Charlot è il re del cinema. […] Non ci si può in alcun modo rappresentare Charlot se non in un film. […] Egli nasce con il film e muore con il film. Ha creato un personaggio, il suo personaggio, il vagabondo Charlot, leggendario come il Maccus o il Dossenus delle Atellane, ha creato un film: il film delle vera miseria[96].
Tornando a Modern Times, esso mette in campo una multiforme fenomenologia del tempo. Ricordiamo che i titoli di testa scorrono su un quadrante di orologio che scandisce anche i secondi e indica la durata reale. Però, nel film, un orologio da taschino, quello del capo operaio, che era un ricordo di famiglia, viene schiacciato dalla pressa e diviene una lamina di metallo. Il tempo e l’orologio sono schiacciati dalla macchina. Nel 1936 era già attiva ed è presente nel film la macchina marcatempo, per timbrare sui vari cartellini gli orari di ingresso, di sosta e di uscita. Anche l’orologio si era trasformato in strumento di sfruttamento.
Sicuramente il cuore del messaggio chapliniano è la disumana velocità dei tempi che si accompagna ad una economia e ad una società disumane. Non a caso l’ottima copia del film[97], unisce anche una integrazione storica di primario livello, come il documentario del 1931 Dietro le quinte dell’era della macchina. Ci si trova davanti ad una vera e propria apologia della catena di montaggio. Il filmato, prodotto a cura del Ministero del Lavoro e dell’Ufficio dei Diritti delle donne degli Stati Uniti, è tutto basato sulle categorie “tempo” e “tempi”. Si comincia col dire che le donne “perdono tempo a cercare un lavoro” perché ce ne sarebbe tanto…! Fa da commento una poesia a rime baciate il cui leitmotive è “ridurre i tempi di lavoro”. Si sottolinea che anche la modalità di lavoro è cambiata: ora l’operaia “sta seduta e accelera la produzione”. Quindi si passa ad elencare la crescita esponenziale della produzione: prima un’operaia incartava, in una giornata, 960 leccalecca, ora due operaie e una macchina ne incartano 60.000. Lo stesso avviene con i pacchi di Corn-Flakes: 5 operaie e la “macchina” ne confezionano 17.000, contro i 12 che un’operaia prima era in grado di confezionare. E il documentario propagandistico conclude che occorre una “solida pianificazione”. Ma, poi, davvero le donne non avevano più bisogno di cercare un lavoro?
Anche ma non solo, su quel modello, cioè contro quel modello economico-sociale nacque Modern Times. Come si sa, Chaplin tentò dapprima un film che fosse sonoro e parlato, ma non ne fu soddisfatto e scelse la formula mista, nella quale, però il parlato ed il muto si susseguivano con scelte motivate. È chiaro che un film muto, rispetto ad uno sonoro, ha una struttura metatemporale, perché manca la scansione del tempo data dalle parole e dai suoni.
Ma come e quando arriva nel film la voce umana? Il presidente dell’azienda parla non direttamente ma attraverso uno schermo; la radio accesa manda solo parole di pubblicità, e non potrebbe essere diversamente; il funzionamento della macchina per “mangiare in fretta” è spiegato non dalla voce del costruttore ma da una voce registrata su un disco; Charlot parla direttamente solo nell’episodio del canto, dove adotta una specie di incomprensibile grammelot, nel quale sono mescolati francese, inglese, spagnolo, italiano. La conclusione è che non si capisce niente e domina solo il ritmo musicale. È la famosa Titina la cui prima strofa, nella versione chapliniana, è questa: “Se bella giu satore/ Je notre so cafore /Je notre si cavore/ Je la tu la ti la twah”.
Il povero Charlot perde il polsino su cui aveva scritto il testo e si blocca. Paulette Goddard, la monella-compagna, lo esorta: “Canta, lascia stare le parole”. La parole non contano, contano la musica e la danza. Ma anche la danza, in quel locale intasato di folla, diviene come una macchina da cui Charlot cameriere non riesce ad uscire, come non si esce dalle ruote della catena di montaggio. Quella scena sembra anticipare la situazione de L’angelo sterminatore di Buñuel, con la élite borghese che non riesce ad uscire dal salone, cioè da se stessa.
Chaplin aveva curato ogni minimo dettaglio dei tempi e dei ritmi, con la pignoleria che gli era riconosciuta. Alcuni “filologi” della pellicola ci hanno informato che Chaplin regista e autore, quando Charlot balla nel negozio nei pressi delle scale mobili (altra invenzione per ridurre i tempi e la fatica del salire), alternava 18 o 24 fotogrammi al secondo in funzione del ritmo della danza. Anche la marcia dei galeotti è cadenzata. All’inizio del film avevamo visto un’altra marcia, quella di una mandria di pecore. La didascalia in italiano recita: “Umanità in marcia in cerca della felicità”. O forse del lavoro, per quanto, in quel contesto, i due termini possano essere sinonimi. Sennonché al centro della mandria si fa largo una pecora nera.
La pecora nera è chi non si adatta e non si integra al sistema ed ai tempi moderni che sono i tempi della fabbrica e dello sfruttamento. Sono i tempi nei quali i pezzi che debbono essere lavorati anticipano l’operaio perché, sul nastro, scorrono più veloci. Anche il presidente, che parla attraverso lo schermo, rimprovera gli operai perché “i dadi arrivano lenti”. Sono i tempi per i quali la macchina per mangiare viene presentata con slogans come: “Non fermatevi per il pranzo. Sconfiggete i concorrenti” e come quello che afferma che si può “passare dalle altre alla fase della velocità col solo tocco della lingua”…
Epoca della velocità: Charlot supera, correndo, file di disoccupati per entrare per primo nei cancelli e ottenere un lavoro; la velocità dell’autoambulanza e del cellulare della polizia sono funzionali alle esigenze delle “istituzioni”. Ma nei “tempi moderni” è anche chi ha “tempo da perdere” ed è il presidente che fa un puzzle e legge fumetti nelle more del controllo degli operai che controlla finanche quando sono nel bagno, attraverso uno schermo che è anche il mezzo tramite il quale egli fa sentire la propria voce e fa vedere il proprio volto ai dipendenti. Lo schermo (anche quello cinematografico?) rientra nel sistema alienante del potere.
Tempi moderni sono anche quelli del cinema. Nel documentario Chaplin Today, di Philippe Truffaut, costituito da una intervista ai fratelli registi Luc e Jean-Pierre Dardenne, Luc, il regista-filosofo, ricorda che le ruote degli ingranaggi non stritolano l’omino e il vecchietto, ma li trascinano nella loro impotenza e nella loro incapacità di liberarsi. E quegli ingranaggi, dice Luc Dardenne, sono identici alla macchina di proiezione che trascina la pellicola. Può non essere una metafora chapliniana?
Nonostante tutto, però, in Modern Times sono presenti anche squarci di speranza: paradossalmente, nella cella di prigione, dove si trova l’innocente e sereno protagonista, al centro del muro è incollata una grande foto di Abramo Lincoln, cioè di colui che aveva eliminato la schiavitù. Messaggio non mascherato. Hannah Arendt, in un saggio intitolato Charlie Chaplin: il sospettato, apparso per la prima volta nel 1948, parla della figura dell’innocente-sospettato che sintetizzerebbe la figura di Charlot:
L’uomo sospettato viene sempre acciuffato per cose che non ha affatto commesso; ma fa parte di lui, disabituato dalla società a pensare a un relazione tra trasgressione e punizione […]. Poiché è sospettato deve subire per molte cose che non ha commesso; ma poiché sta fuori della società ed è abituato a condurre una vita non controllata da essa, allora possono restare inosservate anche molte delle sue mancanze[98].
Così finisce il film. Chaplin aveva girato un primo finale diverso nel quale la monella si faceva suora e l’omino andava via da solo, come sempre. Poi cambiò idea e, per la prima volta, Charlot scompare andando via, sfumando sullo schermo, con un’altra persona.
L’ultimo gesto mimato è alla fine, quando l’uomo con la bombetta mette due dita ai lati della bocca della compagna di vagabondaggio, per far assumere la forma del sorriso. Dai movimenti delle labbra di Charlot capiamo che le ripete “Smile”, che è anche il titolo della mitica melodia composta da Chaplin come parte della colonna sonora del film, anche se il testo non fu di Chaplin ma di John Turner e Geoffrey Parsons. Alcuni versi della canzone, successivamente resa famosa soprattutto da Nat King Cole, nella traduzione letterale italiana dicono:
Illumina il tuo volto di gioia,
nascondi ogni traccia di tristezza
anche se una lacrima può ancora essere vicina.
È questo il tempo per provarci.
Sorridi, a cosa serve piangere?
Scoprirai che la vita lo merita ancora.
Basta che tu sorrida.
Chapliniani?
Questo è l’ultimo film in cui appare l’omino con baffetti neri, la bombetta, giacca stretta e corta, pantaloni larghi, bastoncino di bambù. I tempi moderni sono i tempi della “mostruosità e della bestialità” dei Superman, dei Dittatori, non del “piccolo pover’uomo”, come ricordava Hannah Arendt. L’ebreo Chaplin rimise ne Il Dittatore davanti agli occhi dell’umanità, con una “disperata serietà”, la semplice saggezza del piccolo pover’uomo, per cercare di renderla ancora desiderabile. Allora, “lui, che una volta era stato il più amato di tutto il mondo, non fu quasi più capito”[99].
È l’addio della leggendaria maschera: nei tempi moderni non rimane più posto per Charlot. Però, nel terzo millennio, post-moderno?, i suoi film restaurati sono di nuovo riproposti in serie.
Note
[96] J.-P. Sartre, Écrits de jeunesse, a c. di M. Contat e M. Rybalka, Gallimard, Paris 1990, p. 403.
[97] Restaurata dalla Cineteca di Bologna, per un doppio dvd prodotto da Mk2 Editions e Warner Bros.
[98] Trad. it. in Il futuro alle spalle, a c. di L. Ritter Santini, Il Mulino, Bologna 1981, pp. 272-273.
[99] Ivi, p. 274.