La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino. Filosofie film narrazioni 8. Il crepuscolo nell’anima. “L’ora del lupo” di Ingmar Bergman

L’intero film di cui parliamo qui ruota intorno alla morte, alla paura della morte e ai tentativi di esorcizzarla. Il cercare di procurarla agli altri senza riuscirci, l’accorgersi che la morta è solo l’ex-amante che si finge morta sono, però, corollari di altre paure e di altri incubi.

Questo è L’ora del lupo, realizzato da Bergman nel 1966 e mandato in visione in Svezia due anni dopo, il 18 febbraio 1968, perché, per la sua durezza e non-commerciabilità, non aveva trovato distribuzione[104]. Il copione era la ripresa di un suo manoscritto, iniziato nel 1962, il cui titolo tradotto sarebbe I mangiatori d’uomini o Gli antropofagi.

La trama narra della permanenza nella sua casa d’estate, su un’isola, di Johan Borg (Max von Sydow), pittore famoso. Non va trascurato il particolare del cognome uguale a quello del vecchio luminare de Il posto della fragole, e va aggiunto che il termine svedese borg sta ad indicare castello o torre e che il luogo centrale del film è un castello. L’artista, geloso della  moglie Alma (Liv Ullmann), tiene un diario dove descrive e disegna i démoni della nevrosi e le allucinazioni che lo tormentano. Alla moglie Alma, dopo aver letto quel diario, appaiono, nel castello vicino, persone che assomigliano a quei démoni.

Il film è dichiaratamente autobiografico. Il regista aveva sofferto più volte di forti depressioni ed era stato ricoverato in clinica. Qualcuno ha visto anche nel ruolo del pittore una citazione biografica del regista, perché Johan è un artista divenuto famoso grazie agli studi sul volto e sui ritratti. Nel film Bergman oggettivizza e fenomenizza i propri incubi nei quali l’altro è il nostro assassino, è l’antropofago. Nel 1966 era apparso Persona, anch’esso dedicato a patologie mentali e schizofreniche, dov’è l’annullamento del tempo storico. De L’ora del lupo Bergman ha detto: “Ho osato fare alcuni passi, ma non ho percorso tutta la strada. […] È un barcollante nella direzione giusta”[105].

Ma quello di cui parliamo è, soprattutto, un tempo presente nell’immaginario e nel vissuto. Il film comincia con Alma che, sbucciando delle mele, narra a un uomo fuori campo – presumibilmente l’autore-regista – la storia del marito, scoperta da lei leggendo il suo diario e i disegni allucinati che vi erano contenuti. Poi dà il diario all’interlocutore invisibile affinché lo legga. Si legge nei titoli di testa che il pittore era scomparso senza lasciare traccia.

Il nome Alma, come vedremo, non può essere casuale come non può essere causale il fatto che tutto si svolga in un’isola. All’inizio si pensa ad un’isola abitata solo dai due protagonisti, in assoluta autoclausura, e poco dopo si scopre che vi è un castello di proprietà dei Baroni von Merkens (il figlio è interpretato da Bertil Anderberg e il padre da Erland Josephson), che sono anche proprietari di tutta l’isola, e che il luogo è abitato da una serie di persone, quasi un gruppo costruito per portare Johan alla conclusione mortale.

Perché questi aveva scritto il diario: per fermare il tempo? Per materializzare gli incubi notturni? Parrebbe di sì, perché, come già anticipato, Alma scopre che i soggetti mostruosi schizzati dal marito sono gli invitati del barone che saranno loro commensali. Costoro tendono a farli allontanare ed a mettere in crisi singolarmente ciascuno dei due ed anche il loro essere coppia. Infatti qualcuno ha detto che il tema del film è la coppia. Lettura interessante ed ancor più intrigante se pensiamo che Alma, il nome della donna (“nome insolito e nobile”, dice un ospite del castello), può avere un duplice etimo: può derivare dal sostantivo latino anima, oppure dall’aggettivo alma: che alimenta, che nutre.Ma alma, tramite una mediazione con la lingua spagnolo-catalana può voler dire direttamente anima.Se è così, quello del film è un discorso non sulla coppia in genere o sulla vita di coppia, ma su una coppia nella quale la moglie deve fare da compensazione all’angoscia del marito, deve ricreare e alimentare la sua sicurezza, contemporaneamente deve essere la sua anima e ingoiare i suoi incubi e farli propri: altra forma benigna di antropofagia.

Qui subentra il tema della coppia, perché “coppia” è “doppio”, sdoppiamento e ciò genera angoscia, per il Singolo è sempre solo con la sua “anima” e l’anima serve perché è identificazione che salva dall’angoscia, è la “ripetizione” kierkegaardiana del sé, già ricordata, la parola, che “conforta”. Senza l’anima il soggetto è de-centrato, sdoppiato, schizoide, di-sperato: senza speranza.

Ma nella coppia subentra una terza persona: il figlio. Tra il 1963 e il 1965, nell’intervallo tra Persona L’ora del lupo, Bergman aveva lavorato ad un cortometraggio dedicato al figlio Daniel (Daniel sarà anche titolo dell’opera, titolo alternativo Daniel Sebastian), che apparirà nel 1967 in un’opera collettanea chiamata Stimulantia, cioè cose che stimolano a vivere. Il contributo di Bergman consiste nel montaggio di filmati in 16 millimetri:

Ho voluto fare a Daniel un regalo/testimonianza al suo secondo compleanno, qualcosa che poteva avere quando sarebbe cresciuto […]. Quando ho fatto il film pensavo andasse bene. Ma la reazione suscitata è stata completamente negativa. Quindi vi doveva essere qualcosa di sbagliato da qualche parte.

In fin dei conti, in quel documentario lo stimolo per la vita è proprio il figlio. In L’ora del lupo Alma attende un bambino e questo bambino alla fine del film pare una presenza che salva.

All’inizio della proiezione, mentre scorrono i titoli di testa, sullo sfondo nero si ascoltano le voci di scena, degli attori e di tutti coloro che si preparano a girare il film, quasi a dare ancora una volta il senso della realtà contro la finzione filmica. Questa è tessuta da un bianco e nero contrastato, come i colori e le ombre della notte. Il film si divide materialmente in due metà: nella prima si parla della notte, del buio, del clima angosciante. Poi appare di nuovo, su sfondo nero, il titolo L’ora del lupo e da quel momento si fenomenizzano gli incubi.

I due protagonisti hanno trascorso sette anni insieme. Ma Johan aveva vissuto per cinque anni una passione travolgente per Veronica Vogler (Ingrid Thulin), anch’ella sposata. I due amanti si erano lasciati quando il loro “scandalo” era divenuto di dominio pubblico. Nella stanza da letto dei baroni c’è il quadro di Johan che raffigura Veronica, ma per lo spettatore non è visibile. La baronessa confessa di adorare il quadro e anche quella donna. Poi si scopre che Veronica era stata per lunghi anni anche amante del barone che ne era geloso a tal punto da dire che quando il pittore si sarebbe incontrato nel castello con la donna si sarebbe messo ai piedi del letto per ascoltare tutto.

I due coniugi erano arrivati all’isola alle dieci di sera, e c’era ancora luce (siamo nell’arcipelago nordico delle isole Frisone). Poi cala il buio. La luce di una lampadina illumina parte della scena. Alma è angosciata.

Non casualmente è inserita nel film una parte del Flauto magico di Mozart. Se nel 1974 Bergman farà un film dell’intera opera mozartiana, qui ne presenta, alla fine di una cena nel castello, una piccola parte sotto forma di uno spettacolo di marionette, dove la marionette sono attori reali rimpiccioliti con interventi tecnici. Il brano ripreso contiene, in maniera pertinente, il passaggio in cui Tamino, mentre cerca Pamina, si chiede: “O lunga notte, quando avrà fine”. Il coro risponde: o presto o mai più. E uno dei commensali-spettatori ricorda che Mozart risentì questo brano quando era gravemente ammalato. Ma Tamino apprende che Pamina vive ancora. Insomma: notte, malattia, morte, vita.

Nella prima parte del film, Johan spiega alla moglie perché occorre non dormire in quell’ora, anche se “un tempo la notte era fatta per dormire sonni caldi e profondi”, mentre “questa è l’ora peggiore”. Ricorda che il popolo la chiama “l’ora del lupo” e dice che è l’ora in cui gli uomini muoiono, i bambini nascono, gli incubi ci assalgono. Allora, occorre restare svegli fino all’alba. Johan impone ad Alma: “Devi stare sveglia”, “potrai dormire quando spunterà il sole”. Ma anche l’apparente sensazione notturna di pace terrorizza. L’espressione di Alma è: “c’è una pace tremenda”. Johan guarda trascorrere sull’orologio i secondi e un minuto sembra non finire mai: “Questo tempo non passa mai”.

La mattina non è più tranquilla: è il tempo di apparizioni e non si comprende se si presentano persone reali o visioni ed incubi. La vecchia che si presenta ad Alma afferma di avere “216, no 76 anni”. Le aveva detto di non aver paura: “Non ti mangio mica”. Il professore afferma: “Scruto il fondo dell’anima e lo metto a nudo” e Johan lo aggredisce forse proprio per difendere il buio della propria anima. La coppia, però, non può evitare di accogliere l’invito per il venerdì al castello. Il gruppo delle donne è incredibilmente ciarliero e sempre spietato. C’è un incrocio incomprensibile di voci e mai un vera comunicazione.

Qualcuno ha individuato in questo film accostamenti a Fellini (soprattutto a Satyricon Casanova) e a Buñuel. Per il primo potremmo pensare a questi gruppi umani magmatici nei quali ognuno parla a se stesso pur parlando apparentemente ad altri, ma anche alla citazioni del disfacimento mortale. Il riferimento buñueliano è nell’impianto surrealistico della seconda parte, dove non manca il riferimento a un occhio di donna tolto e messo in un bicchiere. Buñuel e Dalì avevano, all’inizio di Un chien andalou, del 1929, mostrato un rasoio che tagliava l’occhio di una donna. L’occhio non è “lo specchio dell’anima”?

Nella conclusione del film di cui stiamo parlando, Alma chiede se una donna che vive sempre assieme ad un uomo finisca poi per essere simile a quell’uomo e se vedrà i suoi stessi fantasmi. Aveva detto prima: “Sarei felice se invecchiando avessimo uno i pensieri dell’altro e lo stesso volto rugoso”. Forse per questo, alla fine di una delle solite veglie notturne, il pittore prende la pistola che gli aveva lasciato il professore per difendersi “dai sortilegi” di quel posto isolato, e spara tre colpi indirizzati alla moglie. Lo spettatore non vede l’esito dei colpi perché Alma è fuori campo.

Qual è il motivo presumibile del tentativo di uccisione della moglie? Potrebbe essere la consapevolezza in Johan che chi vive oramai le nostre stesse angosce le duplica e non ci può aiutare. Oppure potrebbe aver maturato la convinzione che la moglie non può più essere la sua alma nutrix, in quanto ha mutuato la sua angoscia e i suoi incubi. Ultima ipotesi, potrebbe essere stato l’inconscio desiderio di rivedere e magari riprendere la relazione amorosa con Veronica che, gli è stato riferito, sarebbe stata presente in un prossimo incontro al castello.

In un’altra riunione Corinna (Gertrud Fridh), moglie del barone, riferisce che un colpo dei tre indirizzati alla moglie è stato mortale. Alma, invece, non è morta, è stata solo sfiorata dal colpo. Anche Veronica, alla fine, si presenta come morta, distesa su un tavolo da obitorio, coperta da un lenzuolo, ma, quando Johan comincia ad accarezzare il suo corpo, lei si siede e gli ride in faccia. Perché Veronica è come tutti gli altri: concorre al gioco per demolire ulteriormente la perdita della realtà da parte di Johan. A lui, tra l’altro, era stato detto: “Lei vede ciò che vuole vedere”. Il che vuol dire che non esiste più percezione del reale perché l’unico reale è quello che attraversa e occupa la nostra mente.

Anche il sesso non è mai godimento totale, piacere; al contrario è masochismo e richiede violenza sul corpo. Lo si nota nel livido al seno ostentato di Veronica, apparsa nella memoria di Johan o alla sua fantasia, quando gli predice il ritorno dei mostri e la sua fine; lo si nota pure quando la baronessa mostra la cicatrice che ha vicino all’inguine ed afferma che quella ferita è molto eccitante e bisogna inventare qualcos’altro.

Anche la memoria-incubo dell’uccisione del bambino, che rappresenterebbe il demonio tentatore, viene ricordata dal pittore-assassino col riferimento ad alcuni morsi che ha sul collo. L’incontro aveva avuto all’inizio le movenze di una scena di pedofilia in cui, però, era il bambino a tentare l’adulto e ad offrirsi a lui.

Oramai gli incubi sopravanzano tutto. Nei disegni del diario sono le allucinazioni: carnivori, insetti, uomo-ragno. In Come in uno specchio, del 1960, era Dio ad essere raffigurato come ragno. Che ora non ci sia più Dio? È l’uomo che lo sostituisce? Gli uomini camminano come ragni sulle pareti. Come spiegare questa simbologia del ragno? Per i cristiani esso è simbolo del male ed è contrapposto alla “buona ape”. In Giobbe (27,18) la casa del dannato è “un fragile nido”; la Bibbia di Gerusalemme traduce l’ebraico ash con nido di ragno e il termine nido è simbolo dell’instabilità e fa parte del retaggio di maledizioni che gravano sul maledetto. Ma perché Dio era stato il grande ragno? In alcuni popoli dell’Africa occidentale l’anonse (ragno) ha preparato la materia di cui è fatto il primo uomo, ha creato il sole, la luna e le stelle. Il Grande Ragno per gli Ashanti è il creatore dell’uomo. Il ragno ha un ruolo demiurgico per molti popoli: in alcune isole oceaniche è considerato il creatore dell’universo; nei miti dell’India si parla del tessitore primordiale e del ragno cosmico. Ma, per altro verso, prevale la simbologia negativa alla quale Bergman si rifà. È stato detto che il lato oscuro ed inconscio dell’uomo assume la forma del ragno quale divoratore della capacità logica. Il ragno segnalerebbe un lato inconscio della vita che ci tiene legati ad una “coazione a ripetere”. È la fatica di chi non ha ancora trovato spazio sufficiente per recuperarsi alla dinamica universale. Di chi ha perduto per sempre Dio[106]. È il tema di Aracne e del tarantismo su quale ci siamo soffermati altrove[107].

Torniamo al film e alle sue allucinazioni: le persone assumono fisionomie irreali. Il volto di un interlocutore prende le fattezze del corvo o sparviero che insidia Johan nella parte finale del film; lo stesso protagonista viene preparato all’incontro con Veronica attraverso il trucco del volto. L’effetto è quello di un clown bianco. E colui che lo ha truccato gli dice: “Così è lei stesso e un’altra persona”. Questo sdoppiamento, questa duplicità è la metafora dell’attore, ma è anche la metafora della schizofrenia che il protagonista del film ed anche il suo regista avevano vissuto Tutto ciò è una constatazione dell’inutilità dell’arte nel mondo degli uomini, a meno che l’arte non serva al singolo per materializzare ed esternare le patologie della propria anima, come avviene nelle pitture e nei disegni di Johan.

Allora, cos’è l’ora del lupo? Non è più un’ora della notte, solo uno spazio notturno, ma è l’intera esistenza. Si è rotta l’immagine che avevamo della vita. Dice Johan: “Grazie a voi sono giunto al limite: lo specchio si è spezzato, ma cosa riflettono i frantumi? Sapete dirmelo?” Ritorna il Come in uno specchio del film precedentemente citato, che si svolge sempre in un’isola con la protagonista Karin uscita da un ospedale psichiatrico. In L’ora del lupo ognuno legge il male negli occhi degli altri “come in uno specchio”, ribaltando totalmente il messaggio paolino: “Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia”[108].

Nei frantumi dello specchio di Johan non compare alcun volto che non sia quello di divoratori di uomini e di anime.

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Note

[100] M. Merleau-Ponty, Le Cinéma et la nouvelle psychologie, “Les Temps modernes”, a. III, n. 26, 1947 (è il testo della conferenza tenuta il 13 marzo 1945, all’Institut des Hautes Études Cinématographiques); poi in Sens et non-sens, Nagel, Paris 1948, pp. 96-97.

[101] Il reale falso. Filosofia e psicoanalisi leggono cinema, a c. di G. Invitto, Manni, San Cesario di Lecce 2007.

[102] Vedere quanto precedentemente scritto a proposito delle tesi di Umberto Curi.

[103] Cfr. il ns. Dare scacco all’angoscia. Morte, solitudine, nulla in due film di Ingmar Bergman, in G. Invitto, L’occhio tecnologico. I filosofi e il cinema, Mimesis, Milano 2005, pp. 79-120.

[104] Vargtimmen, Svezia 1966-1968; sceneggiatura e regia: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; montaggio: Ulla Ryghe; musica: Lars Johan Werle; scenografia Marik Vos-Lundh. Interpreti: Liv Ullmann, Max von Sydow, Erland Josephson, Gertrud Fridh, Gudrun Brost, Bertil Anderberg, Georg Rydeberg, Ulf Johansson, Naima Wifstrand, Ingrid Thulin, Agda Helin, Lenn Hjortzberg, Mikael Rundquist, Mona Seilitz, Folke Sundquist. Produzione: Lars-Owe Carlberg per Svensk Filmindustri. Durata: 90’.

[105] I. Bergman, Immagini, trad. it. a c. di R. Pavese, Garzanti, Milano 1992, p. 26.

[106] Cfr. C. Allegretti, Il ragno, nella rivista telematica “Individuazione”, 2001, www.geagea.com.

[107] Cfr. Tessere “per” la vita. Prendendo spunto da Aracne di Eva Cocca, in G. Invitto, Idee e schermi bianchi, cit., pp. 53-68.

[108] I lettera ai Corinzi: 13, 12.


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