Di mestiere faccio il linguista 18. Università: un errore rinunciare alla lingua italiana

La vera causa dell’esiguo numero di iscritti non risiede nella scarsa conoscenza della lingua inglese (obiettano gli studenti), ma va individuata nei problemi strutturali esistenti: scarsa efficienza dei servizi, difficoltà di relazionarsi con alcuni docenti e di reperire il materiale didattico, aule gelide d’inverno e torride d’estate, posti alloggio inadeguati e cari, trasporti insufficienti, biblioteche e sale di studio insufficienti e scarsamente attrezzate. Il rettore conferma che UniSalento intende internazionalizzarsi, ma a causa della pandemia da covid-19 gli studenti stranieri iscritti son davvero molto pochi, e questo pone in discussione l’opportunità di mantenere l’insegnamento in inglese. Temendo che a loro venga addebitato il mancato possesso dell’inglese da parte degli studenti italiani, alcuni dirigenti di istituti scolastici mettono le mani avanti: la scuola fa quel che può, con risorse striminzite e programmi ministeriali inadeguati.

Tutto è in movimento. Senza nessuna presunzione di possedere la ricetta giusta, mi permetto di esporre pubblicamente su questa pagina le mie riflessioni e di avanzare una proposta operativa. Io propongo, chi deve decidere decida come riterrà opportuno.

 La questione non nasce oggi. Partì con la decisione del Politecnico di Milano, che dal 2013-14 avviò corsi magistrali e dottorali solo in inglese, escludendo quindi l’italiano dalla formazione superiore di ingegneri e di architetti. A quella prima decisione del Politecnico milanese altre università si conformarono e corsi monolinguistici in inglese pullularono ovunque, compresa UniSalento. Non senza contrasti. Assume valore emblematico, in questo senso, il ricorso presentato da molti docenti dello stesso Politecnico milanese contro la decisione del loro Ateneo, rivendicando la libertà costituzionale di insegnare in italiano. In merito al quale il Consiglio di Stato ha sostenuto poi che «l’insegnamento in lingua inglese è lesivo della tutela del patrimonio culturale italiano», con una delibera che è stata ulteriormente appellata, secondo il costume italiano, il quale quasi mai consente che si arrivi a una decisione definitiva prima della morte dei protagonisti…

Sgombriamo il campo da un equivoco. Nessuno può mettere in dubbio l’esigenza di una buona, anzi ottima, conoscenza dell’inglese da parte di tutti gli studenti. L’inglese è oggi la lingua della comunicazione internazionale, indispensabile in un mondo sempre più globalizzato, necessaria per accedere a un patrimonio di saperi comuni e anche, più semplicemente, per viaggiare, vivere, navigare in rete. Ma è giusto chiedersi se per raggiungere l’obiettivo di un «basic english», un inglese spesso elementare ristretto ad ambiti specifici, sia opportuno istituire nelle università italiane interi corsi di studio svolti ESCLUSIVAMENTE in inglese (l’avverbio è in maiuscolo, intenzionalmente), escludendo dai nostri atenei la lingua italiana, incancellabile patrimonio storico e simbolo dell’identità nazionale. Se l’italiano non serve per la scienza (come invece succede da secoli, almeno da quando Galileo lo usò per i suoi scritti), se non serve per la didattica e per la ricerca,  diventa una lingua buona per la comunicazione quotidiana e per poco altro.

Né vale affermare che questo prezzo è necessario, se vogliamo accogliere studenti stranieri, che vorremmo sempre più numerosi. Davvero gli studenti stranieri non si iscrivono perché l’italiano è difficile e rappresenta un ostacolo insuperabile? O, piuttosto, gli ostacoli veri sono legati alle gravi e persistenti carenze strutturali dei nostri atenei? E, ancora, uno studente straniero che venga in Italia senza aver voglia di (o essere spinto a) imparare l’italiano vivrebbe in una sorta di bolla linguistica, senza nessuna possibilità di fare amicizie, di conoscere il mondo intorno a lui, di inserirsi nel tessuto sociale e culturale del paese dove ha scelto di vivere per un certo tempo e magari, successivamente, cercare di lavorare.

La soluzione teoricamente preferibile (adottata da alcune università) sarebbe quella di un «doppio canale», con i corsi duplicati nelle due lingue, in italiano e in inglese. Ma è dispendiosa (e io sono un sostenitore della sobrietà, anche economica) e poco funzionale, non risolve il problema della integrazione tra culture diverse e del plurilinguismo, per gli italiani e per gli stranieri. Si potrebbe invece pensare a percorsi in cui coesistano insegnamenti nelle due lingue, con percentuali non rigide (orientativamente 60%-65% di insegnamenti in italiano, 40%-35% di insegnamenti in inglese; ben calibrati tra corsi fondamentali e corsi opzionali). Con una simile organizzazione, aperta e dinamica, gli studenti potrebbero con gradualità accostarsi alla lingua non propria (gli italiani all’inglese, gli stranieri all’italiano). E, alla fine del percorso, conseguire senza grandi difficoltà il titolo di studio e, contemporaneamente, acquisire il possesso di una lingua diversa dalla propria.  

                                [“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 6 gennaio 2022]                                    

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