Il tempo che viviamo è un tempo così. Perché quando i tempi sono complessi, complicati, il non sapere diventa condizione strutturale tanto a livello soggettivo quanto a livello collettivo. Ma forse in questo tempo nostro, l’ansia e lo stravolgimento dei processi della conoscenza sono determinati non tanto, o comunque non solo, dalle cose che sono sconosciute, quanto, e probabilmente soprattutto, dal vertiginoso trasformarsi delle cose che conosciamo o che presumiamo di conoscere. I significati ai quali ci si affida, gradualmente o all’improvviso si rivelano inadeguati. Nelle nostre esistenze si propongono, o irrompono, storie del tutto nuove, mai vissute prima e molto spesso mai neppure immaginate. La stessa cosa accade per fatti e fenomeni sociali, culturali. Gli interrogativi si ingigantiscono e le risposte sono sempre insoddisfacenti, qualche vota perfino banali. Quelli che abbiamo considerato come punti di riferimento si sgretolano oppure si fanno inattuali. Quelli che abbiamo considerato come valori indiscutibili, domandano prepotentemente di essere discussi e rifondati.
Allora si avverte il bisogno, l’urgenza di rimettersi a cercare. Si avverte il bisogno, l’urgenza, di riconsiderare non solo le modalità della ricerca ma anche i suoi obiettivi, le sue finalità. Qualche volta può anche accadere che non si sappia nemmeno che cosa cercare, che non si sappia da dove cominciare, verso quale direzione sia corretto procedere.
Allora, sulla soglia dell’incertezza, dell’incognita, del non sapere, si ripetono quelle due paroline: non so. Ma probabilmente sono quelle due paroline che in questo tempo, più che in ogni altro tempo, costituiscono il senso e il metodo del cercare: due paroline che smuovono la coscienza e spingono ad una nuova intrapresa, all’attraversamento avventuroso di territori sconosciuti, al cammino verso orizzonti nebulosi ma spesso seducenti. Allora si sente il coraggio anche di rinunciare alle certezze, al sapere acquisito, alle formule rassicuranti, di scombinare e ricombinare significati, di scomporre e ricomporre forme culturali, di rimodulare i contesti che abitiamo, di riconfigurare il nostro immaginario, di attribuire sensi nuovi alle nostre storie.
Rimettersi alla ricerca significa anche rendersi disponibili a confrontarsi con lo stupore provocato da conoscenze nuove, con lo sbalordimento, l’entusiasmo, o anche, a volte, la paura che da quelle conoscenze può derivare.
Probabilmente, lo sviluppo delle civiltà, il loro progresso, sono stati la conseguenza di quella consapevolezza sintetizzata dalle due paroline: non so. Ogni disvelamento dei misteri del tempo, dell’universo, o semplicemente (o complicatamente) di quelli che si manifestano all’improvviso nello scorrere di un giorno qualsiasi, è stato la conseguenza di una ricerca determinata dall’esperienza della scoperta di non sapere, dall’essersi detto non so cosa accade, per quale motivo accade. Ogni conoscenza comincia con quelle due paroline e con quelle due paroline si sviluppa e progredisce. Ogni conoscenza, ogni scienza: anche, e forse soprattutto, la scienza più difficile, più complicata, quella che si sottrae ad ogni previsione, ad ogni calcolo, a qualsiasi logica, argomentazione, dimostrazione, che più di ogni altra è sottoposta al dominio dell’imprevisto, e che si chiama scienza di esistere. La più imperfetta e inesatta e meravigliosa delle scienze.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 2 gennaio 2022]