Una tradizione, del tutto inattendibile, fa risalire la presenza del monaciello al Quattrocento aragonese. Si tratterebbe del figlio nato dall’unione illegittima di Caterina Frezza, di nobile famiglia, e Stefano Mariconda, uomo del popolo, trucidato dai parenti della donna ostili al rapporto. Alla morte dell’uomo amato Caterina si chiude in convento, dando alla luce un bimbo deforme, che vive nel convento indossando l’abito monacale, fino alla morte avvenuta in circostanze misteriose, forse per opera della stessa famiglia Frezza. A Napoli c’è chi asserisce di aver incontrato il monaciello, a secoli di distanza dalla sua scomparsa.
«Il ventre di Napoli» è un romanzo che Matilde Serao pubblica nel 1884, riunendo articoli vari usciti sui giornali negli anni precedenti. Benedetto Croce ne scrisse: «Tutto ciò che la Serao aveva notato sulla vita e il carattere della plebe napoletana, e che le aveva porto argomento di bozzetti…venne fuori nel 1884, nell’occasione del terribile colera che infierì nella città … E la Serao scrisse una serie di articoli con titolo «Il ventre di Napoli», pagine tirate d’un fiato, descrizioni rapide, aneddoti narrati con semplicità, calorosa eloquentissima perorazione a prò del popolo napoletano, piena di quell’affetto materno del quale ella possiede il segreto».
A p. 63 dell’edizione del romanzo curata da Patricia Bianchi (Napoli, Avagliano editore, 2009) si legge: «Tutte le superstizioni sparse nel mondo sono raccolte in Napoli e ingrandite, moltiplicate. Noi crediamo tutti quanti alla «jettatura». Non parliamo dell’olio sparso, dello specchio rotto, del cucchiaio in croce col coltello, della sottana posta alla rosta (alla rovescia) che porta fortuna, dei soldi mercati (gobbi), degli scorpioni, della gallina: superstizioni vecchie, chi se ne occupa? … I napoletani credono agli spiriti. Lo spirito familiare napoletano che circola in tutte le case è il monaciello, un bimbetto vestito di bianco, quando porta fortuna, vestito di rosso quando porta sventura. Una quantità di gente mi ha affermato di averlo visto. In piena Napoli, alla salita di Santa Teresa, una bellissima palazzina non si affitta mai per vent’anni, l’ho vista chiusa perché è abitata dagli spiriti».
Non parrebbe un fatto inventato. Eduardo Scarpetta, il più importante attore e autore del teatro napoletano tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, capostipite della dinastia teatrale degli Scarpetta-De Filippo, racconta di aver abitato da bambino in un palazzo grande come una caserma, affittato dal padre per una somma molto conveniente a causa della diceria popolare che lo voleva abitato da un monaciello molto dispettoso. Quando la madre era venuta a conoscenza di queste voci che il marito le aveva tenuto nascoste, vittima lei pure di apparizioni strane e rumori, aveva costretto il coniuge a cercare un’altra casa per la famiglia. Avvenimenti del genere, reali o immaginari, rivelano la familiarità con il mondo magico e soprannaturale frequente nella cultura napoletana, che si travasa anche nel teatro di Eduardo De Filippo, in particolare nella commedia «Questi fantasmi!» (che debuttò a Roma, al teatro Eliseo, il 7 gennaio 1946), la quale risente a sua volta di pezzi della tradizione teatrale precedente (tutto è spiegato nella edizione del «Teatro» di Eduardo De Filippo, curata da Nicola De Blasi e Paola Quarenghi, Milano, Mondadori, 2005, vol. II, pp. 320-321).
Il folletto di cui parliamo non è solo napoletano. In Salento è chiamato munaceddu, municeddu, moniceddu, nel barese monacidde (con -e finale evanescente), in Basilicata monachicchio, in Sicilia munacheddu (nel ragusano esiste anche la variante femminile munachedda ‘essere immaginario con cui si intimoriscono i bambini perché non si avvicinino alle cisterne o alle vasche d’irrigazione’). In queste forme la dd ha spesso la pronunzia cacuminale (o retroflessa o invertita) tipica dei dialetti siciliano, calabrese, salentino e sardo.
La leggenda del monaciello, permea ampi strati della cultura popolare italiana, anche con nomi diversi. Mi piacerebbe che i lettori mi dicessero se anche nella loro zona esiste un personaggio simile, e quale è il suo nome. Un dato è comune. L’evocazione di figure immaginarie che intervengono nella vita quotidiana degli uomini con eventi prodigiosi esprime il bisogno delle popolazioni povere di cercare in personaggi o in avvenimenti fantastici rifugio rispetto alle avversità della vita. Questo bisogno non va irriso. È un moto dell’animo, fenomeno da considerare con attenzione e con rispetto, come fece Ernesto De Martino quando nel 1959 si accostò al dolore delle donne, che nella terra del rimorso si chiamava tarantismo.
[«Nuovo Quotidiano di Puglia», domenica 9 gennaio 2022, p. 19]