2. Brevissima storia dei “film di paura”
Come nascono questi generi? Ricostruiamone un po’ il lessico, sulla base della sitografia aggiornata. L’espressione noir fu coniata dalla critica cinematografica francese alla fine della Seconda guerra mondiale, quando oltralpe furono distribuiti i film statunitensi girati a cavallo degli anni Quaranta. L’aggettivo noir fa riferimento alla cupezza di queste pellicole, sia per quel che riguarda il loro contenuto, sia per gli aspetti di carattere prettamente formale, come il forte uso del chiaroscuro, che rimandano al cinema espressionistico tedesco di Fritz Lang e di Friedrich W. Murnau. Ma il termine noir in Francia nacque, storicamente, per il colore nero delle copertine dei libri polizieschi ai quali Gallimard dedicò una collana che, quando si avviò nel 1944, su suggerimento di Jacques Prévert, si chiamò série noire. Ma è chiaro che anche il colore della copertina era nero perché sanciva una identificazione terminologica oramai consolidata. Ricordiamo, a latere, che in Italia pure il termine giallo derivò dal colore della copertina dei polizieschi pubblicati da Mondadori negli anni Trenta. Negli anni Ottanta e Novanta, il noir è tornato di moda mischiandosi ad altri generi. Ad esempio, il fantascientifico Blade Runner viene considerato come neo-noir o noir-postmoderno.
Il film thriller si sviluppa attraverso una trama incentrata su casi di omicidio senza soluzione, oppure risolti con vuoti che sono colmati nel finale. Un film thriller, naturalmente, può sfociare anche nel genere horror.
La fantascienza apocalittica è un genere interno alla fantascienza, incentrato sull’imminente fine della civiltà, a causa di guerre nucleari, epidemie e disastri naturale o artificiali. Un sottogruppo del genere apocalittico è rappresentato dal filone catastrofista. Nella fantascienza “passatista” o nell’horror può essere inserito il prolifico filone delle “mummie”.
Uno dei più antichi di questi generi è quello dedicato ai vampiri. Dobbiamo andare al 1896 e troviamo Méliès che, in un cortometraggio, presenta un pipistrello diabolico. Les vampires è il titolo di una serie di film del 1915 realizzata da un altro francese, Louis Fevillade. Del 5 marzo 1922 è la prima proiezione del classico Nosferatu il vampiro, diretto da Murnau. E così via sino al sonoro, quando il regista Tod Browning e l’interprete Bela Lugosi lanciano il personaggio di Dracula ripreso più volte con attori che si specializzano nella parte, come Christopher Lee. Se è permessa una divagazione, va detto che su film di questo genere si è esercitata anche tanta ironia e tanto sarcasmo che il Fantozzi de Il secondo tragico Fantozzi, per essere assunto deve dimostrare una competenza di cinefilo assoluta, comprensiva anche di Nosferatu, salvo poi a esplodere nella storica reazione: “Per me La Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca”.
Chiusa la piccola interpolazione ludica, più articolato è il tema dell’incubo e della allucinazioni. L’“ora del lupo”, cioè lo spazio che va dal cuore della notte all’alba, è l’ora degli incubi, dei sudori, delle morti sognate o reali. È l’ora in cui il lato scuro ch’è dentro di noi ci devasta. È, quindi, un tempo presente nell’immaginario e nel vissuto di Ingmar Bergman che all’ora del lupo dedicò un film a cui è dedicato un altro capitolo di questo volume.
Ma anche il tema del “doppio” può rientrare nel filone della paura. Pensiamo a Il gabinetto del dottor Caligari, un muto del 1920 del tedesco R. Wiene, dove entra il tema del doppio, della distinzione tra vero, incubo e realtà. Su Dr. Jekyll e Mr. Hyde chi scrive ha già parlato altrove, riferendosi al film di Robertson del 1920[94]. Ognuno ha il proprio “lato oscuro”. Ritorna la dimensione onirica che nel racconto di Stevenson è usata con estrema parsimonia. Nella sceneggiatura del film, serrata e avvincente, il protagonista, contro la perdizione, lascia “in ostaggio la sua anima”. E fa portare “uno specchio a figura intera”. Che vuol dire a “figura intera”, se non una figura speculare che rifletta il finto doppio? Sono tante domande a cui non possiamo dare risposta perché da Stevenson a Robertson-Beranger, regista e sceneggiatore del film, si era introdotta una “zeppa” rilevante: quella della psicoanalisi freudiana, che l’autore non poteva prevedere.
Il pulp ha origini più recenti. A metà degli anni Novanta un gruppo di scrittori italiani è stato etichettato con la definizione di “cannibali” per il crudo realismo dei loro romanzi. È stato ripetutamente detto che erroneamente oggi si tende a indicare con il termine pulp tutte quelle pellicole che propongono contenuti forti e che abbondano di crimini ed efferatezze, in particolar modo dopo l’uscita nel 1994 del film PulpFiction di Quentin Tarantino. Praticamente tutta la produzione di Quentin Tarantino è considerata pulp, tanto che spesso si usa il termine tarantiniano come sinonimo di pulp.
Parimenti va qui tenuta in conto la paura consumata tramite i film sugli esorcismi e gli anticristo. La commistione tra horror, sacro e religione vede il suo inizio nel 1973, con The Exorcist, che, guarda caso, ha come protagonista Max von Sydov, il cavaliere de Il settimo sigillo e de L’ora del lupo, affiancato da altri pregevoli attori anche di film western (Lee J. Coob). Il regista William Friedkin localizzerà la sua produzione sempre all’interno del genere dell’orrore; l’attrice Linda Blair farà tre film della serie. Il tema è quello del “possesso” da parte di Satana. Per usare una metafora, pare che si sia scambiata l’“ora nona” – vale a dire le tre pomeridiane, l’ora nella quale Cristo, morendo in croce, ridiede all’uomo, nella prospettiva della teologia e della fede, la vittoria sulla morte e la vera vita – con l’“ora del lupo”, l’ora della paura, del terrore, degli incubi, della morte senza riscatto[95]. Talvolta avviene che si banalizzino questi fatti archetipici e inconsci e se ne faccia una vulgata mortificante culturalmente, ma produttiva dal punto di vista commerciale, camuffando domande vitali con quella pulsione al cruento, all’irrazionale, al subumano che attraversa ognuno di noi.
3. Perché? Per chi?
Finale con quesito: da dove deriva questa offerta che, nel mercato globale, risponde ad una domanda di paura? Fascinazione della paura e della sofferenza, cioè moderne, inconsce versioni della voluptas dolendi o, addirittura, del cupio dissolvi?
Sicuramente potrà esser questo, ma non solo. Pensiamo alla violenza, all’antropofagia presenti nelle fiabe per bambini. Quali finalità hanno? Servono a colmare la fantasia? Servono ad educare spaventando (l’Uomo nero, il Lupo, l’Orco, la Regina cattiva)? Ma ancora oggi, mentre scriviamo, la rivista per bambini del mitico “Scooby-Doo!”, “speciale vacanze” 2010, ha per tema in copertina “Un’estate da brividi”, poi all’interno: “I ragazzi dovranno indagare in un luna park da brividi”, “lo schedario dei mostri” “colori spaventosi” “caccia alla paura”… La psicoanalisi, su questo tema ha scritto parecchio, naturalmente evidenziando il ruolo dell’inconscio. L’intenzione di quelle favole o di quel propinare mostri e paure era di far crescere l’immaginario infantile e, contemporaneamente, di creare in esso spazi di insicurezza compensata e frenata dalla presenza stabilizzante dell’adulto-narratore e dai luoghi nei quali la narrazione avviene (casa, scuola…).
Anche la paura fruita tramite il cinema ha qualcosa di rassicurante: è una pauraconsapevolmente virtuale, in vitro, che noi creiamo, consumiamo e dissolviamo. Serve a distrarci dalle vere paure: quella della verità e quella della morte, che in sostanza sono due facce della stessa paura. Così per il cinema, come per le fiabe infantili, funziona il “C’era una volta”. Pure il Luna Park, per molti aspetti, rientra in questa domanda e questo consumo di paura. Che l’industria abbia adottato la mimetizzazione del terrore anche sotto vesti para-infantili è oramai fatto compiuto. Un esempio: il film d’animazione, di G. Kenan, Monster House, del 2006, definito “giallo d’animazione in chiave dark”.
Ma la costruzione cinematografica di paura potrebbe avere insospettati aspetti e funzioni positive prodotte dalla oggettivazione e dal governo del negativo nel “fantastico estetico”. Era la funzione catartica che Aristotele assegnava alla tragedia. La rappresentazione delle passioni – e la paura è una passione – produce la liberazione di/da esse. Se anche il cinema rientrasse in una poetica catartica aggiornata, potremmo dire che assolverebbe ad una funzione profondamente filosofica, perché utilizzare la ragione significa anche ridimensionare le paure esistenziali.
Nondimeno dobbiamo essere grati a questi generi filmici se hanno dato attori come Boris Karloff, il mitico Jean Gabin dei noir, Vincent Price, Bela Lugosi, Christopher Lee e registi come Friedrich W. Murnau, Alfred Hicthcok, Dario Argento, Quentin Tarantino… Solo per citare quelli conosciuti da larghe masse di pubblico.
Però questa nota va chiusa con una domanda “strutturale”. Se è presente una forte domanda cinematografica di “paura”, ciò avviene perché è il nostro immaginario a produrre la domanda di certi consumi o è il mercato, cioè l’“industria” cinematografica, che produce l’immaginario che a sua volta…?
Forse siamo ancora al dilemma archetipico dell’uovo e della gallina oppure, seguendo l’esempio aristotelico, lo struzzo.
Ma potremmo azzardare un conclusione personale. La questione è di quantità e non di “genere”. Se si producono tanti film di paura è perché il mercato produce un immaginario che ha bisogno di certezze per coprire l’angoscia generata dalla paura e la paura generata dall’angoscia esistenziale. La certezza che la paura possa essere governata parla, forse, anche di un bisogno indotto di “essere governati”. Per avere certezze costruite da altri.
Note
[94]Il falso doppio. Riflessioni su “Dr. Jekyll and Mr. Hyde” di J. S. Robertson, in Il falso. Immagini sul vero-simile, a c. di M. Maisetti, F. Mazzei, L. Vitalone, Cinema e psicoanalisi, Milano 2006, pp. 85-91; poi in G. Invitto, Idee e schermi bianchi, cit., pp. 101-116.
[95] Cfr. Dall’ora nona all’ora del lupo: l’ibridazione dolosa. Figure dell’Anticristo nel cinema, ivi, pp. 69-100.