di Rosario Coluccia
Ai lettori della rubrica non sarà sfuggito che, in tanti anni, non ho mai parlato di una delle più rilevanti istituzioni culturali del Mezzogiorno, l’Università del Salento. La ragione è presto detta. Ho insegnato per decenni in quella Università, ho contributo alla formazione di migliaia di studenti e centinaia di laureandi, mi è capitato (per la benevolenza dei colleghi) di ricoprire qualche ruolo dirigente, quando ho smesso di insegnare Ateneo e Ministero hanno voluto gratificarmi con la nomina a professore emerito. Dunque ho riconoscenza e affetto per UniSalento. Per rispetto verso l’istituzione e per una forma di discrezione personale, ho preferito finora tacere sulle vicende e sulle scelte dell’università. Faccio ora un’eccezione perché un fatto recentissimo mi spinge a trattare un tema che attiene al mio mestiere di linguista e coinvolge scelte politiche e culturali di larga portata che riguardano tutti (studenti, professori, famiglie), la società intera.
«Nuovo Quotidiano» del 27 gennaio, edizione di Lecce, a p. 14, reca questo titolo: «Ingegneria. le lezioni non più in inglese. “Poco conosciuto”». Il sottotitolo integra: «Le decisioni del Consiglio didattico per la magistrale di Computer Engineering. L’UDU: “Un terribile passo indietro. Studenti stranieri tutti tagliati fuori”». L’articolo spiega che il Consiglio didattico di Ingegneria dell’Informazione (Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione) ha deciso di disattivare i corsi che da alcuni anni si svolgevano in inglese, ripristinando l’insegnamento in lingua italiana. La ragione di questa scelta risiede nello scarsissimo numero di iscritti che rende insostenibile l’insegnamento in inglese. Nonostante i tentativi per internazionalizzare l’Ateneo, pochissimi studenti stranieri (che in linea teorica potrebbero preferire i corsi in inglese) si iscrivono ai corsi leccesi; in aggiunta, gli studenti italiani, che conoscono poco la lingua straniera, non riescono a seguire quei corsi. Di qui la decisione di Ingegneria.