In una delle prime pagine de L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafòn, in quel luogo straordinario che è il Cimitero dei libri Dimenticati, in quella biblioteca gigantesca dall’impossibile geometria, un padre dice al figlio: ogni libro che vedi possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e quella di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie ad esso.
L’anima di un libro, dunque, è plurale. In ogni pagina, ogni riga, ogni parola, pulsano innumerevoli anime, che provengono da ogni tempo e da ogni luogo, che appartengono ad esistenze conosciute o sconosciute, vive o concluse, anonime o famigerate, viziose e virtuose, altere o meschine.
Forse un libro così si chiama classico. Forse il classico è un libro che mostra i suoi legami con la vita, le sue verità, i suoi intrecci con il viaggio. Il classico è un libro che resiste agli eterni roghi del tempo, all’usura delle tendenze, a innumerevoli passaggi di generazioni, a ideologie diverse e anche contrastanti. Il classico è un libro fatto di parole che sono stratificazioni di storie, piramidi di conoscenze, oceani di domande e di risposte, trame di esistenze. E’ un libro che dice delle stagioni che vengono e che vanno, delle occasioni che si perdono o si conquistano, delle emozioni che si vivono o che si ricordano, dell’amore e il disamore, dell’incanto e il disincanto, della guerra e della pace, della dolcezza e del rancore. E’ un libro che in parte rappresenta la visione che ciascuno ha del mondo, degli esseri e delle cose, della finitudine e dell’eterno, della vita e della morte. E’ un libro in cui inaspettatamente si incontra se stessi, come si è, come si è stati, anche come si sarà, in cui si incontrano gli altri.
C’è un articolo straordinario di Cesare Pavese che parla di uomini e di libri. Dice che i libri non sono gli uomini, ma sono i mezzi per giungere a loro.
Forse il classico è un libro misterioso, che a ogni lettura – a ogni memoria di frase, di strofa, di parola – rilancia con più sfida il suo mistero. Probabilmente è proprio il mistero creato e mantenuto da una combinazione di parole, la condizione che destina un libro all’universo dei classici. E’ la scaltrezza che mostra nella fuga da ogni definitiva interpretazione, dall’alternarsi di disvelamenti e nascondimenti dei suoi significati, è la sua capacità di produrre riverberi semantici in continuazione, di propagare eco di allusioni, metafore, allegorie, di proporsi come archetipo di ogni condizione del vivere, di ogni situazione della storia, di ogni felicità e di ogni dolore che possano accadere a un uomo, una donna, sotto ogni cielo in qualsiasi giorno.
Non è possibile portarsi appresso tutti i libri nel viaggio che si fa. Allora quello che uno mette nel bagaglio dev’essere il libro che contiene tutti gli altri, la summa di una biblioteca sterminata che si può riporre la sera sotto il cuscino, che tiene compagnia quando si è soli, che si può raccontare ai compagni di strada, che si può ripassare in silenzio, a memoria.
Forse un classico è questo. Anzi, molto e molto più di questo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 16 gennaio 2022]