«Và, canzonetta mia, […] / vanne in Puglia piana, / la magna Capitana, / là dov’è lo mio core nott’e dia». Così recitano i versi finali della poesia «Amor mi fa sovente», composta da re Enzo, figlio naturale di Federico II. Enzo si impegnò in una serie di campagne militari contro il papato e contro i comuni dell’Italia settentrionale ostili all’imperatore. La sua carriera militare si interruppe bruscamente quando, il 28 maggio 1249, fu sconfitto dai bolognesi a Fossalta, catturato e rinchiuso in quello che ancor oggi si chiama Palazzo di re Enzo, in Piazza Grande a Bologna (quella cantata da Lucio Dalla), dove restò fino alla morte, avvenuta il 14 marzo 1272, un certo numero di anni dopo la fine dalla dinastia sveva e la scomparsa dei suoi esponenti: Federico muore nel 1250 (e con lui svanisce il sogno di un moderno stato meridionale, comincia il declino secolare), suo figlio Manfredi nel 1266, suo nipote Corradino nel 1268.
«La magna Capitana» cantata da re Enzo è la Capitanata, terra cara all’imperatore (che fece di Foggia, in una certa misura, la capitale del Regno). Federico II soggiornò più volte in Capitanata, forse attratto dalla possibilità di cacciare con il falcone nelle zone acquitrinose, e si sforzò di trasformare quella terra in una nuova Conca d’oro palermitana, dove erano vissuti i re normanni. Il territorio diventò, complessivamente, la principale residenza imperiale (con la Basilicata per i mesi estivi). L’apprezzamento per la Capitanata che il figlio di Federico esprime è segnalato dall’iperbolico aggettivo «magna» ‘molto estesa, vasta’, o anche ‘che si distingue per nobiltà, prestigio, autorità; gloriosa’ (come diciamo di personaggi eccellenti: Alessandro Magno, Carlo Magno, ecc.). Allude a una caratteristica fisica l’aggettivo «piana» ‘senza dislivelli, priva di rilievi o avvallamenti’ accostato alla Puglia. La quasi proverbiale piattezza del suolo pugliese genera l’epiteto fisso «Puglia piana» che è anche in Jacopone da Todi e in molti altri autori, fino a quel formidabile riesumatore e rielaboratore di parole e formule remote che fu Gabriele D’Annunzio, nella «Beffa di Buccari» (1918) e nel «Libro ascetico della giovane Italia» (1895-1922).
Una generica citazione della Puglia è nel famoso «Contrasto» di Cielo d’Alcamo, schermaglia amorosa tra donna e amante, costruita su battute continue. A un certo punto la donna invita il giullare a cercare altrove una più bella di lei. A questa sollecitazione l’uomo ribatte che, pur avendo cercato dappertutto, non ha trovato donna altrettanto nobile, per questo l’ha scelta: «Cercat’aio Calabria, Toscana e Lombardia, / Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria, Lamagna e Babilonia, e tuta Barberia: / donna non ci trovai tanto cortese». Si tratta solo di un’indicazione generica, la Puglia rientra in una lista fittizia di località visitate dall’uomo alla ricerca di una donna straordinaria. Come è fittizia, di sapore antonomastico, la citazione di Bari. Alla donna che lo sollecita ad allontanarsi per evitare rappresaglie fisiche da parte del padre e dei parenti di lei, l’uomo sfrontatamente replica: «Se i tuoi parenti trovami, e che mi pozon fare? / […] / non mi tocara pàdreto per quanto avere à ’n Bari». La menzione di Bari ha fatto pensare a un’origine pugliese del componimento, ma vale semplicemente a indicare la ricchezza di una intera città, è un paragone iperbolico. E non rinviano alla regione neppure i nomi dei due poeti Giacomino Pugliese e Ruggeri Apugliese. Per il primo, Pugliese è un cognome vero e proprio, diffusissimo in tutto il Sud, Sicilia inclusa; per il secondo è quasi certa una nascita senese, a Siena visse un «Apuliese notarius», probabilmente padre del rimatore-giullare che ci interessa.
Il bilancio è miserello, ma non poteva esserci molto, se consideriamo le caratteristiche della poesia siciliana, centrata sulla tematica amorosa. Tuttavia qualcosa che collega Federico specificamente al Salento esiste. Dal terzo decennio del Duecento, nell’abbazia di S. Nicola di Càsole (presso Otranto), tramite importante di trasmissione della cultura greco-bizantina all’intero Occidente, opera un piccolo gruppo di poeti: Nettario, abate del monastero, Giovanni Grasso, notaio e grammatico imperiale, Nicola di Otranto, figlio del precedente, Giorgio di Gallipoli, Drosos di Aradeo e Teodoto di Gallipoli. Non fanno poesia amorosa, trattano temi politici filoimperiali e, soprattutto, non scrivono in volgare italiano: scrivono in greco-bizantino, perché bizantina è la loro fede religiosa. I manoscritti che conservano i loro testi sono conservati in biblioteche italiane ed europee. Nulla è rimasto in sede, tutto è andato distrutto o disperso, come capita tante volte nelle vicende dei popoli meridionali, incuranti della propria storia, interessati più all’effimero divertente e rumoroso.
Chissà se una buona volta impareremo a non deturpare la nostra vita, a rispettare centri storici, edifici, biblioteche, coste, ambiente. Con serietà, senza inseguire miraggi, senza fare progetti infondati. Purtroppo non è possibile recuperare e destinare a nuova vita l’abbazia di Càsole, dove quei poeti e copisti lavoravano. L’abbazia non esiste più, dello straordinario gioiello medievale oggi è rimasto in piedi praticamente solo un muro o poco più, in una proprietà privata. Va acquisito alla proprietà pubblica (ci mancherebbe!), evitando che sparisca quel poco che è rimasto. Ma non si pensi di riportare in vita l’abbazia perché, semplicemente, non si può: è andata distrutta. Smettiamola di sprecare soldi pubblici, impieghiamoli (quando ci sono) in maniera corretta. Così faremo il bene delle nostre popolazioni.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 30 gennaio 2022]