L’impalcatura istituzionale dell’eurozona è retta da una cornice deflazionistica e neo-mercantilistica, ovvero è basata sull’idea la crescita economica è essenzialmente trainata dalle esportazioni e sul binomio austerità/flessibilità del lavoro. A venti anni di distanza dall’entrata in vigore dell’euro questo nucleo teorico non è stato scalfito, nonostante le reiterate crisi che hanno quasi messo in discussione il progetto della moneta unica. L’inflazione è una sfida per l’Eurozona (e per l’Italia) anche perché deteriora le ragioni di scambio nel commercio internazionale, rendendo meno conveniente l’acquisto dei nostri prodotti all’estero.
L’inflazione è anche alimentata dalla speculazione finanziaria, nella fattispecie sui derivati dei prodotti energetici. Occorrerebbe anche un intervento su questo fronte, spostando l’onere dell’aggiustamento – sotto il profilo fiscale – ai percettori di rendite finanziarie. D’altra parte i salari reali non aumentano perché non è previsto che aumentino. Il modello contrattuale italiano stabilisce che i contratti nazionali traguardino l’inflazione – ovvero che i salari reali non crescano.
E demanda la crescita dei salari reali ai contratti aziendali o territoriali; i quali però toccano a stento il 30% dei dipendenti privati.
Dunque per il 70% o più dei dipendenti privati il potere d’acquisto dei salari è ancorato ad eterno al valore del 1993, anno di varo di questo modello contrattuale.
Vi è poi da considerare che l’area della sofferenza sociale si è molto dilatata negli ultimi anni. Ci si riferisce al lavoro povero e iper-flessibile oltre che alla condizione dei disoccupati. E’ da scongiurare il fatto che l’inflazione diventi un pretesto per una nuova stagione di attacco al welfare e ai diritti dei lavoratori.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 4 gennaio 2022]