Elogio degli alberi

di Gianluca Virgilio

Alberi d’inverno sulla riva dei Laghi Alimini. Foto di Ornella Barone.

“Come tremava, l’albero! Cosa sarebbe accaduto?”

Hans Christian Andersen, L’abete.

D’inverno vado poco in campagna. Forse è per questo che guardo con un senso di nostalgia gli alberi che vivono in città, chiusi nelle loro strette riserve. Chissà che non intuiscano la campagna oltre la distesa delle case! Svettano verso il cielo incuranti delle intemperie e sono sempre lì, nello stesso posto, dove le mani dell’uomo li piantarono, presenze rassicuranti nella città che li circonda e li stringe d’assedio.

Penso spesso agli alberi della mia città come a degli esseri viventi che ci hanno accompagnato lungo il corso della vita, e continuano a farlo senza chiederci niente, eppure con quella costanza che possiedono solo coloro che sanno amare. Noi non ci accorgiamo della loro esistenza, perché non abbiamo la stessa costanza e ricambiamo il loro amore con l’indifferenza. Poi, quando per qualche motivo, che prende il nome di “riqualificazione urbana”, gli alberi di un’intera strada vengono abbattuti, dapprima ne guardiamo le spoglie ridotte a tronchetti di legna da ardere, infine contempliamo la strada deserta e disadorna con un certo sgomento, come se ci fosse stato sottratto un pezzo della nostra vita. La contempliamo e non la riconosciamo. Ma è solo qualche albero che è stato abbattuto e portato via sui camion e presto l’arredo floreale della strada sarà rinnovato per la solerte cura dell’Amministrazione.

Non manca il verde nella mia città. C’è la villa grande e la villa piccola, la villa della stazione e la villa del bersagliere e poi quella più recente che tutti chiamano la villa bianca; e poi ci sono altri spazi verdi che s’aprono qua e là, sempre  circondati dalla strade e dalle case. Sono gli scenari dei giochi di molte generazioni di bambini e ragazzi, che all’ombra degli alberi hanno inseguito un pallone o si sono rincorsi in mille gare. Ricordo un leccio, oggi all’incirca ottantenne, nel centro della villa piccola, un leccio un tempo portato a cespuglio, in cima al quale da ragazzi salivamo, ramo dopo ramo, come su una scala a pioli, e dall’alto si vedeva tutta la villa e anche oltre. Posso dire oggi che quel leccio fu un nostro compagno di giochi? E le siepi di pino e di pittosporo, profumatissime, che ci nascondevano nei nostri giochi puerili, che cosa furono se non nostre compagne? Mi crederà il mio lettore se gli dico che quando quel leccio fu potato ad albero e non fu più possibile salirvi – ma già allora ero diventato adulto – e le siepi furono tagliate per far posto ad una recinsione, mi venne un tuffo al cuore, tanto che ancora oggi ci ripenso con un dolore lenito ma non dimenticato?

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