L’uva puttanella ha inizio con la descrizione della passeggiata alla vigna, un luogo che racchiude forti valenze simboliche, da parte del protagonista, il quale narra in prima persona, dopo le dimissioni da sindaco e prima di abbandonare definitivamente il suo paese. E’ un modo, questo, per restare solo con se stesso, seduto “sulla terra nuda”[7] (“mi misi nudo al sole”[8]), e fare una sorta di bilancio della propria esistenza, ripercorrendo a ritroso alcune tappe di essa e andando anche oltre, alla ricerca di un destino quasi fatalisticamente segnato dall’infelicità (“ricordo il cammino che ho fatto, che non era segnato in quelle parole di auguri per due soldi affumicati”[9]).
Il primo pensiero è per il padre morto, la cui presenza nella vigna si fa ancora più tangibile (“mamma non vuol venire mai sola perché ti incontra vestito da serpente”[10]). E la figura del padre viene rievocata in alcuni episodi dell’adolescenza e della giovinezza, in un’aura da “favolistica popolare”[11], che tocca il culmine con la descrizione dell’uccisione del prepotente rivale in amore:
Lo sapesti, corresti al punto vicino al Seminario e trovasti il servo che ti mise in mezzo alle gambe e ti ferì al collo, ma allora ti sentisti in petto il coltello, che venne fuori da sé dalla tasca della giubba: spingendo la mano per sotto, il coltello aprì il ventre del servo e uscirono gli intestini. Era fatto. Nessuno voleva andarlo a prendere: avevano tutti paura di lui, il paese era libero così almeno dissero di un prepotente, di un bruto. Fu portato dai facchini a sua moglie. Il prete De Giacomo andò a confessarlo: – È vero, io sono stato il primo a colpire – disse. Il mattino morì dissanguato perché i medici non vollero andare [12].
Il momento centrale della propria fanciullezza è costituito invece dall’esperienza del collegio, di cui viene descritta la vita monotona, fatta di studio e di preghiere, che si svolgeva nel Convitto serafico dei cappuccini di Sicignano degli Alburni e di Cava dei Tirreni:
Il tempo era regolato dai padri e la loro stessa vita era questa e non poteva essere altra più completa e ambita, a noi non si chiedeva che lo studio e di andare tutti i giorni secondo la regola di quel tempo: essi reggevano le nostre sorti, erano gli idoli dell’avvenire che ci toccava[13].
Tuttavia quella con i frati non fu, per lo scrittore, “un’esperienza negativa”[14], poiché da essi gli venne quell’insegnamento della fratellanza verso gli altri, che lo segnò per tutto il resto della sua esistenza.
Nella seconda parte Scotellaro prosegue la storia della propria vita, allargando però lo sguardo alle vicende del paese e di alcuni dei suoi abitanti, dagli anni del fascismo alla liberazione. In tal modo egli si oggettiva nella figura del sindaco, diventando un personaggio come un altro. Non esiste però uno sviluppo cronologicamente ordinato dei fatti narrati, ma questi si alternano liberamente a seconda delle urgenze interiori. Emergono così, in una varietà di registri stilistici, che spaziano dal realistico al surreale, dal drammatico al comico, i personaggi principali: zia Filomena, la vecchia prostituta del paese; mastro Innocenzo, perseguitato politico; Pasquale il fuochista, suicida perché oppresso da una legge ingiusta; due giovanetti morti durante un bombardamento; il vice podestà, incerto se esporre il ritratto di Mussolini nei giorni dello sbarco alleato; ancora, il padre.
La terza parte è invece completamente dedicata all’esperienza del carcere, che per Scotellaro, come s’è detto, ebbe un senso traumatico, in quanto provocò in lui la caduta di tutti gli ideali, nei quali aveva creduto fino a quel momento:
Caddero tutte le parole maiuscole, in cui avevo creduto, o che, rimaste fredde, in molti, noi giovani, eravamo accorsi a riempire di calore e di amore. Fino a quando io sono il solo in mezzo a 170 persone e poiché uscirò presto non c’è parola maiuscola che valga[15].
Ciò spiega l’attualizzazione di questa vicenda, che viene sentita, a distanza di anni, come una ferita ancora aperta e dolorosa. Lo conferma la fluttuazione dei tempi verbali, i quali sono usati ora al passato, ora al presente, ora al futuro. In carcere Scotellaro, che torna ad essere narratore e personaggio della storia, riflette sulla mancanza di giustizia nella società, dove il potere politico, economico, sociale, a volte con la complicità di quello religioso, si allea con l’autorità giudiziaria per opprimere i più deboli. E alla categoria dei “deboli”, che sono perennemente sconfitti dalla “legge dei forti”[16], appartengono infatti i compagni di cella, tra i quali spiccano alcune figure, come il ribelle Giappone, il furbo Bartolomeo Vasco, il debole Chiellino. Il carcere serve a piegare la resistenza anche dei più combattivi, come Purchia e i comunisti di Irsina e Montescaglioso, i quali finiscono gradualmente col perdere la fiducia nell’azione politica. Con tutti questi lo scrittore stabilisce un rapporto di intima solidarietà, reso ancora più forte dalla lettura del Cristo si è fermato a Eboli di Levi, che assume il valore di una “preghiera comune”[17].
La produzione in prosa di Scotellaro comprende anche una dozzina di racconti, composti per la massima parte tra il 1948 e il ‘53 e pubblicati su varie riviste tra il 1950 e il ‘55. Otto di essi sono stati raccolti nel volume Uno si distrae al bivio, insieme al racconto lungo eponimo, mentre due figurano nell’Omaggio a Scotellaro del 1975. Si tratta quasi sempre, anche qui, di racconti a carattere autobiografico, nei quali però le vicende private dello scrittore sono strettamente intrecciate con la realtà sociale e ambientale della sua terra, fino a diventare rappresentative di una determinata situazione. È il caso di Pace in famiglia e Il paese, nei quali, attraverso la descrizione di episodi e momenti della vita dell’autore, emergono abitudini, bisogni, problemi della gente del paese. Nel racconto in forma di lettera intitolato Fili di ragno, il dato ambientale sembra incidere addirittura sullo svolgimento di un rapporto sentimentale con una donna straniera. E’, questo, come s’è visto, un tema ricorrente nella poesia di Scotellaro, che qui giunge a identificare il carattere dello scrivente, nel quale non è difficile scoprire lo stesso scrittore, con il paesaggio lucano: “Ti piacque la mia melanconia che era quella stessa del paesaggio tutto nero, una tavola nera e sempre lontane le luci degli altri paesi”[18].
Legati a ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza sono invece Una testuggine, notevole per l’approfondimento psicologico della figura del piccolo protagonista, del quale si riprende il punto di vista, e Salvatore, dove una vivace avventura di ragazzi è ambientata nelle viuzze in penombra del paese, di sera, nel consueto scenario di fatica quotidiana. Un taglio quasi antropologico hanno La capera e La festa. Nel primo Scotellaro rievoca in prima persona questo antico mestiere (la capera che pettinava a domicilio le donne del paese, liberandole anche, se necessario, dai pidocchi), sia ricorrendo alla testimonianza della madre, sia attingendo a lontani ricordi della sua fanciullezza, dai quali riemerge una furibonda lite tra i genitori scoppiata proprio a causa di una capera. Nell’altro descrive attentamente le leggende, le usanze legate alla festività della Madonna di Fonti, che attirava migliaia di persone dai paesi lucani limitrofi. E protagonista assoluta del racconto è proprio la folla di paesani che partecipano al rito, con i loro canti, i balli, gli incidenti che scoppiano all’improvviso.
Rientrano nella produzione dell’ “esilio”Sala d’aspetto e Suonata a distesa, nei quali pure è sempre presente il legame con la terra d’origine, rappresentato, nel primo caso, dal personaggio di un “paesano” e, nell’altro, dall’ analogia che si stabilisce tra un quartiere, situato tra Napoli e Portici, (“lungo la strada più suonante del mondo, dove la miseria canta a distesa”[19]) e alcuni luoghi lucani. Un posto a sé occupa infine La postulante, che racconta, in terza persona, la storia di una monacazione forzata, sempre sullo sfondo degli usi e dei costumi della società meridionale.
5. Il libro-inchiesta : Contadini del Sud
Contadini del Sud è l’ultima opera di Scotellaro, che ad essa si dedicò negli ultimi mesi di vita, da maggio a dicembre del 1953. Rimasta incompiuta a causa della morte dello scrittore, venne pubblicata postuma nel 1954 con una prefazione di Manlio Rossi Doria. Nel 1986 è apparsa una nuova edizione, curata da Vitelli, il quale, fra l’altro, ha ridotto drasticamente la consistenza dei Racconti sconosciuti, gli scritti di Francesca Armento, la madre di Scotellaro, che seguivano le cinque “storie di vita”, trattandosi di “due diversi orientamenti di ricerca”[20].
Il libro, così come ci è pervenuto, si compone infatti delle “storie di vita” di cinque personaggi (quattro contadini di Tricarico e un aiuto bufalaro della valle del Sele), precedute, in tre occasioni, da una presentazione dell’autore, il quale interviene anche sia nell’organizzazione complessiva, sia nelle scelte linguistiche dei testi, orientandosi verso una sorta di “italiano popolare”, anche per soddisfare quelle esigenze di maggiore comprensibilità del libro richieste dall’editore. Da queste storie viene fuori dunque soprattutto la dimensione privata dell’esistenza dei singoli contadini, il loro vissuto individuale: le concrete esperienze del lavoro, i bisogni, le condizioni materiali della vita quotidiana, le credenze religiose. Ma anche questa è, per così dire, una precisa scelta “politica” di Scotellaro, il quale aveva capito la specificità della situazione meridionale, non riconducibile automaticamente a schemi esterni ad essa, tanto è vero che nella nota introduttiva alla prima storia osserva:
Contadini del Sud nacque in seguito all’incarico ricevuto dall’editore Vito Laterza di scrivere un libro sui contadini meridionali e sulla loro cultura. Scotellaro non giungeva impreparato a tale lavoro, in quanto aveva avuto diverse esperienze nel campo degli studi socio-antropologici, essendo stato spesso in contatto con ricercatori italiani e stranieri. Lo schema dell’indagine, inviata all’editore nel giugno del 1953, che andò gradualmente cambiando nel corso dei mesi, partiva dal presupposto che “la cultura italiana sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso colto nel suo formarsi e modificarsi presso il singolo protagonista”[21]. La via più diretta, secondo cui impostare la ricerca, doveva essere perciò quella “dell’intervista e del racconto autobiografico”, che avrebbe permesso di assumere il singolo contadino “come protagonista della sua storia”[22]. Lo scrittore insomma metteva in chiaro, fin dall’inizio, che non gli interessava un’inchiesta dall’esterno, realizzata con i metodi tradizionali della sociologia, con i suoi freddi questionari e l’asettica elaborazione delle risposte, ma preferiva stabilire un rapporto personale con i contadini e ascoltare direttamente le loro voci, dando la parola a chi per secoli non l’aveva avuta. Né intendeva attribuire ad essi una determinata visione del mondo e della vita ispirata a ideali politici o partitici, andando alla ricerca di tipi combattivi, con una precisa coscienza di classe, come avrebbero preteso certi critici marxisti del tempo. Scotellaro si soffermò invece su figure comuni, sia pure dotate di una spiccata individualità, ma forse, proprio per questo, più rappresentative della civiltà contadina del Sud nel suo complesso.
Mancavano i termini per una lotta vera e aperta, che veniva soffocata e covata nell’animo di ognuno. Ognuno era un parente, un compare; ognuno aveva un pezzetto di terra, una partita catastale o era figlio di una famiglia che ce l’aveva. E ognuno era bisognoso, anche, spesso, il sindaco e il vecchio arciprete, con la tonaca unta. Chi era il nemico da combattere?[23]
Ed è proprio attraverso la singola “storia di vita”, attraverso l’analisi del privato, che emergono i problemi che da sempre i contadini del Sud avevano dovuto affrontare: la miseria, la dura fatica quotidiana, le malattie, l’analfabetismo. Sullo sfondo, invece, si stagliano i grandi eventi della storia nazionale del ventesimo secolo, che hanno inciso profondamente sulla vita delle popolazioni meridionali, come la prima guerra mondiale e l’emigrazione in America. Mentre, su tutto, spicca uno Stato assente, lontano, capace solo di chiedere, non di garantire, di proteggere. Uno Stato, a cui spesso i contadini reagiscono con la ribellione anarcoide, come il “grande avventuriero” Michele Mulieri, il primo degli intervistati, una figura individualista e pittoresca, che lotta per il riconoscimento dei propri diritti, ricorrendo a tutti i mezzi a sua disposizione, anche a quelli più plateali, se necessario. In una occasione, ad esempio, pur di farsi ricevere dal prefetto, non esita ad avvolgersi nella bandiera tricolore e a rotolarsi a terra, inveendo contro le autorità.
Ma non è solo lo Stato ad essere messo sotto accusa. Anche il potere religioso viene contestato da un altro contadino, Francesco Chironna, il quale abbandona la fede cattolica per abbracciare il credo evangelico, essendosi accorto della difficoltà di applicazione di “una legge vera cristiana”[24] nella società. L’unico che manifesta precise idee in campo politico è Andrea Di Grazia, il quale, dopo aver fatto mille mestieri, diventa un piccolo proprietario e si oppone alla tendenza egualitaria dei comunisti, perché sostiene:
C’è la differenza tra gli uomini e c’è differenza tra i terreni e gli animali: chi è di altitudine e di bellezza, che è un particolare di stato fisico di natura e anche sul personale è così. Tra cinquanta piantoni uno deve essere il migliore[25].
Un’altra caratteristica della cultura contadina del Sud, che emerge dal libro, è lo stretto rapporto istituito tra credenze religiose e superstizione, al punto che è difficile, per gli stessi intervistati, come per il Di Grazia, riuscire a distinguere:
Degli spiriti e magia: io sento dire e effettivamente io non credo e credo. Io ho avuto un fratello malato e c’era uno che sapeva fare fatture e sapeva guastarle, io veramente non credevo, ma per tenere contenta la propria madre, mi toccava andarci a trovare a questo individuo, ma lontano, nella marina a Ginosa e a Genzano, a Grassano chissà quanti soldi ci aveva sciupati senza che ha ricavato niente…[26]
Anche le storie di Andrea Laurenzana e di Cosimo Montefusco sono incentrate più sulle vicende personali e familiari che su quelle politiche. Nella prima viene messo in rilievo il ruolo, anche economico, svolto dalla donna in una società contadina, tanto è vero che Laurenzana, rimasto vedovo per due volte, è costretto a prender moglie per tre volte, quasi contro la sua volontà (“Non ho nessuna volontà di sposarmi. Ma vedo giorno per giorno che ho bisogno di pulizia, di aiuto, di tutto”[27]). Nella seconda storia, la più suggestiva e poetica del libro, la figura del giovane aiuto bufalaro analfabeta, che vive immerso nella più completa solitudine e comunica soltanto, in maniera tutta particolare, con le bufale, diventa quasi emblematica dell’isolamento, della separatezza in cui si trovava il Sud rispetto al resto del paese.
[In Tra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Lecce,
Milella, 2013]
[1] F. VITELLI, Premessa all’ Apparato della nuova edizione, da lui curata, di R. SCOTELLARO, L’uva puttanella. Contadini del Sud, Bari, Laterza, 1986, p. 302.
[2] R. SCOTELLARO, Frammenti e appunti dai quaderni dell’ “Uva puttanella”, in Uno si distrae al bivio, cit., p. 110.
[3] Ivi, p. 108.
[4] Ivi, p. 111.
[5] Ivi, p. 105.
[6] Ivi, p. 105.
[7] R. SCOTELLARO, L’uva puttanella, ed. cit., p. 5.
[8] Ivi, p. 30.
[9] Ivi, p. 5.
[10] Ivi, p. 6.
[11] G. B. BRONZINI, L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Bari, Edizioni Dedalo, 1987, p. 134.
[12] R. SCOTELLARO, L’uva puttanella, ed. cit., p. 10.
[13] Ivi, p. 22.
[14] Ivi, p. 29.
[15] Ivi, p. 93.
[16] Ivi, p.
[17] Ivi, p. 75.
[18] R. SCOTELLARO, Uno si distrae al bivio, cit., p. 57.
[19] Ivi, p. 67.
[20] F. VITELLI, Apparato a R. SCOTELLARO, L’uva puttanella. Contadini del Sud, cit., p. 346.
[21] R. SCOTELLARO, Per un libro su “I contadini e la loro cultura”, in L’uva puttanella. Contadini del Sud, cit. p. 341.
[22] Ibid.
[23] R. SCOTELLARO, Contadini del Sud, ed. cit., p. 125.
[24] Ivi, p. 258.
[25] Ivi, p. 199.
[26] Ivi, p. 195.
[27] Ivi, p. 228.