Quanto mai opportuno perciò giunge ora il volume di Carducci, che affronta i principali aspetti della produzione letteraria di Pagano: quello di poeta innanzitutto, ma anche quelli di prosatore e di traduttore, nonché, in senso lato, di intellettuale. Nell’Introduzione l’autore accenna ai problemi critici più rilevanti che riguardano questo scrittore: 1) le caratteristiche del suo “ermetismo”, formula con cui forse troppo frettolosamente finora si è liquidata la sua poesia; 2) la natura del suo “maledettismo”, che è una componente di tipo letterario e non tanto biografico; 3) il rapporto tra teoria estetica e creatività (e a questo proposito bisogna dare atto a Carducci di aver tenuto presenti gli scritti critici di Pagano, fondamentali per capire i suoi testi poetici); 4) il nesso esistenza-arte (la formula di Carlo Bo “letteratura come vita” che servì a definire l’ermetismo va forse capovolta, nel caso specifico, in “vita come letteratura”); 5) l’impegno etico-civile, presente nella sua poesia, apparentemente così metastorica e assoluta: “Sempre en artiste, – scrive il critico – Pagano ha cercato di cogliere, del mondo d’oggi, le contraddizioni più sottili e laceranti, senza indulgere a facili ottimismi, che è già di per sé il segno di un atteggiamento mentale realisticamente critico”, p. 11); 6 il ruolo della riflessione nell’opera creativa; 7) e, in ultimo, il rapporto, sinergico, fra il traduttore e il poeta.
A questi, vorrei aggiungere un altro punto, un altro problema critico tuttora irrisolto, che mi sembra ugualmente importante: la posizione di Pagano nel panorama poetico novecentesco. Perché, se Comi viene solitamente inserito nella cosiddetta “linea orfica”, insieme ad Arturo Onofri, e Bodini in una linea sperimentale, tra ermetismo e neorealismo, di questo scrittore risulta difficile stabilire esattamente la collocazione. Egli infatti incomincia a pubblicare le sue raccolte nel 1958, quando l’ermetismo è da tempo finito, anche se le prime composizioni poetiche risalgono ai primi anni Quaranta. Ecco allora il problema: Pagano resta fedele fino alla fine alla corrente ermetica o c’è un’evoluzione nella sua poesia, come sembra di capire anche dai quattro poemetti inediti, pubblicati nel libro, che presentano indubbie novità rispetto al resto della sua produzione? Per questo, anche il problema della cronologia interna delle sue liriche, a mio avviso, non è del tutto insignificante, come invece sembra a Carducci. Completamente d’accordo con lui sono invece sul rifiuto della cosiddetta “triade” salentina, che sarebbe composta appunto da Comi, Bodini e Pagano. Questi infatti sono tre poeti diversissimi tra di loro, appartenenti a generazioni diverse e accomunati, in fondo, soltanto dall’origine. In questo caso, perciò, mutuare schemi che sono tipici della tradizione scolastica ha veramente poco senso.
Il primo aspetto che viene esaminato nel libro è quello, indubbiamente minore, del prosatore. Da qualche anno, come si è detto, tutte le prose di Pagano, disperse prima su periodici e numeri unici, sono state raccolte in un volume e quindi è più facile leggerle e esaminarle. Carducci le passa in rassegna, incominciando dai primi racconti, Notte di vento e Una visita all’amico pazzo, compresi in un libro dal titolo 2 X 10 = 20, stampato a Lecce nel 1938, quando cioè Pagano, che era nato nel 1919, aveva diciannove anni. Il libro conteneva venti novelle di dieci autori, tra i quali figuravano anche Luciano De Rosa, Francesco Lala e una sorella di Vittorio, Elena. In questi due racconti si avvertono gli echi, come giustamente nota Carducci, delle disordinate letture di quegli anni: Poe, Dostoevskij, Hamsun, Pirandello. Essi sono caratterizzati dal gusto dell’horror, del grottesco, del macabro e devono essere considerati, più che altro, come puri esercizi letterari. Le prove successive, apparse su “Vedetta mediterranea”, tra il 1941 e il ‘43, in tempo di guerra quindi, hanno invece un carattere memoriale e risentono del modello della prosa d’arte rondesca e solariana, ripresa dagli ermetici, anche se non sono prive di una certa pensosità. Si tratta di Licenza scaduta, Serenata alla notte di guerra, Ex libris, Momento notturno, Libera uscita. Più interessanti, anche per comprendere meglio il personaggio, l’uomo Pagano, sono due altri testi narrativi del 1944, Lo studente e Davanti a Minerva, in cui emerge quasi una sorta di autoritratto di ribelle, irregolare, attratto dai grandi sregolati della letteratura europea, da Villon a Baudelaire. Qui, in particolare, emerge il rifiuto dello studio, inteso come applicazione metodica, sistematica, ordinata, che l’autore sente come totalmente estranea alla sua natura.
Ma gli scritti in prosa più significativi di Pagano appaiono su “Libera Voce” tra il 1944 e il ‘47. E non ci riferiamo tanto ad alcuni raccontini di gusto un po’ surreale, come La paralisi, La fuga di Capinera e Notturno a Heléni, nei quali confluiscono molteplici suggestioni letterarie non sempre bene amalgamate tra di loro, ma alla serie di dodici pezzi intitolati Reportages in città, che riflettono la militanza azionista dello scrittore e sono, come scrive Carducci, “il documento del forte impegno civile dell’intellettuale Pagano” (p. 42). Di che si tratta? Si tratta, com’è noto, di inchieste dedicate ad alcune istituzioni cittadine come l’ospedale, il manicomio, l’ospizio di mendicità, ecc. o ad alcuni quartieri, come quello denominato Stalingrado, e, ancora, di descrizioni di avvenimenti e di strani personaggi incontrati per le vie di Lecce. In tutti questi scritti Pagano sembra avvicinarsi al neorealismo, poetica che pure non condivide, in quanto lo stile diventa più comunicativo, a volte quasi informativo, ma nemmeno qui, a ben vedere, mancano momenti lirici e inventivi. Si veda, ad esempio, la descrizione del “Settecorna”, nel racconto omonimo o del vecchio mendicante, nel pezzo intitolato La bandiera si ammainò. Ma il punto più alto di queste prose a me pare I bambini hanno anime di pidocchi, su cui anche Carducci si sofferma, perché qui lo scrittore dimostra veramente un autentico sentimento della polis, della collettività. In particolare, durante la visita del degradato quartiere leccese denominato Stalingrado, la sua attenzione è attratta dai bambini che vivevano in condizioni estremamente precarie. E proprio ai bambini è dedicata la conclusione del reportage che “rivela già l’animo del futuro, eccezionale e lungimirante ‘maestro’ in un Centro di rieducazione” (p. 49). Ecco il brano finale: “Impedire ai bimbi di traviarsi, di formarsi l’anima del pidocchio: ecco la missione principale per non avere una patria rovinata e inguaribile, una patria pidocchiosa”. E qui emerge anche, si può aggiungere, la lucidità della visione di Pagano che individua proprio nel problema dei bambini, del loro futuro il problema decisivo per la crescita della società.
Al traduttore è dedicato il secondo capitolo, intitolato Approcci al traduttore e spunti di poetica, che contiene alcune puntuali osservazioni su questa sua attività, superiore addirittura, secondo alcuni, a quella creativa. Forse per parlare compiutamente di essa ci sarebbe stato bisogno di un altro volume, perché, com’è noto, oltre che assai intensa, è stata anche molto varia. Due, in particolare, sono stati i momenti della letteratura francese privilegiati dal traduttore: il Medioevo, con la Chanson de Roland e Francois Villon in primo luogo, e l’Ottocento, con i grandi poeti simbolisti, da Nerval a Baudelaire, da Verlaine a Rimbaud, da Corbière a Mallarmé a Rollinat, tutti presenti nell’Antologia dei poeti maledetti del 1957. Da questi scrittori riprende appunto il tema del mauditisme, che, come sostiene l’autore, non è l’esperienza vissuta, non è cioé un fatto di natura biografica, ma materia poetica. Ora, com’è noto, Pagano non è stato l’unico grande traduttore-poeta che ha avuto il Salento nel secondo Novecento. Accanto a lui bisogna ricordare almeno Bodini e Macrì, e giustamente Carducci mette in rilievo l’importante funzione di apertura verso la cultura europea, svolta dalle loro traduzioni, tanto più importante se messa in rapporto con la marginalità del territorio in cui operavano. E una vera e propria dichiarazione d’amore verso la Francia, non priva anche di connotazioni ideologiche, è contenuta nell’articolo Testimonianze alla Francia, apparso su “Libera Voce” nel 1944: “Questa Italia, questo meridione d’Italia così inquieto così inquietamente romantico, è il rosso del mio sangue, la luce e l’ombra dei miei occhi, la forza e il senso della mia carne: e se no, vorrei essere di Francia. L’Italia è patria in cui consisto, la Francia è ragione del mio sentirmi europeo, vertice del mio amore del mondo” (p. 57). Da notare che, più o meno nello stesso periodo, si possono trovare analoghe dichiarazione nei confronti della Spagna da parte di Bodini.
Anche la concezione della poesia che lo scrittore va elaborando negli scritti apparsi su “Libera Voce” tra il 1944 e il ‘46 risente più dell’influenza di Valéry che di Croce. A questo proposito così scrive il critico: “L’intento primario del poeta non è la rappresentazione della realtà […], bensì la conoscenza di essa, nei suoi aspetti più reconditi e segreti, conformemente ai dettami del lucido Monsieur Teste, personificazione dell’intelletto” (p. 59). Da qui derivano quella patina di cerebralismo notata da Marti in Pagano, nonché quell’ “ipertrofia barocco-simbolista”, individuata da Macrì, che sono i tratti più caratteristici e costanti di questa poesia.
Com’è noto, le sue sono versioni metriche, più libere e originali ma meno fedeli rispetto a quelle di altri traduttori (e ciò si può notare anche dagli esempi che vengono portati nel libro). Egli infatti cerca di ri-creare in un altra lingua lo spirito dei testi tradotti, a volte a scapito anche della fedeltà al testo. Proprio questo rivendica nella Nota all’Antologia poetica nervaliana, apparsa nel n. 23-25 dell’ “Albero” nel 1955, citata in nota:
La nostra di tradurre metricamente non è una fissazione da artigiani perdigiorni, bensì un bisogno di chi, volgendo da una lingua a un’altra un poeta (e non per soli fini didascalici), crede di capire che, per questo poeta, la metrica è un elemento sostanziale, inalienabile e necessario dell’espressione poetica: è addirittura il modo dell’ispirazione” (p. 67).
Ma la parte più consistente del libro è dedicata ovviamente alla poesia di Pagano, della quale per la prima volta si passano in rassegna i vari momenti rappresentati da quattro raccolte: Calligrafia astronautica (1958), I privilegi del povero (1960), Morte per mistero (1963), Zoogrammi (1965). In particolare, il critico ha il merito di aver tentato l’interpretazione di alcune liriche, particolarmente oscure, rifacendosi “alle strutture profonde dell’ideologia” paganiana, consapevole anche dei rischi che si potevano correre, data la caratteristica polisemica e “ambigua” della poesia paganiana.
Ripercorriamo perciò anche noi alcuni dei momenti principali di questa poesia, così come sono proposti nel libro. E partiamo da Calligrafia astronautica, la raccoltina apparsa nel 1958, di cui il sonetto di apertura, A Giorgio Caproni (p. 22), si può considerare una sorta di dichiarazione di poetica:
Perché, Giorgio, di scavi e scavi, sotto
gli apparati mutevoli, altamente
stancarsi, sì che l’ombra e il sole niente
distingua più allo sguardo che incorrotto
ne vive o muore? A un filo s’è ridotto
l’àndito perseguibile, furente
se n’aggroviglia il piede che ci mente
provvidi scali – e il ponte umano è rotto.
Scavare, gioia di condanna, è questo
che impone la parola modulata,
l’edificio d’abisso ov’è raccolto
tutto il piangere, il ridere, il funesto
grido che raggelando ogni giornata
s’esilara in un mondo capovolto.
A proposito della concezione della poesia che emerge in questo sonetto, l’autore fa riferimento al modello ungarettiano della “parola scavata nella vita come un abisso” e di quello offerto da Valéry, che coniuga “densità e armonia”, ossia concentrazione concettuale e ritmo. S’è già detto che questa prima raccolta esce nel 1958. Siamo cioè in un periodo in cui l’ermetismo è ormai definitivamente tramontato e nuovi modelli di poesia si affermano in Italia, come lo sperimentalismo. Egli però resta fedele a quella poetica nella quale si era formato e di essa conserva e anzi rivendica “i tratti più congeniali al proprio sentire il rapporto con le cose e il mondo” (p. 73), accentuando certe caratteristiche, al punto che, a nostro avviso, non è sbagliato parlare per la poesia di Pagano di una sorta di ermetismo “al quadrato”. Non è vero però, secondo Carducci, che il reale, la storia restino fuori da essa. Tutto ciò affiora invece non in forma scopertamente realistica, ma “ ‘sotto la specie esistenziale’ e perciò universale: cioè come problematicità nella sfera dei sentimenti e degli eventi, come antinomia insoluta dell’io col mondo” (p. 75).
Allora quali sono i temi principali della poesia di Pagano, sia pure sempre trasfigurati e metaforizzati, che l’autore del libro individua puntualmente? Intanto il motivo della famiglia: il figlio e la moglie. Ma il figlio da lui non è visto alla maniera romantica o crepuscolare, cioè sentimentale o patetica, bensì nella “immutabile dimensione parmenidea delle cose” (p. 80), come di una continuità tra la decadenza non solo fisica del padre e la “rinascita rifiorente del proprio essere nelle intatte sembianze del figlio” (p. 81). E a questo proposito assai significativa è la prima delle Due stanze a Stefano (p. 81), tratta da I privilegi del povero :
Quanto di foglie avrò all’autunno, è cosa
squallida a dirsi – o lieta se le rame
secche faranno, figlio, il tuo reame,
fuoco che scalda, tetto che riposa.
Tu, se la morte è freddo che mi serra,
vero silenzio e cella tenebrosa,
e il non pensare, il cedere alla terra
l’occhio, la mano, gli equilibri e i crolli,
tu primavera mi ti fingi, esplosa
di qua da me, sottile agguato, e affolli
d’altre speranze l’ultima giornata
di questa mia radice distaccata.
Poi c’è la moglie alla quale sono dedicate invece quattro Ballate matrimoniali, che descrivono questo rapporto “in termini realistici, di naturale alternanza di carnalità e di spiritualità” (p. 82), secondo uno schema che a Carducci sembra richiamare opere classiche come il Cantico del cantici e il Pervigilium Veneris.
Ma anche la famiglia d’origine e, in particolare, le figure dei genitori sono presenti nella poesia di Pagano. Questo, com’è noto, è un motivo che lo collega strettamente ad altri poeti meridionali del Novecento, che hanno militato nell’ermetismo, da Quasimodo e Sinisgalli a Gatto, quest’ultimo suo grande amico. Anche la rappresentazione che viene fuori da queste liriche è quella della tipica famiglia meridionale di origine contadina con il padre visto come pater familias e la madre come mater dolorosa. Col padre emerge un rapporto complesso, burrascoso tanto è vero che Carducci parla di un “padre-padrone”, che viene rimpianto però dopo la morte, come nella poesia Fatto lampo (p. 96):
Tu vieni a narrarmi il commiato
del passero senza più nido:
tu sai ricomporre il suo grido
nel soffio che sei diventato.
Ma questa pietà che mi tende
la mano implume si gela
nel vuoto che ormai ti rivela,
o atteso ch’è inutile attendere.
E quando mi geme la notte
ai vani prodigi del giorno
tu sempre tradisci un ritorno
nell’ombra che dolce t’inghiotte.
Se ancora d’un’alba schiarita
avrò l’incredibile scampo,
può darsi che tu, fatto lampo,
precipiti nella mia vita?
Un altro tema presente è quello della città e della terra natia, che anche da Bodini, com’è noto, viene messa al centro della sua immaginazione. E anche in questo caso c’è un rapporto, non pacifico, di odio-amore, esemplificato nel libro attraverso l’interpretazione di una composizione, L’occhio dell’uragano, che prende spunto dalle celebrazioni del Santo Patrono, sottoposte a un’operazione di demitizzazione, di desublimazione. Così pure sono presenti motivi religiosi e di ascendenza biblica, che sembrerebbero contrastare con la sua visione laica della cultura e della storia.
Il quarto capitolo del libro è dedicato a Morte per mistero, del 1963, l’opera sicuramente più ardua e impervia di Pagano. Questa, com’è noto, è una composizione organica e unitaria, diversa quindi dalle altre raccolte.
È un poemetto – scrive Carducci – scandito in tre tempi: ‘Espediente di pace’, ‘Dramatis personae’, ‘Espediente di esequie’, nel quale si tenta una interpretazione della vita movendo dal suo rovescio […], che è la morte, si prefigura una ipotesi, un espediente appunto, d’investigazione dell’essere che muova dalla ricognizione immaginaria del non essere, dalla ‘fuga nel nulla che ci fa concreti’ ” (p. 114).
Essa è costituita da un’ ininterrotta serie di riflessioni di tipo esistenziale, che Carducci però invita a leggere non puramente in chiave autobiografica ma anche in chiave allegorica. È una sorta di bilancio della propria vita interiore e esteriore, “in vista dell’ineluttabile redde rationem ” (p. 120).
L’ultima raccoltina è Zoogrammi, la più rara di tutte, stampata nel 1965 “in tre esemplari numerati per il compleanno di Iole [Guacci, la moglie dell’avv. Tommaso Santoro], 30 novembre 1964”, ai quali vennero aggiunti altri diciassette esemplari, per complessive venti copie. La plaquette comprende otto composizioni (L’ombrina, Il topo, La lumaca, Il coniglio, Lo struzzo, La biscia, Il nibbio, I tassi), che hanno per protagonisti altrettanti animali accomunati alla specie umana dal punto di vista etologico.
Nelle pagine conclusive del libro Carducci esamina, infine, i quattro poemetti inediti di ispirazione biblica che poi pubblica integralmente: Scena per Betsabea, Numero per Giuseppe, Anabasi per Maria, Notizia di Lazzaro. Si tratta di un aspetto del tutto nuovo, come s’è detto, della produzione poetica di Pagano, anche se motivi biblici e religiosi non mancano nelle altre sue raccolte. In questi poemetti lo scrittore procede a un rilettura novecentesca di alcuni episodi della Bibbia, attraverso il filtro del pensiero di Schopenauer e Kirkegaard, Dostoevskij e Nietzsche. A volte c’è un capovolgimento dell’interpretazione tradizionale, come in Scena per Betsabea, in cui il poeta condanna David, che aveva strappato Betsabea al marito, e difende la donna della quale fa una sorta di apologia. Altre volte c’è una umanizzazione di certi personaggi come la figura di Giuseppe, padre putativo di Gesù, ma escluso inevitabilmente dalla sua dimensione, dal suo dramma, come si evince, ad esempio, dai seguenti versi che sono messi in corsivo dall’autore (p. 185):
ed io
sono escluso dal dramma, i miei sudori
non bagnano che il ceppo da spaccare
per il letto e la spranga
dell’uscio e il manico dell’ascia: vedo
ch’egli parla raccoglie
i trucioli cammina – e non m’è dato
rispondergli seguirlo interrogarlo
spezzargli il pane. Io sono
sempre di qua da lui che s’allontana
e soffre anche per me, padre del padre
figlio del figlio, come
voi tutti è certo che saprete è certo
che ridirete… ;
o, ancora, come quella di Maria, che l’autore rappresenta nelle vesti di mater dolorosa. La vicenda di Lazzaro è invece l’occasione per una ulteriore riflessione sul rapporto tutto-nulla, vita-morte, dormire-morire. Insomma, per concludere, vorrei dire che questi quattro sorprendenti poemetti, che Carducci ha pubblicato e attentamente analizzato, permettono di avere un’immagine più completa di Pagano e stimolano ad approfondire ulteriormente la sua complessa personalità e la sua opera.
[Presentazione del vol. di N. Carducci, Vittorio Pagano l’intellettuale e il poeta, Lecce, Pensa Multimedia, 2004 (Lecce, Liceo-Ginnasio “V. Pagano”, 12 novembre 2004); poi in A. L. Giannone, Modernità del Salento, Galatina, Congedo, 2009]