‘ntra lu cori…(colpirono la povera femmina dritto dritto nel cuore), come Scarcagnulu furbarieddru (furbetto) e così via. Poi verranno Piange… il telefono, per quanto sia traduzione dal francese, Il maestro di violino, degni della peggiore letteratura fumettistica e fotoromanziera.
Il successo immediato e travolgente del Modugno di Sanremo ha una valenza incalcolabile nell’ambito della storia della canzone italiana e, forse, non solo italiana. Ma sicuramente quell’evento mette fine ad un personaggio unico che aveva permesso la legittimazione della figura del cantautore nel panorama della musica cosiddetta “leggera”. Ancora una valutazione di Vené, per quanto datata, può essere condivisa:
Molto genericamente si può pensare che, senza Modugno, la canzone italiana non avrebbe accolto, più tardi, i cantautori, il loro stile poetico e musicale, certa loro poesia. […] La figura del cantautore, inaugurata ufficialmente da Modugno, ma non certo inventata da lui, fu studiata, messa a fuoco storicamente, resa popolare[34].
Come popolare, quanto all’animus sotteso e non alle possibilità di fruizione amplificata, era stato il primo Modugno, quello per il quale le canzoni nascevano spontaneamente;
ma è difficile credere che Modugno, scrivendo quella canzoni in dialetto pugliese (non siciliano) avesse la consapevolezza di poter esprimere la genuina anima popolare.
E quando il critico afferma:
Benché a Modugno avesse insegnato un carrettiere a cantare, benché le sue canzoni sarebbero potute sembrare assai vicine allo spirito contadino meridionale, un incontro fra il futuro cantante e quei cultori del Folk non ci fu mai[35]
vuol dire che quella produzione, rispetto alle storie emergenti del calabrese Otello Profazio, della siciliana Rosa Balestrieri, del pugliese Matteo Salvatore, aveva propria autonomia ispirativa che la collocava nell’universo non del folk ma dell’altro fenomeno che di lì a poco sarà chiamato “dei cantautori”, da quelli genovesi a Jannacci e ai “I Gufi” milanesi e così via.
Alla fine, è poco sensato misurare col bilancino se l’ingresso sul palcoscenico internazionale di Modugno sia stato, alla lunga, un vantaggio, rispetto alla perdita del “piccolo poeta” siculo-salentino. Ma sono due storie completamente diverse e le storie non si fanno con i se. Va detto, comunque, qui ci troviamo tra alcune categorie – folk, palcoscenici internazionali – che lasciano poco spazio all’autore, cioè al singolo. Da questo punto la libertà è ridotta. Nell’episodio-Modugno vediamo riemergere, per un certo periodo, la “lingua materna”, cioè la lingua dell’infanzia che si libera e si riproduce. Ma l’industria discografica ha altri fini e valori che non lasciano sempre spazio alle identità personali e le mascherano, camuffandole.
Note
[15] M. Ternavasio, Le leggenda di Mister Volare. Vita di Domenico Modugno, Giunti, Firenze-Milano 2004, pp. 17.
[16] Cfr. A. Spadino, Quando il numero è colore: “Il fiore delle mille e una notte” di P. P. Pasolini, in
[17] “Il Messaggero” Roma, 24 agosto 1973.
[18] “Filmcritica”, agosto-settembre 1974.
[19] Cfr. M. Ternavasio, op. cit., p. 18.
[20] Ivi, p. 24. L’autore racconta che, qualche tempo dopo, nel medesimo errore sarebbe caduto anche il famoso direttore d’orchestra Pippo Barzizza, il quale lo presentò così ad un gruppo di amici: “Questo è Domenico Modugno, un siciliano purosangue… Ah, scusa, ma mi avevano detto che veniva da quella regione”.
[21] G. F. Vené, Domenico Modugno, in La Canzone Italiana, II ed. (1970), Fabbri, Milano 1982, p. 89.
[22] Cfr. M. Ternavasio, op. cit., p. 27.
[23] Cfr. Ivi, p. 30.
[24] Guglielmo Inglese, dopo intesa attività radiofonica, esordì nel cinema nel 1951. In un decennio girò oltre quaranta film, “di genere comico-leggero e rivistaiolo, in parti di caratterista gustoso, tratteggiando tipi di meridionale di facile comicità” (cfr. G. Rondolino, Dizionario del cinema italiano 1945-1969, Einaudi, Torino 1969, p. 180).
[25] M. Ternavasio, op. cit., p. 30.
[26] G. F. Vené, op. cit, pp. 89-91.
[27] Dobbiamo questa notizia e la registrazione cantata da Modugno alla dott.ssa Rosa Rucco, che ha recuperato il testo in questa prima versione.
[28] Modugno. La storia, Curci, Milano 2004.
[29] Le canzoni prese in esame sono La cicoria, La donna riccia, La sveglietta, Musciu niuru, Ninna nanna, Scarcagnulu.
[30] Domenico Modugno e la sua chitarra, Rca stereo NL 31165, “Linea tre”. Contiene: lato 1: Vecchio frack/ Mese ‘e settembre/ La donna riccia/ Scarcagnulu/ Musciu niuru/ E vene ‘o sole/ Vitti ‘na crozza/; lato 2: Musetto/ Ninna nanna/ Lu pisci spada/ La sveglietta/ La barchetta dell’amuri/ La cicoria/ Io, mammeta e tu.
[31] I riscontri lessicali sono fatti tramite il più importante vocabolario dei dialetti salentini, quello di G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), voll. 3, Congedo, Galatina 1978 e il sintetico vocabolario siciliano di L. La Rocca, Dizionario siciliano-italiano e italiano-siciliano, Terzo Millennio, Caltanissetta 2000. Si dice ciò per testimoniare anche la relatività di questa comparazione.
[32] Traduzione italiana: “Avevo tremila lire/ che avevo guadagnato/ lavorando la mattina e la sera e il pomeriggio./ Così ho deciso:/ debbo comprare una cosa che mi tenga/ ogni giorno compagnia./ Sono andato ad un orologiaio”.
[33] Cfr. G. F. Vené, op. cit, p. 91.
[34] Ivi, p. 86.
[35] Cfr. Ivi, p. 89.