1. Elezione aristocratica e cavalcantismo letterario
In un intervento del giugno 2017 lo sguardo di Luigi Scorrano1 si appuntava con lucidità sul dantismo salentino e, salvo sporadici e scarni precedenti, storicizzava l’attenzione per Dante in Puglia a far data dal 1965. Citando Petraglione, il quale si era soffermato in particolare sui decenni che precedevano il secondo conflitto mondiale, proprio Scorrano ricordava studiosi che per diverse vie e con metodo differente si presentavano di scorcio o a prima fronte in vista di Dante e della Divina Commedia, talora con esigui interventi, ma a volte in prospettiva più generale. Il balzo di qualità della nuova stagione di tali studi era individuato nel più attivo impegno da parte delle Università pugliesi, contrassegnato da un drappello di studiosi che con notevole frequenza rivolgevano la loro attenzione all’opera dantesca. L’Ateneo leccese in questo senso poteva vantare la presenza di due dantisti di gran nome come Mario Marti e Aldo Vallone, che spesso intervennero su temi e problemi della tradizione dantesca: lo ricordava ancora Scorrano, noto e raffinato interprete di Dante e collaboratore proprio di Vallone. A dire il vero l’interesse per Dante in area salentina, a livello poi sistematico, vide l’esordio di Mario Marti con un breve saggio del 1952, Aspetti stilistici di Dante traduttore2, seguito da qualche recensione. La prima lectura Dantis da parte di Marti risale invece al 1956, sul XV del Purgatorio3; da lì in poi lo studioso lupiense dedicò mezzo secolo e più di vita in maggior parte al più grande poeta della tradizione occidentale. Di Aldo Vallone invece Gli studi danteschi dal 1940 al 1949 (Firenze, Olschki) risalgono al 1950; poi altri tre lavori si collocano fra il ’53 e il ’58: La critica dantesca contemporanea, presso la pisana Nistri-Lischi, è del 1953, gli altri due presso la fiorentina Olschki: Studi sulla “Divina Commedia” (1955) e La critica dantesca nell’Ottocento (1958). In somma con i due appassionati esegeti degli studi su Dante il new deal critico in Terra d’Otranto va retrodatato di quasi due lustri e collocato già all’altezza del biennio 1955-56. Nell’ambito di tale agguerrita pattuglia spicca anche Enzo Esposito, acuto interprete dell’opera del poeta fiorentino, con interventi critici abbinati a preziosi repertori bibliografici. Tra l’altro, come è noto, da Bari la significativa presenza dei saggi danteschi di Mario Sansone e di Francesco Tateo4 costituiva la pietra miliare di una linea di sviluppo continuativo, con i successivi puntuali riscontri nell’attività di Domenico Cofano e degli allievi (tra Bari e Foggia), senza trascurare l’impronta valloniana ereditata da Pasquale Sabbatino a Napoli, da Ruggiero Stefanelli e da Leonardo Sebastio sempre in Puglia, insieme con la prosa critica suggestiva e profonda di Michele Dell’Aquila.
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Il mio interesse per la prospettiva critica dantesca proposta da Mario Marti risale invece agli anni del Liceo, quando giunsi a scoprire un brano dello studioso salentino inserito a completare il capitolo su Dante nella Storia-Antologia di Salinari-Ricci5. Erano pagine tratte dalla Genesi del realismo dantesco, e l’autore avvicinava il ‘padre Dante’ anche nei termini dell’impegno agonistico, a dire nell’arengo della politica, che nel suo tempo presupponeva una dedizione totale, in correlazione con scelte esistenziali, che potevano condizionare pesantemente non solo lo status economico e sociale di ciascuno dei protagonisti e di semplici attori con le loro famiglie, ma notoriamente e a ogni piè sospinto la stessa vita. L’interesse verso il Dante di Marti si è protratto per intervalla, e la sintesi innervata da Valter Leonardo Puccetti con l’intenso saggio Il Dante di Mario Marti, apparso nelle pagine della rivista «L’Idomeneo»6, è riconoscibile e condivisibile per chi ha frequentato le aule universitarie da studente, seguendo Marti e interessandosi al “suo” Dante.
A parere di molti, anche se in concorrenza con Leopardi, per Marti Dante fu lo scrittore dell’anima7: il decisivo saggio Sulla genesi del realismo dantesco8 del ’60 si accompagnava al significativo Gli umori del critico militante9 in occasione del centenario dantesco del 1965, che risultava illuminante per la storia dell’influenza su Dante da parte dei poeti a lui contemporanei. Tale saggio si nutriva in filigrana del De vulgari eloquentia e tracciava una «vertiginosa»10 visione d’insieme fra Lapo Gianni e Cecco Angiolieri e, senza obliare Guittone, individuava Cino come anti Cavalcanti11 nell’esperienza di Dante: è il punctum morale e esistenziale, della vita e della carriera di Dante, che affascinò Marti e che sotterraneamente guida le soluzioni di molti altri suoi scritti danteschi. Sono gli anni per Dante genetici, a riprendere il titolo del saggio di Marti, e meglio si direbbe psicogenetici, tra la sistemazione della Vita Nuova come chiusura, criticamente razionalizzatrice, di quel capitolo giovanile, su un lato, e sull’altro lato l’ingresso nella vita pubblica. Per Marti, la nascita del realismo dantesco e l’altezza di un Dante più grande in poesia muovono dalla scoperta del reale e della polis, degli altri attorno a lui e del reticolo dei doveri rispetto alla città. È una scoperta travagliata e infine delusiva (Marti parla di quegli anni come degli anni delle Malebolge fiorentine), ma è scoperta decisiva per lo sfondamento delle strettoie di poetica stilnovistica, vissute come «paratie lirico-iniziatiche» dinanzi all’apertura verso il gran mar della realtà fenomenica.
L’amicizia fra Dante e Guido Cavalcanti sembra nascere in occasione dell’incontro letterario avvenuto intorno al 1283, all’altezza della data compositiva del sonetto dantesco; si può dire che poi all’epoca della Vita Nuova, circa dieci anni dopo, il rapporto amicale appariva saldo a tal punto che il più giovane poeta collocava Guido in cima alle proprie relazioni umane (VN, III 14: «primo de li miei amici»). A diciott’anni Dante rimatore doveva sentirsi sicuramente lusingato dalla voce espressa a suo favore dal ‘maestro’ Cavalcanti, per cui l’adesione del giovane Alighieri alla poetica stilnovistica significava anche simpatia, omaggio e gratitudine verso il poeta di Donna me prega12, che vedeva riconosciuta la sua autorevole figura di maestro nell’elitario cenacolo dei nuovi poeti fiorentini.
Anche per Dante in un certo ‘momento’ giovanile, amore è «tramenio dei sensi» (ricorda Marti), ottenebrazione della ragione, stimolo alla virtù irascibile, com’è in tante rime dell’amico Guido. Sono aspetti particolarmente visibili in taluni componimenti rimasti fuori della Vita Nuova; nel sonetto De gli occhi de la mia donna si move (Rime LXV), per esempio, e nelle canzoni E’ m’incresce di me sì duramente (Rime LXVII) e Lo doloroso amor che mi conduce (Rime LXVIII). Esemplare appare l’intervento di Marti a tal proposito, e per limpidezza stilistica e trasparenza concettuale si propone come di seguito13:
Cavalcantismo indubbio, che tuttavia non scivola mai a documento di soggezione o d’imitazione passiva, ma rivela e conserva un suo dinamismo di rielaborazione e di adeguazione; vitale nutrimento che darà i suoi frutti in talune poesie, nelle quali difficilmente si penserebbe all’influsso di Guido, per altro altrettanto difficilmente negabile, nella direzione di un’angoscia psicologica espressionisticamente scarnita ed essenzializzata (Donna pietosa e di novella etate, Vn XXIII 17-28), o inattesamente nell’altra direzione che s’inclinerà sul piano dell’allegoria (Voi che savete ragionar d’Amore, Rime LXXX) nel miraggio di una nuova speranza (vv. 25-28).
E non può mancare la valutazione motivata, arricchita mi pare da una via empatica martiana sul sentimento d’amicizia14:
Donna pietosa e Voi che savete son due componimenti del miglior Dante lirico, tali da caratterizzarne taluni aspetti; e tuttavia in quella voce… sì dolorosa / e rotta sì da l’angoscia del pianto; dietro quegli spirti sì smagati / … che ciascun giva errando; in quell’immaginare di caunoscenza e di verità fora; nei visi crucciati che ripetono Morra’ti, morra’ti, ecc., della canzone Donna pietosa; e di là da quella donna disdegnosa, la quale Tanto disdegna qualunque la mira, / che fa chinare gli occhi di paura, ecc., della ballata Voi che savete; si delinea ben chiara, pur se vaga e sfumata, la fisionomia dell’amico Guido.
In tale direzione il fascino suscitato attraverso i secoli dal sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (Rime LII) appare significativo. Alcune letture novecentesche risentono ancora del filtro romanticheggiante, ma il critico lucidamente innerva il senso della relazione fra i tre amici, con Lapo accanto a Guido, e ne caratterizzava il sodalizio in prospettiva tematico-stilistica e ideologica; in tal senso vale la pena rileggere l’articolazione della riflessione del critico di Soleto15:
Del resto, uno dei documenti diretti e più significativi di questo avventuroso sodalizio è costituito dal sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (Rime LII). È vero che in questo caso il nome di Guido è affiancato a quello di Lapo Gianni; ma proprio questo fatto è indicativo della natura del legame dantesco, che è squisitamente letteraria nel segno di un’elezione decisamente aristocratica.
È noto che quel breve componimento rientrava nel tradizionale genere del plazer; ma come in altre occasioni, a parere di Marti, anche in quella Dante procedeva alla sua individuale rielaborazione del genere, avendo nell’anima pure delle note cavalcantiane che risuonano nel sonetto Biltà di donna e di saccente core16, per quanto questo non sia composto nella tecnica del plazer strettamente intesa 17. E come di seguito il dantista continua:
I versi con i quali Guido rispose a Dante, S’io fosse quelli che d’amor fu degno18, non sembrano essere tra i più felici di lui, e par che impallidiscano, quando siano raffrontati al sonetto dantesco (com’è doveroso in questi casi di corrispondenza poetica), alla sua ampiezza dolcemente musicale e soavemente malinconica, seppur non priva, alla fine, di un ammiccare sorridente di grazia maliziosa (e ciascuna di lor fosse contenta, / sì come i’ credo che saremmo noi, vv. 13-14). Al Cavalcanti assai “piacerla” quel vascello d’amore (“siffatto legno”), se la sua donna “tenesse altra sembianza”; ma egli confessa di non appartenere a quell’ “amoroso regno / là onde di merzé nasce speranza” (è il tema dantesco svolto anche nella ballata, poco fa ricordata, Voi che savete ragionar d’amore), ma di essere invece disfatto dagl’irrazionali colpi di Amore, che, togliendogli ogni fiduciosa previsione, tengono immerso il suo spirito in una greve e incontrastabile “pesanza”.
Può apparire una sorta di tenzone minore (una tenzoncina, diceva Marti), all’interno di una confidenziale discussione attinente a possibili casi amorosi, beninteso caratterizzata dai fondamenti stilnovistici; «né la travalicano i sonetti Se vedi Amore, assai ti priego, Dante19, e Dante, un sospiro messagger del core20, in entrambi i quali, al nome dell’amico cui son diretti, seguono argomentazioni e immagini che riguardano Lapo; onde sembra ricomporsi il trittico del plazer dantesco con la rispettiva sostituzione di mittente a destinatario: Guido, Lapo, Dante».
È possibile pensare che il sonetto Guido, i’ vorrei abbia un legame più che occasionale con i due sonetti citati, che Guido inviava a Dante col letterario pretesto di accertarsi se veramente Lapo fosse vinto da Amore (Se vedi Amore, assai ti priego, Dante) o di narrargli di una propria intercessione a favore di lui presso Amore colto nell’atto di affilare i dardi, e che quel sonetto dantesco (scritto prima o dopo, è impossibile precisare) costituisca una «specola di felice sintesi» (definizione martiana) per quei rapporti, al contempo consacrando lo stabile insediamento di Lapo nello sparuto gruppo degli eletti, autorizzato dall’intercessione cavalcantiana.
E Marti21:
Così operava nell’ambito dello Stilnuovo il sentimento della sodalitas, di un’amicizia che era accettazione di una comune poetica, adesione fervente e sincera ai comuni ideali di una letteraria aristocrazia. E nel suo enuclearsi e costituirsi, il gruppo si caratterizzava e differenziava con impegno militante dal guittonianesimo diffuso, e con precisa coscienza scolastica e culturale dalla più e meno recente tradizione.
È il tempo che precede l’aperta e più volte ricordata dichiarazione della Vita Nuova: quella in cui Guido è chiamato primo degli amici (III 14), per un pizzico di orgogliosa e forse compiaciuta indicazione di un vincolo ideale, che sembra trovare una sorta di conferma nella conclusione del cap. XXX, là dove si intravede come dovuta al prestigio del Cavalcanti il ricorso a una lingua ‘volgare’ che traduce in realizzazione la volontà di preterire l’uso del latino proprio nel prosimetro, risparmiando alla Vita Nuova lunghe citazioni in lingua latina («E simile intenzione so ch’ebbe questo mio primo amico a cui io ciò scrivo, cioè ch’io li scrivessi solamente volgare», XXX 3)22.
Ed è lì, per Marti, che si situa la rottura col primo degli amici del Poeta23, con il Guido cronologicamente secondo dopo il pioniere bolognese, ma vessillifero del primato di una fervente adesione ai comuni ideali di letteraria aristocrazia24. Sul nesso formativo e poi sulla negazione dantesca di quel momento, come per annullarne l’immediatezza e riaffermare invece il completamento a un grado di svolgimento superiore rispetto a Guido, Marti sembra rimasticare per tutta la sua carriera di studioso25, oltre la soglia del secondo millennio concluso, come testimoniano fra 2005 e 2009 i tre incisivi saggi, perspicui verso noi lettori e veramente magistrali nel superiore intaglio, affidati come un lascito: Da «Donna me prega» a «Donne ch’avete»: non viceversa26, Sui due Guidi di Pg., 97-9827 e Per una nuova «Vita di Dante» (con due affondi su Gemma e Guido)28.
- L’altro Guido
Lo diceva Dante in Pg. XI, 97-98: dopo la coppia Cimabue e Giotto, il quale rispetto al primo in quel momento ha «il grido» nella pittura, la gloria della lingua è stata tolta dal Cavalcanti a Guido Guinizelli: è quel Guido bolognese che nel Pg. XXVI sempre Dante chiama «Padre mio» e del quale (ancora in Pg. XXVI) il fiorentino apprezza i dolci detti, memorabili per quanto durerà l’uso moderno. Come è noto, tale paternità letteraria riconosciuta e la memorabilità dei detti guinizelliani sono alcuni degli elementi utilizzati dai fautori del binomio Guinizelli-Guittone, sostitutivo del duo Cavalcanti-Guinizelli (a lungo accettato) ai vv. 97-98 in Pg. XI, nella considerazione della «presunta identità onomastica Guittone-Guido(ne)»29.
È straordinario veleggiare fra le osservazioni critiche di Marti, dipanate in acuta esegesi, e per ciò stesso ricche sempre di annotazioni ora storico-civili, ora etico- ambientali, relazionali o individuali, di appartenenza elitaria o di elegia e sentimento introspettivo: significa veramente avvicinare Dante come contubernale intus et in cute, come compagno di tenda impegnato su molteplici fronti nell’agone dell’esistenza. Con lucidità Marti si pone il problema riguardante «la gloria de la lingua»30, in precedenza non di rado risolto con l’indicazione tout-court della «gloria della poesia»; una volta ammessa la condivisa unisemanticità della parola «gloria», il critico focalizza l’attenzione sul termine sintomatico di «lingua», pregnante sul piano storico-estetico in quanto fattore storico-linguistico.
È vero, «la gloria de la lingua» corrisponde alla «gloria della poesia», ma di una poesia che si esprime nel volgare universalizzante, da Dante battezzato come illustre, cardinale, aulico e curiale. In tale ambito però Guittone non rientrava: stretto fra detti municipalistici, angusto nella visione dello strumento linguistico e poco selettivo nel lessico, il poeta di Arezzo31 rimaneva privo del riconoscimento dantesco. Guinizelli invece era già alla testa dei rimatori bolognesi (De Vul. el., I, XV, 6), illuminati e colmi di discernimento in materia di volgare, come a dire che «la lingua dei doctores illustres locali si era allontanata dal volgare cittadino»32. Guinizelli era maximus Guido, il più grande nell’avvicinamento all’uso del volgare «come suprema conquista di tecnica espressiva, per attingere la «gloria de la lingua»33. Per altro il Guinizelli della densa e rivoluzionaria canzone Al cor gentil rempaira sempre amore non è più il Guinizelli guittoniano del noto sonetto O caro padre meo, dal bolognese indirizzato proprio al poeta d’Arezzo34, che lo riconosceva come figlio nel sonetto di replica. E la tecnica e l’anima del Dolce stilnovo si intravedeva come annuncio e nuovo solco nel Guido bolognese, antesignano e pioniere, con Guittone fuori gioco.
Fortunatamente la spinta alla ricerca non sembra conoscere soste e il dibattito critico sui due Guidi è ravvivato da intuizioni, scoperte, studi interdisciplinari, come auspicato e sostenuto a più riprese dallo stesso Marti. Così in una visione pluriprospettica maturano i contributi del denso volume sorboniano Les Deux GuidiGuinizzelli et Cavalcanti. Mourir d’aimer et autres ruptures, proprio riguardo al Cavalcanti. Nella penna della Cronaca di Giovanni Villani (IX,42), il Guido amicissimo di Dante «era, come filosafo, virtudioso uomo in più cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso»35, e a Marti non sfugge tale riferimento, insieme con l’altro boccacciano36. Da protagonista Cavalcanti appare, come è noto, nella nona novella della sesta giornata del Decameron, e la storia narrata da Elissa, regina della giornata, è incentrata sul motto finale espresso da Guido Cavalcanti. La narratrice rievoca brevemente il passato di Firenze di fine Duecento, quando c’erano «nella nostra città assai belle e laudevoli usanze» e «si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano loro brigate». Proprio nel citato volume Les Deux Guidi lo segnala la storica medievale Silvia Diacciati: l’ambientazione idealizzata è quella della Firenze di fine Duecento, che nei traumi della realtà municipale invece è straziata dalle cruente lotte intestine; e il sapiente scrittore di Fiammetta pone in sordina l’analisi realistica dei motivi sociopolitici dello scontro per concentrarsi sulla raffigurazione del mito di Cavalcanti e sulla celebrazione della sua brillante intelligenza37. Proprio nell’anno 1300 la festa del Calendimaggio, con la quale a Firenze si celebrava ogni anno il ritorno della primavera fra danze e canti, si trasformò rapidamente in un giorno di battaglia. Dalla festa per strada la gente si trovò all’improvviso in mezzo a scene cruente: la brigata dei giovani Donati aveva approfittato della festa per lanciarsi a cavallo contro la brigata rivale dei Cerchi precipitando la città nella violenza38; e Guido fu sempre inimicissimo di Corso Donati.
Nella novella di Boccaccio39 Betto dei
Brunelleschi aspira a coinvolgere il solitario Guido Cavalcanti nella sua
brigata non tanto (o per nulla, come aggiunge la voce narrante) per le sue
capacità intellettuali, quanto per le sue doti cortesi e cavalleresche. Dopo la
risposta arguta e tranchant, prima di
dileguarsi, Guido a Betto40 dimostra di saper agevolmente superare
con un balzo una delle grandi arche sepolcrali che si ergevano nei pressi del
duomo. Guido Cavalcanti era un cavaliere dotato di ardimento, di abilità e
preparazione atletica, e possedeva insieme le doti dell’eloquenza e
dell’arguzia, la ricchezza e la cortesia, tutte qualità41 che lo
collocavano nel temuto gruppo dei magnati42. Lo conferma anche un sonetto
rinterzato dedicato a Guido Cavalcanti da Dino Compagni43, che ne
lodava la raffinatezza intellettuale insieme con tutte le virtù fisiche proprio
in un’ottica bellico-cavalleresca44:
Come sé saggio, dico, intra la gente,
visto, pro’ e valente,
e come sai di varco e di schermaglie,
e come assai scri[t]tura sai a mente
soffisimosamente45,
e come corri e salti e ti travaglie:
[…]
Guido Cavalcanti era rientrato nella sua città da pochi giorni: la data della sua morte è indicata nel 29 agosto 1300, per febbri malariche contratte a Sarzana, dove i Priori del comune di Firenze (come ben noto, uno era Dante) l’avevano esiliato due mesi prima; aveva probabilmente quarantadue anni, ma non più di quarantacinque46. Nel 1260, Cavalcante, padre del poeta, fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti; sei anni dopo, in seguito alla sconfitta dei ghibellini nella battaglia di Benevento del 1266, i Cavalcanti riacquistarono la preminente posizione sociale e politica a Firenze. Come è noto, nel 1267 a Guido fu promessa in sposa Beatrice, figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina, per favorire la pacificazione tra Guelfi e Ghibellini. Come già detto, nella stagione successiva alla Vita nova sembra sfumare irrimediabilmente l’antica solida amicizia; quel rapporto da emulativo si trasforma presto in competizione aperta fra temperamenti molto differenti, per poi divenire antagonismo spigoloso sul versante della filosofia e dell’ideologia letteraria, in particolare sul senso profondo dell’amore.
Ricorda Marti47 l’assai noto e retorico gioco etimologico compiuto nel prosimetro da Dante sull’appellativo di Primavera: come s. Giovanni precedette la verace luce, così la Giovanna cavalcantiana precede Beatrice; ella è denominata Primavera perché ‘prima verrà’, seguita dalla gentilissima donna di Dante: «Amor mi disse: Quell’è Primavera, / e quell’ha nome Amor, sì mi somiglia» (XXIV 9, 13-14): Giovanna e Beatrice; Primavera e Amore. Fra Guido e Dante, a quell’altezza cronologica le due poetiche appaiono due concezioni ancora integrate, come fossero reciprocamente necessarie e complementari, dal momento che si appalesano nel loro spessore e valore. Pure a leggere fra i varchi offerti, Marti ricava dai loro testi che lo “stizzoso” poeta-filosofo48 Guido si sdegnò fortemente con l’amico più giovane, il cui talento cominciava a brillare, ma che evidentemente ai suoi occhi ancora non si stagliava nitido, proteso com’era a intrecciare e forse a ingarbugliare la poesia con la votiva lampada per la divinità.
Tale comportamento di Guido è segnalato da Dante nel celebre Canto X dell’Inferno, in quel passo oggetto di notevole travaglio critico-interpretativo, quando fra gli eretici incontra l’ombra di Cavalcante padre di Guido (vv. 58-60: Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, / mio figlio ov’è?, e perché non è teco? /) che riconosce Dante e gli chiede in lacrime il motivo per cui il figlio non è con lui, amico di talento e sodale di scuola poetica. Dopo la richiesta di Farinata perentoria su Firenze, Dante è interrogato da Cavalcante padre49 sull’amicizia con Guido50; sono veramente due cardini della sua esistenza, uno politico, l’altro amicale, e nell’immaginario di Dante due miti, che si pongono a un bivio decisivo: chiusi i conti con la Firenze di Farinata, il viandante-poeta-teologo prepara la nota di avvertenza per l’antico amico. Come è noto, il pellegrino Dante risponde che non giunge nell’Inferno di sua iniziativa e che Virgilio (v. 62: colui ch’attende là) lo sta conducendo da chi (Beatrice) «Guido vostro ebbe a disdegno»: è un efficace e sostenuto modo per dire che, per dignità e appartenenza, non era il caso che Guido lo accompagnasse nel ‘divino’ viaggio. Fra l’altro Dante della Beatrice assunta in cielo diventa prima pupillo e beniamino, poi via via prediletto alfiere e ancora sacerdote; e similmente da esperienza psicologica e musica mentale, la poesia per e con Beatrice si forma e si sostanzia come itinerario mistico.
Cavalcanti51 con pari energia speculativa e forza poetica si oppone radicalmente al pensiero dantesco. Come pure detto, ‘epicureo’ lo credono i suoi contemporanei (con i ricordati Compagni, Villani, Boccaccio); nel suo discusso averroismo52, Guido non sembra condividere l’abbandono trascendente di Dante e analizza il fenomeno amoroso si direbbe in chiave clinico-fisica53, secondo la grande linea della tradizione medica araba54: l’amore è una sorta di malattia che assale e investe l’individuo e ne pervade l’animo, sino a offuscarne le facoltà, generando uno stato di dolore e di prostrazione disperata che può persino condurre a morte. Taluni elementi guinizelliani pure compaiono, ma più numerosi sono i testi cavalcantiani in cui l’amore sembra inferocire nei confronti della vittima e l’angoscia soffoca i barlumi dell’amore come fonte di beatitudine, sino a quella «pesanza»55 ricordata da Marti.
Per Cavalcanti è il poeta medesimo aggredito da una forza ingovernabile, capace di spossessarlo dei suoi «spirti» vitali; la sua stessa identità è posta in crisi, in un modo con il quale l’amore abbandona il poeta in balìa di uno speciale fantasma interiore e di una particolare insanabile ferita. La ‘materia’ cavalcantiana in fin dei conti è proprio quella abbandonata da Dante, per cui si può indicare Guido come il «poeta dell’interiorità56, mentre Dante, per dirla con Contini, rappresenta il «poeta della realtà», ma nel senso del soggetto pensante toccato e attraversato dall’esperienza dell’oggetto, in un rapporto tangibile e fortemente dialettico di conoscenza e amore57, per scelte culturali del poeta pellegrino che appaiono decisive a tal riguardo.
- Filologia e critica fra Comedìa, scelte esistenziali e arengo politico
È vero, nella cultura di Dante, averroismo e tomismo non significano tout-court eterodossia e ortodossia; alcune delle tesi di Tommaso (tre anni dopo la morte del teologo domenicano) vennero incluse nella condanna dell’aristotelismo del 127758, presso la facoltà di Artes dell’Università di Parigi e anche a Oxford59. Negli ultimi tempi ulteriori riflessioni hanno favorito una riconsiderazione dell’averroismo60 dantesco: Dante menziona più volte Averroè, e in un’occasione discute la corretta interpretazione di un suo passo, ma le ipotesi di una dipendenza diretta, spesso avanzate dagli studiosi, raramente sono confermate (come sostiene Zygmunt Baranski) da una solida evidenza filologica e intertestuale61.
Dante però come teologo si orienta in una miracolosa maniera fra investigatio e contemplatio, per cui la cristologia e la mariologia si accompagnano all’escatologia e alla soteriologia. Mi pare che l’assunzione dell’elemento escatologico non si risolva tout-court nei termini del messianismo in quanto aspettativa della lontana parusia, intesa come ritorno dello stesso Cristo quale restauratore di un regno messianico sulla terra; senza dimenticare l’ultimo Giudizio, Dante sembra trasferire la certezza dell’azione redentrice dall’avvenire al presente, attraverso il crogiolo e l’incandescenza della quotidiana esistenza, per realizzarsi attraverso l’azione della grazia salvifica, che rende contemporanea e attuale in ciascuno la venuta di Cristo nel mondo, verificatosi nel passato. E terra e cielo danno vita a un poema sacro che ricerca e rappresenta la straordinaria bellezza poetica della suprema verità, attingibile da ciascuno. L’accidentato cammino dell’uomo-Dante come esemplare incarnato di una rinnovata e rinnovabile umanità coinvolge tutto il poeta, nelle relazioni con gli amici (pure con il ‘primo’ antico amico Guido, come diceva Marti) e anche con gli antagonisti, con le donne, con la fede e con la storia, a patto di relazionarsi con la Donna unica e straordinaria, nello stare al mondo in vista di un orizzonte che non limita il destino terreno.
La trasparente elocuzione martiana restituisce la prospettiva dantesca, che di Cavalcanti esalta per via diretta e indiretta la segnalata altezza d’ingegno: il secondo Guido è un poeta che è stato primo dei condiscepoli per i nuovi poeti fiorentini e fra l’altro da Gianni Alfani è indicato come «colui che vede Amore»62; ancora, a volerlo intendere in senso estensivo, come filosofo-poeta è riconosciuto sino al Cinquecento inoltrato. Pur tra molteplici nervature e ricchezza di ipotesi e compresenze, sembra trovare ulteriore nutrimento e conferma la soluzione da Marti prospettata con lucidità e chiarezza: Guido Guinizelli cede il primato a Guido Cavalcanti nella gloria della lingua; e a concludere la circostanziata cogitazione filologica che dall’incipit accompagna il decumanus maximus del fondamentale saggio martiano Sui due Guidi, l’allora decano degli italianisti allegava le testimonianze del Comentum di Pietro Alighieri, figlio di Dante, e poi il riferimento dei Trionfi (I, IV, 32-36) del Petrarca, e insieme ricordava Bernardino Daniello con la sua Esposizione, accanto a Lorenzo il Magnifico, con il Comento e la lettera prefatoria alla Raccolta Aragonese63. L’alternativa proposta da altri, come a sbalzo «di febbrile revisionismo»64, per sostituire il bolognese Guinizelli con il fiorentino Cavalcanti, e il poeta bolognese con il Guittone ruvido e severo, è puntigliosamente smentita; i due Guidi non possono essere Guittone e Guido Guinizelli, meno che mai per la ricordata «presunta identità onomastica Guittone-Guido(ne)»65. Fra l’altro, nella sostanza delle altre motivazioni ivi indicate, ma sempre in netta contrarietà rispetto alle proposte revisioniste, il Guittone municipalista, rigido e angusto nella visione dello strumento del volgare e poco selettivo nel lessico, non compare mai per il primato, che è conteso invece dai due Guidi, e sempre da loro: Guinizelli e Cavalcanti si correlano in un binomio che non appare frutto di vox populi ma che si rivela radicato e decisivo, capace di offrire una tenuta critica in grado di attraversare i secoli, sino a Foscolo66 e a Francesco De Sanctis67. In tal senso il denso saggio martiano Sui due Guidi offre la possibilità di pagine ulteriori, come a chiosare il trasparente intervento dell’italianista decano, che pure si alimenta di una perspicua prospettiva di lungo percorso, nello scandaglio risalente alla sua nitida voce per l’Enciclopedia dantesca.
Nella sequenza Guinizelli-Cavalcanti-Alighieri emerge
l’impressione che il distacco di Guido Cavalcanti da Dante non sia dovuto
esclusivamente al senso da attribuire all’idea e alla realtà dell’amore68.
Su altri versanti il percorso personale e civile dell’antico amico procedeva in
direzione assai differente e forse un intreccio
di scelte esistenziali discordanti può aver contribuito alle loro divergenze,
insanabili sino alla rottura, anche perché il più giovane Dante69 si
avviava nell’arengo politico su opzioni peculiari rispetto alle quali il
magnate Guido si mostrava del tutto indisponibile70.
In tal senso l’ideologia amorosa di Cavalcanti si incrocia con motivazioni interiori e relazionali del suo mondo, aristocratico, elitario, anche divisivo in ambito politico, mentre Dante con le prove vissute e lo stile nuovo d’amore apriva un passaggio al superamento del mondo cortese per trasformare la nobiltà di sangue in nobiltà d’animo e per definire il profilo veramente nuovo di una consapevole aristocrazia borghese, alla quale sembra garantire uno statuto culturale ben saldo, non immemore di Guinizelli, ma rielaborato in proprio.
Cavalcanti non sembra prestarsi a tale operazione, per la sua ideologia amorosa che non intende accollarsi responsabilità etico-civili e politiche: l’integralismo della sua concezione non appare disponibile a formulare comportamenti e scenari di nuovo orizzonte in ricomposizione civile. Probabilmente non è da escludere che Guido vivesse anche il profondo disagio correlato ai drammi della sua classe sociale, il ceto magnatizio in crisi, ridimensionato nei privilegi e arroccato sulla difensiva, con la sensazione di essere accerchiato dai rampanti componenti della borghesia mercantile e finanziaria, fra Corporazioni delle Arti, Ordinamenti di Giustizia e spinte innovative anche nell’esercizio forense e nelle attività giuridiche. Come ampiamente già rilevato, Cavalcanti non apprezzò la dedica dantesca della Vita nova e si impegnò in una articolata contestazione del sistema ideologico vitanovista71, anche con il parodico sonetto Pegli occhi fere,72 e con l’altro celebre componimento scritto in persona dell’Amore-passione, I’ vegno ’l giorno a te, diretto all’autore della Vita nova che è convocato per la viltà e lo svilimento della sua poesia, ormai ridotta e confusa fra «l’annoiosa gente»73; ma spetta alla più volte citata Donna me prega la serrata contestazione di grande impegno teoretico inferta alla poesia di un Dante irriconoscibile agli occhi del Cavalcanti. Come è ben noto, il dissenso espresso da Guido non rimase però senza replica: Dante affidò a passaggi interni alla Commedia la propria risposta, dapprima con il Canto V dell’Inferno, in cui è tutta cavalcantiana74 l’ideologia amorosa della narrazione di Francesca; e poi attraverso le due esplicite citazioni riferite a Cavalcanti in Inf. X e in Pg. XI, che riconoscono sì il valore dell’antico amico, ma ne sottolineano il confronto limitativo con il sé dantesco.
E non basta: il poeta-pellegrino soprattutto attraverso l’attenta e complessa opera di correzione degli errori concettuali presenti in Donna me prega, anche con allusioni e richiami, affida ai canti centrali del Purgatorio (XVII e XVIII) una nuova dottrina dell’amore ispirata ai principi cristiani. Dinanzi alla possibilità del rifiuto in blocco di tutta la poesia dello Stilnovo, Dante opta per una profonda revisione critica, capace di contestare i principi affermati dai cattivi maestri (Pg. XVIII vv. 16-18: «Drizza», disse, «ver’ me l’agute luci / de lo ’ntelletto, e fieti manifesto / l’error de’ ciechi che si fanno duci//): sono quei ciechi che si fanno duci, secondo le parole di Virgilio, intesi come gli autori75 suggestionati da quella trattatistica amorosa che spinge a tralignare, provocando danni irreversibili e guasti profondi nei suoi seguaci, come appunto avviene per i protagonisti del citato V dell’Inferno76.
Appare evidente che la frattura tra Dante e Guido sia legata anche al tema del rapporto uomo-donna dinanzi al sacro77, fra la componente personalistica e l’importanza dei testi biblici, da Dante rivissuti ben oltre l’autorità formale della Chiesa temporale. La vera novità sembra consistere nel passaggio dal piano retorico a quello metafisico, e la svolta non poteva avvenire con Cavalcanti, per il quale, come nei trovatori, la donna non si identifica con un angelo, ma somiglia a un angelo; la svolta poteva avvenire solo con Dante, perché presuppone un’apertura all’essenza del cristianesimo, alla donna-miracolo che rivela la sua verità ontologica in quanto è Beatrice, vera incarnazione dell’amore di Dio, figura della grazia rivelata78.
Per altri versi, lo ricordava Carlachiara Perrone79: Marti «sostiene categoricamente l’attribuzione a Beatrice del disdegno di Guido Cavalcanti nei celebri vv. 62-63», e lo sostiene proprio «sulla base di una puntuale ricerca di sintassi antica e di un’attenta ricostruzione della controversa amicizia fra Dante e Guido», con l’acuto intervento martiano di Una mantissa ermeneutica per il X dell’«Inferno» (e per i vv. 62-63), nel volume già ricordato, insieme con altri80. E di Emilio Pasquini81 «al Maestro [Marti] felicemente approdato al traguardo dei cento anni» non sorprende l’omaggio del 2014, offerto con un saggio sulla fabbrica della «Commedia», per l’idea di una graduale conquista della verità e di un testo definitivo come il sacrato poema conseguito attraverso una serie di traguardi intermedi, come le “figure” o gli umbriferi prefazi del vero (per dirla con Par. XXX 78). All’illustre dantista dell’Alma mater, per i suoi settant’anni, è dedicato il saggio di Marti Sui due Guidi 82; e proprio Emilio Pasquini dialoga sull’amicizia Dante-Cino83 e poi dialetticamente rinvia a Marti84, nello specifico riguardo al nucleo ermeneutico della proposta dantesca85, consistente nel netto rifiuto dell’esperienza di “scuola” dei poeti toscani, che ponevano al centro il loro leader indiscusso Guittone d’Arezzo, e nella ricordata e decisa presa di distanza dal poeta aretino; e ciò senza mai dimenticare la cavalcantiana Donna me prega86, centrale grumo filosofico-poetico, nel senso che «il superamento della poesia di Guido non è dissimulato, ma altrettanto esibito, o perlomeno dotato di pari forza d’evidenza, della celebrazione del loro sodalizio»87.
Di là da parziali rivendicazioni, in sobrietà di considerazione esegetica88 si nota agevolmente che Mario Marti si presenta anche nella critica dantesca più recente come riferimento89 significativo e vitale, di respiro sovranazionale90: è un riconosciuto magistero dai modi affabili, vissuto in nome del certo per risalire al vero91, ma esercitato sino alla soglia centenaria come etica del lavoro sostenuta da un incoercibile spirito di libertà. Pure negli ultimi tempi di uno sguardo vivido coronato dalla canizie Marti consegnava il testimone ermeneutico di una necessaria investigazione per conoscere le convinzioni ideologiche, gli stati d’animo, i problemi vivi del poeta (e di un poeta come Dante)92. È il metodo della visione integrale, come da lui suggerito a far data dal 194993 nel fondamentale saggio Critica letteraria come filologia integrale, che rifluisce nell’aureo volumetto Il mestiere del critico94, tesaurizzato da allievi, colleghi, amici95.
È il recupero della storia al servizio dell’uomo, per il rilancio dell’interpretazione della parola viva96 nello stare al mondo; è l’ineludibile «robusta spina dorsale della storia»97, per cui l’insegna di tale «amore della verità storica» è correlata alla sensibilità esegetica, per diradare le ombre e illuminare gli angoli bui di esemplari e memorabili percorsi. In tale direzione di Marti è possibile avvertire una certa affinità con l’immagine del «filologo sintetico» proposta da Auerbach98, cioè del filologo capace di semantizzare di senso storico un insieme complesso, partendo da punti interni al testo letterario, con l’italianista soletano in grado di attraversare uno snodo come Vico, pur con le dovute differenze rispetto alla «filologia sintetica»99. Ma non basta un metodo; il fatto è che Marti, anche quando recensisce studi altrui, partecipa, interviene sempre con massima competenza, rinnova le questioni, le discute fino in fondo, le correla in una salda tenuta e ne consegna una prospettiva di persuasiva conquista: così avviene per il caso esemplare di Dante fra i due Guidi, che pure parte da una sua antica intuizione.
Su tale versante, per il critico salentino Dante giunge alla Commedia non per via di un coagulo improvviso su sperimentazioni diverse e tutte contemporanee, ma per prove e tensioni e approdi, a partire dalla tenzone con Forese: per tentativi successivi matura la conquista degli esiti di trasfigurazione e di realizzazione formale di fronte all’urgenza e alle domande del reale, in una visione del mondo che non può prescindere dalla polis e dalla sua dinamica. La malfatata donna Nella100 di Forese e la feroce donna Petra101 prima della Donna-Verità rivelata nell’ascesa per i nove Cieli, nascono dalle scaturigini di un pensiero che si forgia negli interventi della vita, fra i consimili e in tutti i giorni, nella res publica, nell’asprezza degli scontri o nella conciliazione e nel piacere degli incontri. Nello squadernarsi102 dei frammenti dispersi che appaiono alla ricerca del loro vincolo unitario, l’itinerario dantesco è paradigma dell’umanità in cammino, per cui a Marti il volume dantesco appare veramente una Commedia poetico-esistenziale, di un poeta per una vita. E vibra l’animo di uno dei massimi ingegni dell’umanità, pervaso da dubbi tormentosi e tutti terreni, poi finalmente avviato verso il definitivo riscatto e la palingenesi103.
Dinanzi al caos evenemenziale il critico avverte nel pellegrino fiorentino la necessità di porre un argine etico alle lacerazioni cruente e agli odi inestinguibili, per cui il poeta viator non teme il confronto con le diverse ‘morali’, nella ricerca del bene che è una questione di verità, per sconfiggere le frontiere di mondi incomunicabili e le chiusure di uomini e donne persi nel degrado, o per cogliere sospiri e sguardi appena vibranti di una luce di speranza. È l’immagine potente che dal suo osservatorio Marti sembra privilegiare: Dante risalta come interprete di una configurazione morale capace di scoperchiare un intero mondo, carico di insidie e pericoli, ma aperto alle possibili soluzioni. Per Marti, vi è minore distanza di disposizione di Dante dalle petrose e dall’ascesa politica, fino al priorato e alle canzoni morali, rispetto alla sua esperienza stilnovistica, che è cristallizzata a un momento; ma quella dello Stilnovo è l’esperienza che poi fermenta e rimonta, condensata e distillata nel Dante maturo. Così torna la figura di Beatrice, veramente inverata a un’altezza superiore, rielaborata e intimamente risorta attraverso il confronto con una vita più densa e vasta: l’ipostasi di Beatrice per Dante e dentro Dante si realizza finalmente, e in fine illumina e trasumana, sussunta da lievito a suprema sintesi.
Ciò non significa che l’ultima parola sia stata detta; la straordinaria ricchezza e problematicità della poesia dantesca, anche in rapporto alla cavalcantiana, è un agone in cui la sfida dell’interpretazione continua nell’appello all’acume esegetico e alla perspicacia ermeneutica. Anche la poesia del primo Guido, maestro bolognese, resta ricca di elementi da scandagliare e svelare, soprattutto in relazione al suo retroterra culturale, scientifico e filosofico. Per tali percorsi, con Dante, fra l’uno e l’altro Guido, Marti resta imprescindibile guida, e duca e maestro, che richiede ulteriori passi e nuovi atti verso l’erta.
[Idomeneo (2021), n. 31, 171-192]
NOTE
1 L. SCORRANO, Dantisti salentini, in «iuncturae.eu», pubblicato il 25giugno 2017, a. I, tratto dalla Lezione tenuta presso l’Università Popolare “Aldo Vallone” di Galatina, lunedì 14 dicembre 2009 (consultato il 30/12/2020).
2 M. MARTI, Aspetti stilistici di Dante traduttore, in «L’Albero», IV, 1952, 13-16, pp. 56-71.
3 ID., Il canto XV del Purgatorio, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXXXIII, 1956, pp. 329- 348.
4 Per chi scrive il primo incontro critico con Tateo dantista fu la voce Durante, in Enciclopedia Dantesca (1970); e a seguire F. TATEO, Un sillogismo dantesco, in «Filologia romanza», vol. VI, 1958, pp. 434-437.
5 Si veda C. SALINARI-C. RICCI, Storia della letteratura italiana. Con antologia degli scrittori e dei critici, vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1969-1970, pp. 329-334. Nel triennio di quel Liceo Palmieri a Lecce, durante le lezioni di Letteratura italiana Nicola Carducci, docente e critico militante di allotria formazione rispetto a Marti, segnalava brani e interventi dell’illustre dantista operoso nella vicina sede dell’Ateneo lupiense.
6 V.L. PUCCETTI, Il Dante di Mario Marti, in «L’Idomeneo» Rivista della Deputazione leccese di Storia Patria (Università del Salento), n. 27, 2019, pp. 47-52.
7 Pare opportuno però ricordare anche l’intima rispondenza con l’Ariosto; Marti ammira l’autore del poema, ma l’umore consentaneo è con il poeta delle Satire, delle quali esalta la quotidiana umanità di cui sono connaturate: si veda F. D’ASTORE, Mario Marti e gli studi su Ludovico Ariosto, in «L’Idomeneo», n. 27, cit., p. 55.
8 Poi nel volume M. MARTI, Realismo dantesco e altri studi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1961, pp. 31-62.
9 Raccolto poi in ID., Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce, Milella, 1971, pp. 69-122.
10 È una significativa sottolineatura: V.L. PUCCETTI, Il Dante di Mario Marti, in «L’Idomeneo», cit., p. 47.
11 Tra i primi lavori, si veda M. MARTI, Arte e poesia nelle rime di Guido Cavalcanti, in
«Convivium», XIX, 1949, pp. 178-195; l’anno successivo Marti tornò sullo stesso poeta: ID., Ancora su Guido Cavalcanti, in «L’Albero», nn. 5-8, 1950, pp. 100-104.
12 Si veda G. CAVALCANTI, Rime, a cura di Marcello Ciccuto, introduzione di Maria Corti, Milano, BUR Rizzoli, 1978, p. 32-33; la canzone è stata considerata «come il culmine dell’arte cavalcantiana», ed è un testo «che attinge alcuni dogmi dell’averroismo, cioè del pensiero filosofico dell’arabo Ibn Rushd (Averroè) che considera l’amore come passione dell’anima sensitiva, capace di oscurare la ragione umana con il turbine dei sensi, conducendo a morte chi ne è prigioniero»: ivi, p. 32. Sulla “pastorella” di Guido Cavalcanti cfr. anche G. FAVATI (a cura di), Cavalcanti. Rime, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957, p. 309.
13 M. MARTI, Cavalcanti, Guido, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970, I, pp. 891-892.
14 Ibidem.
15 Ibidem.
16 G. CAVALCANTI, Rime, a cura di Ciccuto, cit., pp. 73-74.
17 Per esempio, gli «adorni legni ‘n mar forte correnti» del v. 4 (e Dante: un vasel ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio», vv. 4-5), o il «ragionar d’amore» del v. 3 (e Dante: «e quivi ragionar sempre d’amore», v. 12); cfr. G. FAVATI, Cavalcanti. Rime, cit., pp. 241-243.
18 G. CAVALCANTi, Rime, (Ciccuto), cit., pp. 142-143.
19 Ivi, p. 144.
20 Ivi, p. 145.
21 M. MARTI, Cavalcanti, Guido, in Enciclopedia dantesca, cit., pp. 893-894.
22 I. BALDELLI, Lingua e stile delle opere in volgare di Dante, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol.
VI, Appendice (1978), pp. 57-112, in particolare pp. 82-83.
23 Ricorre in M. MARTI, Cavalcanti, Guido, in Enciclopedia dantesca, cit., pp. 893-895.
24 ID., Guido Cavalcanti, in Dizionario biografico degli italiani (DBI), Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1979, vol. 22, pp. 628-636. Si veda B. NARDI, Donna me prega: L’averroismo del ‘primo amico’ di Dante (1940), ripubblicato in Dante e la cultura medievale, Roma-Bari, Laterza, 1983, 81-107; sulla ricostruzione del Nardi a proposito dell’evoluzione intellettuale del sommo poeta di recente alcuni studiosi si chiedono in che misura Dante abbia risentito dell’insegnamento di quei maestri delle Arti, parigini e italiani, che Pierre Mandonnet indicava come averroisti latini e che Fernand Van Steenberghen ribattezzò «aristotelici radicali» o «eterodossi»: si veda infra, al paragrafo 3. Filologia e critica fra Comedìa, scelte esistenziali e arengo politico. Cfr. pure M. CORTI, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, 1983; e A. GAGLIARDI, Species intelligibilis, in R. ARQUÉS (a cura di), Guido Cavalcanti laico e le origini della poesia europea nel VII centenario della morte. Atti del Convegno internazionale (Barcellona, 16-20 ottobre 2001), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003, pp. 147-161; e Z.G. BARAŃSKI, Guido Cavalcanti auctoritas, in R. ARQUÉS (a cura di), Guido Cavalcanti laico, cit., pp. 163-180.
25 Lo sottolinea V.L. PUCCETTI, Il Dante di Mario Marti, cit., pp. 50-52.
26 Si veda M. GRAGNOLATI, Trasformazioni e assenze: la performance della Vita nova e le figure di Dante e Cavalcanti, in «L’Alighieri», 35 (2010), pp. 5-23,11-12.
27 M. MARTI, Sui due Guidi di Pg. XI, 97-98, in Da Dante a Croce. Proposte consensi dissensi, Galatina, Congedo, 2005, pp. 43-54.
28 Confluiti rispettivamente in ID., Da Dante a Croce. Proposte consensi dissensi, cit., pp. 7-15 e 43-54, e in Su Dante e il suo tempo con altri scritti di italianistica, Galatina, Congedo, 2009, pp. 39- 54.
29 ID., Sui due Guidi di Pg. XI, 97-98, in Da Dante a Croce. Proposte consensi dissensi, cit., p. 43.
30 Ivi, p. 46.
31 Su Guittone cfr. M. MARTI, Guittone d’Arezzo, in Dizionario Critico della Letteratura Italiana, diretto da Vittore Branca, Torino, UTET, 19862, pp. 473-477.
32 P.V. MENGALDO, a cura di, De vulgari eloquentia, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano- Napoli, Ricciardi, 1979, p. 125.
33 M. MARTI, Sui due Guidi di Pg. XI, 97-98, in Da Dante a Croce. Proposte consensi dissensi, cit., 47.
34 E non pare qui necessario rilanciare senso e significati di «padre meo», rivolto dal Guinizelli a Guittone, spiegabile sia con lo stato del destinatario, dal 1265 circa membro dell’ordine dei frati gaudenti, sia con la sua autorevolezza di maestro. Segnala però Giorgio Inglese che «l’appartenenza alla nobiltà potrebbe suggerire ̶ in tempi di legislazione antimagnatizia (dal 1248) ̶ una lettura più sottile dei famosi versi «Dis’ omo alter: / Gentil per sclatta torno…» (Al cor gentil, vv. 33-34), ossia una rivendicazione della gentilezza individuale contro i vincoli di schiatta, intesi in buona come in cattiva parte. Ma il dato più importante è senza dubbio l’appartenenza di Guinizelli al mondo degli uomini di legge, che vuol dire continuità di ordine sociologico, quindi culturale, fra Guinizelli e gli antecessori “siciliani”»: si veda G. INGLESE, Guido, Guinizzelli, in DBI, cit., vol. 61 (2004); al riguardo imprescindibile appare M. MARTI, (a cura di), Poeti del Dolce stil nuovo, Firenze, Le Monnier, 1969, pp. 33-114, con il successivo ID, Storia dello stil nuovo, Lecce, Milella, 1973, pp. 349-376.
35 G. VILLANI, Nuova Cronica, a cura di Giuseppe Porta, 3 voll., Parma, Fondazione Pietro Bembo-Ugo Guanda, 1990-1991, II, p. 7 0 ; mio il corsivo.
36 Si veda M. MARTI, Cavalcanti, Guido, in DBI, cit., pp. 628-636; con la ricca bibliografia e con le osservazioni sul personaggio entrato nella leggenda (Decameron, VI 9), ivi, p. 633.
37 Cfr. S. DIACCIATI, Guido e i Cavalcanti : un poeta cavaliere e il suo contesto, in Les Deux Guidi Guinizzelli et Cavalcanti. Mourir d’aimer et autres ruptures, Marina Gagliano, Philippe Guérin e Raffaella Zanni (dir.), Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, 2016, pp. 37-51, in particolare 48-50. Silvia Diacciati ricorda l’usanza dei gentiluomini delle contrade che si radunavano in diversi luoghi di Firenze, formando brigate di un certo numero in cui ciascuno a turno potesse offrire un banchetto in un giorno stabilito; tali brigate imbandivano tavolate, cavalcavano per le vie della città e non di rado «armeggiavano».
38 A. ZORZI, La faida Cerchi-Donati, in ID., La trasformazione di un quadro politico. Ricerche su politica e giustizia a Firenze dal comune allo Stato territoriale, Firenze, FUP, 2008, pp. 95 sgg.
39 G. BOCCACCIO, Decameron, VI, 9: Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprapreso l’aveano, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 1992, pp. 753-758. Cfr. anche C. ZAMPESE, «Di palo in frasca». Per ‘Decameron’ VI 9, in Boccaccio: gli antichi e i moderni, a cura di Anna Maria Cabrini e Alfonso D’Agostino, Milano, Ledizioni, 2018, pp. 161-162.
40 M. MARTI, Cavalcanti, Guido, in DBI, cit., p. 633.
41 S. DIACCIATI, Guido e i Cavalcanti : un poeta cavaliere e il suo contesto, in Les Deux Guidi Guinizzelli et Cavalcanti, cit., in particolare p. 51 :«Nato in una famiglia tra le più ricche e potenti di Firenze, educato ai valori cavallereschi, abituato a combattere, a farsi giustizia, a distinguersi per modi e costumi, in breve a primeggiare, Guido Cavalcanti non poté sottrarsi dal partecipare alla lotta tra Bianchi e Neri che gettò Firenze nel caos tra la fine del Duecento e l’inizio del secolo successivo. Che fosse espressione di una tradizionale faida tra casate nemiche –quella dei Cerchi e quella dei Donati–, oppure di un’accentuata competizione economica tra famiglie a capo di società rivali, che si trattasse di un’opposizione politica tra due parti con atteggiamenti ben diversi nei confronti di papa Bonifacio VIII oppure nei riguardi del Popolo al governo, o di tutte queste cose insieme, Guido Cavalcanti prese parte al conflitto spinto dall’odio, quello coltivato negli anni contro il nemico di sempre, Corso Donati»; (consultato il 12 gennaio 2021). In pochi mesi Guido Cavalcanti passò dalla festa di Calendimaggio all’esilio e alla morte.
42 EAD., Popolani e magnati. Società e politica nella Firenze del Duecento, Spoleto, CISAM, 2011, pp. 291-297. Oltre a possedere un invidiabile patrimonio immobiliare, i Cavalcanti partecipavano anche a imprese mercantili.
43 Si veda D. COMPAGNI, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, a cura di Gino Luzzatto, Torino, Einaudi, 1978, pp. 48-49, proprio riguardo a Guido, che il cronista caratterizza come un uomo «cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio» (1, XX, 58); cfr. pure G. ARNALDI, Compagni, Dino, in DBI, cit., vol. 27, 1982, pp. 629-647, e A. VALLONE, Dino Compagni, in Enciclopedia dantesca, II, 1970, pp. 120 sgg.
44 Si veda anche G. GORNI, Guido Cavalcanti nella novella del Boccaccio («Decameron», VI, 9) e in un sonetto di Dino Compagni, in «Cuadernos de Filologìa Italiana», n. extraordinario, Madrid, Universidad Complutense, 2001, pp. 39-45. Il rinvio è proprio a D. COMPAGNI, Rime, II.4, v. 4-10; si riconosce al Cavalcanti sia l’eccellenza intellettuale e morale sia quella fisica e militare: Guido è tanto avveduto («visto») e saggio quanto prode e valoroso (vv. 4-5) e si distingue da un lato per la profonda cultura e dall’altro per la perizia nell’arte della guerra («varco» e «schermaglie», v. 6).
45 Vale a dire: è in grado di discettarne in modo sottile e raffinato; si veda P. BORSA, Identità sociale e generi letterari. Nascita e morte del sodalizio stilnovista, in «Reti Medievali Rivista», 18, 1, 2017 (Firenze University Press), p. 12: «l’esperienza cavalcantiana è sotto ogni aspetto aristocratica. Il poeta adotta l’opzione linguistico-tematica del ceto cortese e cavalleresco, già propria del mondo delle corti d’oltralpe: lirica d’amore in lingua volgare. […] si rivolge a un pubblico ancor più ristretto e selezionato, che non solo si riconosce nel paradigma culturale e sociale della fin’amor, ma possiede anche le conoscenze filosofiche e fisiologiche (le teorie pneumato-psicologiche di matrice aristotelica ed avicenniana) indispensabili per accedere al significato intimo dei suoi testi».
46 Lo ricorda M. MARTI, Cavalcanti, Guido, in Enciclopedia dantesca, cit., pp. 891–892: l’assunzione di responsabilità spinse Dante a staccarsi da una letteratura raffinata e calligrafica, da una cultura elegante e aristocratica, ma avulsa dalla vita, e a «volgersi da una parte alla tastiera realistica (tenzone con Forese e in prospettiva rime ‛ petrose ‘) e dall’altra alla poesia dottrinale e allegorica, che è poesia d’impegno, si direbbe, soprattutto civile e morale, nonché letterario».
47 Ivi, pp. 891–893.
48 A tal riguardo «è una tradizione, di radice propriamente fiorentina, che ricorda Guido come autore di Donna me prega, perciò «filosofo» letto da «filosofi» (quali Magister Iacobus de Pistoriao Magister Dinus de Garbo)»: G. INGLESE, Per Guido «filosofo» («Decameròn» VI, 9), in «La Cultura», XXX, 1, 1992, p.88; cfr. anche F. BAUSI, Lettura di ‘Decameron’ VI 9. Ritratto del filosofo averroista, in «Per Leggere», V, 2005, pp. 13-14.
49 Cfr. G. MILANI, Le contexte de Guido Guinizzelli, in Les Deux Guidi Guinizzelli et Cavalcanti. Mourir d’aimer, cit., pp. 23-36; anche sulla frequentazione da parte del padre di Guido dell’ambiente “aristocratico” universitario di Bologna, si veda ivi, p. 29 (consultato il 12 gennaio 2021).
50 Veramente Cavalcanti, come ha osservato Contini, è l’assente più presente nella Commedia: si veda G. CONTINI, Cavalcanti in Dante, in Varianti e altra linguistica, Una raccolta di saggi (1938- 1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 433-445. Va detto che è ancora Contini a rilevare che il primo e l’ultimo peccatore incontrati da Dante (Francesca e Guinizelli) sono iscritti sotto la stessa epigrafe in cui Dante stesso si riconosce, come a costituire un’unica cornice in cui la pena, i peccatori e lo stesso dialogo con loro si legano in un solo discorso in cui Dante è coinvolto in prima persona: ID., Dante come personaggio-poeta della Commedia, in Varianti e altra linguistica, cit., p. 360. Appare significativo che i due peccati avvertiti da Dante come propriamente suoi, la lussuria e la superbia, simboleggiati nel primo canto dell’Inferno rispettivamente dalla lonza (Inf. I, v. 32) e dal leone (Inf. I, v. 45), siano correlati ambedue alla specifica attività di poeta e che Guido Guinizelli (ma in filigrana anche l’altro Guido, Cavalcanti) sia citato tanto nei due canti in cui si espia il peccato di lussuria (in Inf. V indirettamente attraverso le parole di Francesca, e in Purg. XXVI nel dialogo con il pellegrino), quanto nel canto in cui si rappresenta la pena dei superbi, in cui è esplicitamente citato insieme con Cavalcanti (Purg. XI, v. 97), al centro di questo saggio.
51 Di notevole interesse R. REA, Cavalcanti e l’invenzione del lettore, in Les Deux Guidi Guinizzelli et Cavalcanti, cit., pp. 157-168; in particolare p. 167: «La poesia cavalcantiana rigenera […] le categorie dell’Io e del Tu che sono alla base del genere lirico. Nel reciproco riconoscimento fra Io e pubblico, fra autore e lettore, costantemente ricercato da Guido, risiede, in ultima istanza, la legittimazione della sua parola lirica, che, svincolandosi dalla circolarità cortese della richiesta/compimento/rifiuto, conquista, in anticipo dunque sull’operazione dantesca, e per una via tutta terrena, una nuova dimensione».
52 B. NARDI, “Donna me prega: L’averroismo del ‘primo amico’ di Dante” (1940), poi in Dante e la cultura medievale, cit., 81-107; ma cfr. P. FALZONE, Sentimento d’angoscia e studio delle passioni in Cavalcanti, in Les Deux Guidi Guinizzelli et Cavalcanti, cit., pp. 181-197: sempre per Paolo Falzone, Guido si muove nell’àmbito della scientia della vita animale, non della scientia de anima come Averroè.
53 In Arnaldo Daniello lo sperimentatore Dante trova un poeta che lungo i suoi versi rivela un esplicito legame tra eros e prassi, tra eros e conoscenza: si veda T. BAROLINI, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 97-98.
54 Cfr. N. TONELLI, Fisiologia della passione. Poesia d’amore e medicina da Cavalcanti a Boccaccio, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2015, e ivi in particolare i primi due saggi Lirica d’amore e scienza. “De Guidone de Cavalcantibus physico, e Dante e la fisiologia dell’amore doloroso, rispettivamente pp. 3-70, e 71-124. Nella direzione per cui lo stato di amore va a coincidere per Guido con l’attuarsi di una disposizione irosa, contratta per influsso celeste, si veda E. SAVONA, Per un commento a «Donna me prega» di Guido Cavalcanti, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1989, p. 23-33.
55 Si veda pure D. DE ROBERTIS, Commento alla Vita Nuova, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980, p. 128.
56 R. ANTONELLI, Cavalcanti o dell’interiorità, in Alle origini dell’Io lirico. Cavalcanti o dell’interiorità, numero speciale della rivista «Critica del testo», IV/1, 2001, Roma, Viella, p. 17-18.
57 Notevole per le referenze incrociate fra Cavalcanti e la Vita Nova, M. CICCUTO, Lo sdegno di Guido e l’umiltà di Dante. Percorsi dell’interpretazione, in Guido Cavalcanti laico e le origini della poesia europea nel VII centenario della morte. Poesia, filosofia, scienza e ricezione. Atti del Convegno internazionale, Barcellona, cit., pp. 255-271, in particolare 256-258.
58 II 7 marzo 1277 dal vescovo di Parigi Stefano Tempier furono condannate 219 proposizioni. L’atto ebbe lunga eco negli anni e sembra porsi a conclusione di un lungo dramma emerso con il laborioso avvio della speculazione aristotelica nel mondo cristiano occidentale, che coinvolgeva dottrine di Aristotele, Avicenna, Averroè, direttamente o indirettamente, tramite Boezio di Dacia, Sigieri di Brabante e altri: cfr. P. MANDONNET, Siger de Brabant, Lovanio, Institut Supérieur de Philosophie de l’Université, vol. I, 1911, e vol. II, 1908, in particolare pp. 175-191; ma di peculiare interesse si veda L. BIANCHI, Il vescovo e i filosofi. La condanna parigina del 1277 e l’evoluzione dell’aristotelismo scolastico, «Quodlibet», vol. 6, Bergame, Pierluigi Lubrina, 1990, pp- 105-153: secondo Bianchi l’intervento era rivolto ai maestri delle Arti e motivato da una preoccupazione essenzialmente pastorale per frenare l’emancipazione della filosofia e delle scienze dalla teologia.
59 Cfr. F. VAN STEENBERGHEN, La philosophie au XIIIe siècle, Louvain-Paris, Béatrice Nauwelaerts, 1966, (trad. it., La filosofia nel XIII secolo, Milano, Vita e Pensiero, 1972, pp. 57-89 e 456), ma in particolare ID., Introduction à l’étude de la philosophie médiévale, Louvain-Paris, Béatrice Nauwelaerts, 1972, pp. 577-579: secondo Fernand van Steenberghen negli ultimi decenni del XIII sec. a Parigi insorge un periodo di aspri conflitti fra scuole di pensiero per contendersi il controllo dell’ortodossia, con le dispute tra personalità come Tommaso d’Aquino da un lato, e dall’altro Sigieri di Brabante, rappresentante di un aristotelismo radicale, di ascendenza averroistica.
60 Veramente illuminante risulta l’intervento chiarificatore di Luca Bianchi, con la storicizzazione della categoria “averroismo” (creata a far data dal 1852): si veda L. BIANCHI, L’averroismo di Dante: qualche osservazione critica, in «Le Tre Corone. Rivista internazionale di studi su Dante, Petrarca, Boccaccio», vol. 2, 2015, pp. 71-109, in particolare 71-77. Fra l’altro nella Commedia Tommaso e Sigieri danzano insieme in Paradiso, nel cielo del Sole (Paradiso X, 133-138), in quella luce dantesca in cui ogni contrasto è risolto in una superiore verità. Dinanzi ai due lavori di B. NARDI, Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma, Edizioni italiane, 1945, pp. 11-38, e ID., Donna me prega: L’averroismo del ‘primo amico’ di Dante, in Dante e la cultura medievale (poi 1983), cit., 81- 107, occorre anche vedere L. BIANCHI, «Ultima perfezione» e «ultima felicitade». Ancora su Dante e l’averroismo, in Edizioni, traduzioni e tradizioni filosofiche (secoli XII–XVI). Studi per Pietro B. Rossi, a cura di Luca Bianchi, Onorato Grassi, Cecilia Panti, Ariccia-Roma, Aracne, 2018, pp. 315–328, in particolare 316-320. In tale prospettiva C. VASOLI, Bruno Nardi e il ‘restauro’ della filosofia di Dante, in Letteratura e filologia fra Svizzera e Italia. Studi in onore di Guglielmo Gorni, a cura di Maria Antonietta Terzoli, Alberto Asor Rosa e Giorgio Inglese, I, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. 57-73. Nel crocevia di civiltà letteraria e cultura filosofica cfr. G. STABILE, L’autunno del Medioevo, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da Enrico Malato, Milano, Il Sole 24 Ore (già Salerno editrice), 2005, pp. 746-747: appunto alla scuola di pensiero di Tommaso, corifeo degli spiriti sapienti, in modo non dogmatico guarda Dante, mai immemore della propria coerenza e onestà intellettuale, anche nei confronti dell’agostinismo francescano. E si veda E. MALATO, Dante e Guido Cavalcanti. Il dissidio per la «Vita nuova» e il «Disdegno» di Guido, Roma, Salerno editrice, 2004, pp. 94-95: «il riconoscimento di un’aporia di fondo nel dibattito sulla natura d’amore, le sue origini, la sua potenza, i suoi effetti, ecc., che, scoperti da Guido nella canzone dottrinale, colloca fatalmente il “primo amico” di Dante in posizione eterodossa rispetto alla Chiesa e ai principî da questa affermati».
61 Cfr. Z.G. BARANSKI, (UN)orthodox Dante, in C.E. HONESS, M. TREHERNE (a cura di), Reviewing Dante’s Theology, Oxford–Bern, P. Lang, 2013, vol. 2°, pp. 253-330, e in particolare 312, n. 114; di rilievo risultano i lavori seminariali di Claire E. Honess e Matthew Treherne presso l’Università di Leeds, con lo specifico interesse per la ricerca sulla teologia di Dante. E sull’incipit del Convivio (1, 1, 1), di notevole riguardo appare A. GAGLIARDI, La tragedia intellettuale di Dante. Il Convivio, Catanzaro, Pullano, 1994, pp. 41-85, in particolare per la segnalazione di alcuni dei passi nei quali Averroè discute dell’ultima perfectio dell’uomo, secondo formule che erano largamente usate e pure esplicitamente ricollegate ad Averroè da altri maestri del periodo.
62 M. MARTI, Sui due Guidi di Pg. XI, 97-98, in Da Dante a Croce. Proposte consensi dissensi, cit., p. 52.
63 Ivi, pp. 52-53.
64 Ivi, p. 43
65 Ibidem.
66 Ivi, p. 54.
67 Ibidem.
68 Mediaticamente felice risulta l’immagine di Guido e Dante «nemici per amore» (A. GIULIANI, Dante e Cavalcanti nemici per amore, in «la Repubblica», 19 agosto 1997), anche se per molti aspetti può apparire una semplificazione fuorviante.
69 Cfr anche G. PETROCCHI, Biografia, in Enciclopedia Dantesca, Appendice, 1978, pp. 1-53; e E. MALATO, Dante e Guido Cavalcanti, in Storia della Letteratura Italiana, cit., pp. 847-855.
70 E. FENZI, Guido Cavalcanti, o della perdita, in Les Deux Guidi Guinizzelli et Cavalcanti, cit., 2016, pp. 237-250, in particolare pp. 241-242 e 249-250 (consultato il 12 gennaio 2021).
71 Cfr. E. MALATO, Dante e Guido Cavalcanti. Il dissidio, cit., 2004, pp. 75-109; e G. CONTINI, Cavalcanti in Dante, in ID., Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1976, p. 157.
72 Si veda G. FAVATI, (a cura di), Cavalcanti. Rime, cit., pp. 241-243.
73 G. CAVALCANTI, Rime, (Ciccuto), cit., pp. 146-147.
74 Va registrato ancora un contributo in relazione alla filosofia razionalistica di ascendenza araba, fra anima emozionale e anima razionale: cfr. B. GREGORY STONE, Guido Cavalcanti. Poet of the Rational Animal, New York, Routlege-Taylor and Francis, 2020, pp. 130-134 e 165-167.
75 E si intravede Guido Cavalcanti, davvero obiettivo innominato della contestazione di Dante.
76 Non è un caso che tale digressione prepari l’incontro con Bonagiunta del Canto XXIV, in cui Dante esplicita il significato del Dolce Stil Novo, e quello con Guinizzelli del Canto XXVI (fra i lussuriosi del Purgatorio), pure ricordato e segnalato, a scontare la colpa di aver prodotto quella letteratura di cui Francesca era stata avida consumatrice.
77 A tal riguardo di specifico interesse appare D. PIROVANO, «Chi è questa che vèn?». Guinizzelli, Cavalcanti e la figura femminile, in Les Deux Guidi Guinizzelli et Cavalcanti, cit., pp. 95-106; Pirovano si sofferma soprattutto sulla donna-angelo, motivo poetico di ampia diffusione, con impieghi assai differenti fra diversi stilnovisti: ben presente in Dante e in Lapo, lo è scarsamente in Cino, mentre è molto raro in Cavalcanti, e assente in Gianni Alfani e Dino Frescobaldi.
78 Ivi, p. 106.
79 C. PERRONE, Mario Marti dantista, in Una vita per la letteratura. A Mario Marti. Colleghi e amici per i suoi cento anni, a cura di Mario Spedicato e Marco Leone, Lecce, Edizioni Grifo, 2014, p. 335. E le suggestioni offerte da Marti negli ultimi anni spinsero pure chi scrive a una breve riflessione su una figura femminile dantesca come Matelda, di peculiare fascino e di plurimi significati: cfr. E. FILIERI, Immagini femminili del Purgatorio dantesco. Matelda e l’ideologia dell’Eden, in Una vita per la letteratura. A Mario Marti. Colleghi ed amici per i suoi cento anni, cit., pp. 171-187.
80 Si veda M. MARTI, Su Dante e il suo tempo. Con altri scritti di italianistica, cit.; ecco di seguito alcuni titoli dei capitoli: Una mantissa ermeneutica per il X dell’«Inferno» (e per i vv. 62-63) (pp. 3- 12); Storia e ideologia nel San Francesco di Dante (pp. 13-26); Umberto Carpi e la nobiltà di Dante (pp. 27-32); Un libro di John A. Scott su Dante (pp. 33-38); Per una nuova «Vita di Dante» (con due affondi su Gemma e su Guido; e poi Anima e corpo in Dante e la coeva escatologia (pp. 51-54); e Un’idea di possibile lettura tridimensionale di episodi del poema dantesco (pp. 55-58).
81 E. PASQUINI, Variazioni sul testo della Commedia, in Una vita per la letteratura. A Mario Marti. Colleghi e amici per i suoi cento anni, cit., pp. 319-329, p. 319. Del compianto dantista dell’Ateneo bolognese, accanto ai molti titoli e alla collaborazione con l’Enciclopedia dantesca già dal 1970, si veda almeno E. PASQUINI, Il «Dolce stil novo», in Storia della letteratura italiana, diretta da Malato, I, Dalle origini a Dante, cit., pp. 649-721, in particolare 651-659; assai diffusa di Pasquini è la magistrale edizione commentata della Commedia (1982-1986) in collaborazione con Antonio Enzo Quaglio.
82 M. MARTI, Sui due Guidi di Pg. XI, 97-98, in Da Dante a Croce. Proposte consensi dissensi, cit., 43-54: con Pasquini in convergenza di vedute sui due Guidi, Marti lo annunciava a p. 171 di quello stesso libro di Congedo; si ritrova proprio quel saggio (Sui due Guidi di Purgatorio, XI, 97-98) nel bel volume Da Dante a Montale. Studi di filologia e critica letteraria in onore di Emilio Pasquini, a cura di Gian Mario Anselmi, Bruno Bentivogli, Alfredo Cottignoli, Fabio Marri, Vittorio Roda, Gino Ruozzi, Paola Vecchi Galli, Bologna, Gedit, 2005, pp. 65-75.
83 E. PASQUINI, Appunti sul carteggio Dante-Cino, in Le Rime di Dante, Gargnano del Garda (25- 27 settembre 2008) a cura di Claudia Berra e Paolo Borsa, Milano, Cisalpino-Istituto Editoriale Universitario, 2010, pp. 10-11 e 13; il frequente dialogo di Pasquini è con il Marti di Poeti del Dolce stil nuovo (1969), cit., talvolta anche in esplicito dissenso, come in particolare per le pp. 720-725 e 742.
84 Ivi, pp. 243 e passim; tale silloge considerata «esaustiva», come è noto, anche per i copiosi indici, il repertorio linguistico e il rimario.
85 Cfr. E. PASQUINI, «Il “dolce stil novo”», in Storia della letteratura italiana, cit., p. 660; e M. MARTI, (a cura di), Stil Nuovo, in Enciclopedia dantesca, V (1976), pp. 438-444.
86 E. PASQUINI, «Il “dolce stil novo”», in Storia della Letteratura Italiana, cit., p. 693.
87 R. REA, La Vita Nuova e le Rime. Unus Philosophus Alter Poeta. Un’ ipotesi per Cavalcanti e Dante fra il Settecentocinquantenario della nascita (2015) e il Settecentenario della morte (2021), Atti delle Celebrazioni in Senato, del Forum e del Convegno internazionale di Roma: maggio-ottobre 2015, a cura di Enrico Malato e Andrea Mazzucchi, t. II, Roma, Salerno editrice, 2016, p. 532.
88 Come è noto, il riconoscimento delle sue acquisite e preclare competenze di italianista di statura sovranazionale culminò nella nomina (1971) a condirettore del «Giornale Storico della Letteratura Italiana», rivista amata fino al momento in cui si è spento a Lecce il 4 febbraio 2015.
89 Cfr. R. REA, La Vita Nuova e le Rime. Unus Philosophus Alter Poeta. Un’ipotesi per Cavalcanti e Dante, in Dante fra il Settecentocinquantenario della nascita (2015) e il Settecentenario della morte (2021), cit., pp. 351 e 358. Si veda in particolare M. MARTI, «L’una appresso de l’altra meraviglia» (‘V.N.’, XXIV, 8): Stilnovo, Guido, Dante nell’ipostasi vitanovistica, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXVIII, 1991, n. 544, pp. 481-503, poi in ID., Ultimi contributi dal certo al vero, cit., 1995, pp. 37-54; e cfr. pure ID., Acque agitate per ‘Donna me prega’, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXVII, 2000, n. 578, pp. 161-167; e R. ANTONELLI, Cavalcanti e Dante: al di qua del paradiso, in Dante da Firenze all’al di là. Atti del Seminario di Firenze, 9-11 giugno 2000, a cura di Michelangelo Picone, Firenze, Cesati, 2001, pp. 289-302.
90 Si veda il numero 31, anno 2013, degli «Annali d’Italianistica», l’importante rivista di letteratura italiana pubblicata dall’Università del North Carolina, che reca la seguente epigrafe: «This 31st volume of Annali d’Italianistica is offered in Homage to Mario Marti, scholar and mentor, The Dean of all Italianists Worldwide». E sovviene la lucida e partecipata Recensione di Dino S. Cervigni al citato volume di Marti Da Dante a Croce. Proposte consensi dissensi, proprio negli «Annali d’Italianistica», Negoziazione delle identità italiane, n. 24, a. 2006, pp. 364-366, con il seguente passaggio a p. 365: «Come in tutti i suoi scritti, Marti presenta anche qui una solidissima conoscenza dei testi e della storia letteraria che l’ha caratterizzato attraverso tutta la sua carriera. […] rispetto dei testi in quanto documenti storici che non possono essere travisati da nessuno revisionismo di moda e affabilità dei modi e della scrittura».
91 Memorabile la massima da lui spesso utilizzata: Amicus Plato, sed magis amica veritas.
92 M. MARTI, Un’idea di possibile lettura tridimensionale di episodi del poema dantesco, in Su Dante e il suo tempo, cit., p. 56. Cfr. C. PERRONE, Mario Marti dantista, in Una vita per la letteratura, cit., pp. 335-336.
93 M. MARTI, Critica letteraria come filologia integrale, in «L’Albero», 1, 1949, pp. 30-36.
94 ID., Il mestiere del critico, Lecce, Milella, 1970.
95 M. CHIESA, Ricordo di Mario Marti, in «L’Idomeneo», 2019, cit., pp. 17-34, in particolare 20-21.
96 Pare opportuno richiamare M. MARTI, Decenni di vita con Raffaele Spongano, nel suo Il trilinguismo delle lettere “italiane” e altri studi d’italianistica, a cura di Marco Leone, Galatina, Congedo, 2012, pp. 125-133. Sulla dittologia “filologia e critica” cfr. anche G. TELLINI, Metodi e protagonisti della critica letteraria. Con antologia di testi e prove di lettura, Firenze, Le Monnier, 2010, pp. 221-252.
97 M. MARTI, Per la nuova, grande edizione dei “Poeti della scuola siciliana”, in Su Dante e il suo tempo, cit., p. 64; e ivi, anche Umberto Carpi e la nobiltà di Dante, pp. 27-32, in particolare 30.
98 Ne dava conto con peculiare sintesi M. LEONE, La filologia interpretativa di Mario Marti, in «L’Idomeneo», 2019, cit., pp. 37-39.
99 E. AUERBACH, Filologia della ‘Weltliteratur’, in San Francesco, Dante, Vico ed altri saggi di filologia romanza, Bari, De Donato, 1970, p. 170; cfr. anche ID., Dante, poeta del mondo terreno, in Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 52.
100 E. CHIARINI, Chi udisse tossir la malfatata, in Enciclopedia Dantesca, I, (1970), cit., pp. 979-980.
101 Si veda G. CAPOVILLA, Alcuni antefatti della «petrosità» dantesca, in Le Rime di Dante, a cura di Claudia Berra e Paolo Borsa, Milano, Cisalpino, 2010, pp. 177 sgg.
102 Cfr. E.R. CURTIUS, La Littérature européenne et le Moyen Age latin, (trad. française par M. Bréjoux), Paris, Presses Universitaires de France, 1956, pp. 399-408, in A. LANCI, squadernarsi, in Enciclopedia Dantesca , cit., (1970); e anche F. MAZZONI, Saggio di un nuovo commento, Firenze, Sansoni, 1967, p. 177.
103 M. MARTI, Anima e corpo in Dante, in Su Dante e il suo tempo con altri scritti di italianistica, cit., pp. 52-53.