di Rosario Coluccia
Alcuni anni fa circolò in televisione e in rete un video pubblicitario, che promuoveva la nuova edizione di un vocabolario della lingua italiana. Una giovane attrice giocava in maniera divertente sull’uso ripetuto della parola «carino» per descrivere cose, circostanze, luoghi e contesti differenti. Nel video l’attrice, con diverse intonazioni della voce, usa «carino» quando vede passare un bel giovane palestrato, quando un signore le cede il posto in autobus, quando commenta un film che le è piaciuto; sospira «che carino» quando abbraccia affettuosamente un cucciolo di cocker; sussurra «carinissimo» quando ammira il panorama dei sassi di Matera. Alla fine si ravvede e capisce che non tutto è semplicemente carino, termine che, troppo spesso usato, non può valere per definire cose o fatti così diversi. La nostra lingua possiede altri aggettivi, che possiamo variare a seconda delle circostanze: «magnifico», «emozionante», «sconvolgente», «eccezionale», «splendido», «grandioso», «fantastico», «bellissimo». Il video si chiudeva con un invito semplice ed efficace: «Senza parole? La lingua italiana ne comprende oltre duecentocinquantamila, usiamole». La campagna si concentrava sulla ricchezza della lingua italiana e sulle sfumature dei termini che la compongono.
L’obiettivo è condivisibile: spingere tutti noi, indipendentemente dalla attività che pratichiamo, ad ampliare e diversificare il nostro lessico quotidiano. Anche con l’aiuto di un buon vocabolario, suggeriva quella pubblicità. Non bastano le ottocento parole (più o meno) ritenute sufficienti per le necessità elementari della vita quotidiana: ne risulterebbe appiattita la visione stessa del mondo.