di Antonio Errico
In un passaggio del discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel nel 1996, Wislawa Szymborska disse così: “Apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra”.
Poi, riferendosi a Newton disse che se non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino “sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto”.
Poi, un altro esempio: “Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non
si fosse detta “non so” sarebbe sicuramente
diventata
insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo
questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la
condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone
di animo inquieto ed eternamente alla ricerca”.
Non sapere è la condizione che dà impulso alla ricerca, a quella esperienza che coinvolge tutti, ogni giorno. Non sapere è consapevolezza dell’incertezza che impaurisce ed affascina.
Ci sono tempi che consentono l’attesa di una maturazione della conoscenza: si può aspettare che si apprendano le cose, si avverte quasi una sorta di serenità nei confronti di quello che non si conosce e dell’attesa che la conoscenza si realizzi.
Ci sono tempi in cui il non conoscere scatena ansie, provoca apprensioni che mettono in crisi i criteri, le logiche, i metodi con cui si realizzano i processi e i percorsi del conoscere, gli stessi strumenti del conoscere.