di Giovanni Invitto
Parlare del binomio cinema-tempo è parlare di una tautologia, perché, come scrisse Merleau-Ponty, esemplificando con alcune scene de La madre di Pudovkin (1926), “il film non è una somma di immagini ma una forma temporale”[100]. Il cinema è una struttura temporale; “cinema e tempo” equivale a “cinema è tempo”. Un’analoga convergenza lessicale abbiamo rintracciato quando si è parlato di cinema e/è falso[101] e di cinema e/è filosofia[102]…
Ciò non vuol dire che il cinema non abbia tematizzato più volte il problema e i paradossi del tempo umano o cosmico o fantascientifico; vuol dire soltanto che ogni film ha in sé “a priori” il tempo e la cadenza temporale come elementi costitutivi anche se non li assume a tema. È come il battito cardiaco per la vita corporea.
Sul problema del tempo della vita e del tempo della morte, Bergman ha prodotto molto, però qui si parlerà solo di un segmento del “tempo linearmente inteso”, cioè del giorno come tempo racchiuso in ventiquattro ore. Si tratta di un segmento di tempo che, a livello metaculturale, si presenta o si presenterebbe in ognuno di noi con un vissuto simile. Si tratta della cosiddetta “ora del lupo”, quella della notte che svanisce con l’alba.
È l’ora di cui ha parlato Nanni Moretti in Caro Diario (1993), quando “figli unici”, all’ora del lupo, alle tre, si rifugiano nel letto del padre. Si tratterebbe di qualcosa di riconducibile all’ancestrale “paura del buio”, come afferma la protagonista all’inizio del film. È l’ora di cui scrive, nel 1987, il cantautore italiano, Francesco Guccini in Signora Bovary. Per salire un po’ in un clima diverso, il film di Andrei Tarkovskij Sacrificio-Offret-Sacrificatio, del 1986, è stato ritenuto da alcuni una trascrizione personalissima del clima de L’ora del lupo. Così come le opere di David Lynch saranno lette come maturate all’interno di un analogo clima.
Quindi quell’ora notturna è l’ora dell’angoscia. La filosofia è, ed è stata sempre, anche narrazione dell’angoscia. Aveva affermato Kierkegaard che l’angoscia è il possibile nulla di ogni possibilità (Alma, la protagonista del film, avverte: “qualcosa di terribile che però non ha un nome”), l’affacciarsi sulla libertà vuota ed è il luogo di incontro più radicale con la morte. Ingmar Bergman è un autore-regista il cui discorso, come si è detto, è sempre stato attraversato dal tema della morte: pensiamo a Il settimo sigillo (1956), con il gioco a scacchi tra il Cavaliere e la morte, a Il posto delle fragole (1957)con l’anziano professore Isak Borg che vive sotto la dimensione latente della morte, a La fontana della vergine (1960), con la giovinetta violentata e uccisa[103] e così via. Dice Isak Borg, il protagonista de Il posto delle fragole: “In quello stato di folle terrore mi svegliai di soprassalto e balzai a sedere sul letto. Erano le tre del mattino e il sole già illuminava il tetto di fronte”.