Ciò non meraviglia perché egli è ricercatore, docente, e in quanto tale, conoscitore della storia della letteratura ed anche attento ai nuovi fermenti artistici. Eliot dice che solo da una adeguata consapevolezza critica possono nascere delle proposte proprie. Soprattutto il riferimento è a Montale, centrale nel paradigma novecentesco del confronto-scontro fra dato e senso. La poesia sembra che sia il luogo dello straniamento. Certamente lontani, questi versi, non solo dalla metrica, ma da qualsiasi eleganza formale o politezza stilistica, sembrano piuttosto assoggettati al furore variantistico e al tormento esistenziale del loro autore. Sono cioè parole che cercano il senso ultimo senza mai trovarlo, parole della problematicità, che hanno in uggia la presunta pienezza oracolare della poesia, sono anzi parole che rifuggono una vera e propria liricità e sembrano dire “torni ricolma di riflessi, anima, e ritrovi ridente l’oscuro”, con Ungaretti. A volte queste parole trovano il vuoto, quei vuoti della lingua quando essa è impotente a significare le più profonde sfumature dell’essere. Una poesia sicuramente interessante, questa di Giorgino, con soluzioni sintattiche e lessicali anche inedite, come se scrivesse in preda ad un invasamento panico, ad un furore visionario. Il linguaggio usato è vario, attinge dall’uso, è basso, parlato, ma diventa anche aulico, in certi momenti più letterario, con introduzione di neologismi e frequenti forestierismi, rasenta quasi il pastiche. Si assiste alla frantumazione del tempo e dello spazio, le coordinate geografiche si annullano e del pari si cancellano le tre dimensioni temporali del presente, del passato e del futuro, che si intrecciano inestricabilmente fra di loro, si confondono e si mischiano nella rievocazione nostalgica, nella rielaborazione del proprio vissuto. L’autore è certamente cosciente di quanto sia difficile il mestiere delle parole e non chiede nulla ai propri lettori, troppo scafati per non essere diffidenti del gesto plateale, dell’abbraccio smaccato, della parola suadente. Egli sembra conoscere il senso profondo dell’atto poetico, quello che Heidegger chiama “afferrare l’inespresso”. Del resto, così cerca di fare chiunque scriva poesia, se d’accordo con l’hasard di Mallarmè, ossia che il linguaggio può fallire in questo tentativo, ma varrà la pena gettare i dadi.
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