di Giovanni Invitto
Una premessa: qui si esaminerà il film Gertrud dal punto di vista della sceneggiatura, quindi per gli aspetti più teorici e concettuali che per quelli tecnici. A chi scrive, come si è detto, interessa soprattutto il connubio di filosofia e cinema, mediato da una ridefinizione della filosofia come mitologia e narrazione. È un indirizzo oramai prevalente e sempre più radicato.
Venendo all’oggetto da trattare, se pensiamo al cinema del nord-Europa, al centro del secolo scorso, non possiamo non riferirci a due autori: lo svedese Ingmar Bergman e il danese Carl Th. Dreyer. Si parla di due “autori” perché non erano solo registi di sceneggiature altrui, ma stilavano e curavano in proprio i testi dei film anche quando si rifacevano, come avveniva per Dreyer, anche a documentazioni storiche o a scritti di altri. I due avevano indole e sensibilità culturali molto vicine, ma anche peculiarità ben distinte. Possiamo dire che ciò che li accomunava era la problematicità dei discorsi, il presentare sempre un’umanità dubbiosa e alla permanente ricerca di un punto fermo per la propria realtà, attraverso una fenomenologia dell’esistenza nella quale, a metà Novecento, la culturale occidentale, se non si è identificata del tutto, si è perlomeno riconosciuta nei suoi grumi essenziali.
Per l’uno e per l’altro la critica ha spesso richiamato una sponda comune di riferimento: quel Soren Kierkegaard, anch’egli danese, per il quale la fede era sempre rischio e scommessa. Ed era, soprattutto, passione e non ragione.
Anche critici, magari per formazione alieni a quel clima culturale, hanno ribadito quella sponda ed era impossibile non farlo. Come dimenticare il Settimo sigillo, Il posto delle fragole, La fontana della vergine e così via di Bergman, e La passione di Giovanna d’Arco, Dies irae e Ordet di Dreyer? Naturalmente questa produzione, per ognuno dei due, seguiva del processi interiori nei quali il rapporto con il possibile Soggetto Assoluto (la terminologia è dreyerana) era comunque presente e normalizzava o squilibrava il vissuto sempre all’interno di un universo ipotetico. Guido Aristarco, un critico insospettabile di simpatie per la cultura fideistica o religiosa, nell’introdurre nel 1967 l’edizione einaudiana delle sceneggiature di Dreyer, ricordava che la vera malattia mortale, come ripeteva Dreyer con Kierkegaard, era la mancanza di fiducia, di fede, cioè la solitudine dell’anima e la disperazione che hanno un’unica possibilità di superamento: quella che permette all’uomo, quale singolo, di mettersi in rapporto con un ente superiore, il Singolo Assoluto, Dio[109]. Il riferimento era a Ordet, ma inevitabilmente riguardava l’intera produzione del regista danese.