La linea meridionale nella poesia italiana del Novecento

Talvolta il poeta moderno è eloquente […] sembra, cioè, che discorra col mondo raccolto in un paesaggio ristretto (la sua terra): eloquente, anche se il suo tono è basso, familiare. Sono uomini del Sud, spesso; della Lucania, degli Abruzzi, delle Puglie, delle isole, ma anche del Piemonte, del Veneto, che, avuta una eredità terragna e feudale, aprono i loro dialoghi dritti e netti sulla loro sorte. Non hanno infanzia, né memoria di essa, ma catene ancora da rompere e concrete realtà per entrare nella vita culturale della nazione. Le muse dei boschi e delle valli tacciono in loro: rigurgitano invece i boati delle frane e delle alluvioni per le loro mitologie contadine. Faremo un giorno una carta poetica del Sud; e non importa se toccherà la Magna Grecia ancora, il suo cielo sopra immagini imperturbabili d’innocenza e di sensi accecanti. Là, forse, sta nascendo la ‘permanenza’ della poesia[3].

E proprio a Quasimodo, che veniva da lui definito «iniziatore della poesia meridionale», il leccese Vittorio Bodini dedicava ancora, nel 1955, un importante articolo, nel quale osservava che:

 le sue parole raggiunsero paesi e oggetti reali, che erano d’un territorio vergine nella geografia lirica italiana: il Mezzogiorno, anzi il Sud […] Quasimodo ha dunque riscattato alla poesia di una nazione luminosa e sensibile (non già nordica e astratta) un territorio che rappresenta più di un terzo della sua superficie[4].

         Sempre Bodini, sul primo numero della rivista «L’esperienza poetica», da lui fondata nel 1954,  recensendo l’antologia curata da Luciano Anceschi e Sergio Antonielli, Lirica del Novecento,  uscita l’anno prima[5], accoglieva la proposta di Anceschi di distinguere  due gruppi all’interno dell’ermetismo:

quello dei poeti che accettato il linguaggio poetico della triade Campana-Ungaretti-Montale, lo derivarono verso soluzioni di sensibilità, o d’idillio o di musica (Gatto, Sinisgalli, Penna, De Libero), affinandolo ciascuno secondo le proprie disposizioni, e un secondo gruppo  –  una destra, diremmo – caratterizzato da una superfetazione culturale e da un ritorno […] all’estetismo verbale su una labile trama per mosaico, alle parole di lusso, al neodannunzianesimo, in una parola, sia pure attraverso Ronsard, e non Petrarca, ma i cinquecentisti[6].

 Questi due gruppi, secondo Bodini, si erano progressivamente staccati l’uno dall’altro, dando vita a due linee poetiche e geografiche al tempo stesso: la linea fiorentina e quella meridionale. In questo secondo gruppo, verso il quale andavano chiaramente le sue preferenze, Bodini inseriva Quasimodo, che peraltro aveva invitato a collaborare alla sua rivista, come pure aveva fatto con altri poeti meridionali o centro-meridionali provenienti dall’ermetismo, già citati da Contini, quali Gatto, Sinisgalli e De Libero.

Queste citazioni, alle quali altre ancora se ne potrebbero aggiungere, battono tutte sul tasto della novità rappresentata dal fenomeno della poesia meridionale, chiaramente individuato e distinto, durante e dopo l’ermetismo. Ovviamente occorre fare le dovute distinzioni. E una si impone prima di ogni altra. Non certo quella tra ermetici e realisti (o neorealisti), rifiutata già, come s’è visto, dai diretti interessati, ma un’altra messa in luce da Elio Filippo Accrocca. Questi, in un articolo su Bodini, accanto alla linea poetica meridionale di tipo «tradizionale» (Quasimodo, Gatto, Sinisgalli e, potremmo aggiungere, il pugliese Raffaele Carrieri), «poeti meridionali ma trapiantati altrove, i quali riflettono la memoria del Sud», individuava «una nuova linea di poeti che dal meridione riflettono o tentano di riflettere una più diretta realtà, sia in senso linguistico sia nel senso di un maggiore accostamento alle immagini tipiche di determinate regioni meridionali»[7].

In questa nuova linea poetica meridionale, che proponeva di chiamare «autoctona» per la presenza in loco dei poeti, accanto ai pugliesi Bodini e Vittore Fiore, Accrocca inseriva anche il lucano Rocco Scotellaro «per l’immediatezza delle ragioni che fomentano il canto e per la carica di emotività che distingue questa seconda linea dall’altra di una meridionalità di ritorno»[8].

 Questo però non vuol dire che tra i due gruppi non esistano punti di contatto. Alla base di questa esperienza deve essere fissata, infatti, una comune matrice di tipo antropologico, che si rivela nella presenza generalizzata, in tutti questi poeti, di alcuni elementi caratteristici, se non propri costitutivi, come vedremo, della civiltà e della cultura meridionali.

D’altra parte, è bene ricordare che proprio i cosiddetti ermetici meridionali, segnatamente Quasimodo e Gatto, furono i principali protagonisti della svolta avvenuta intorno alla metà degli anni Quaranta, allorché, come è stato osservato, maturò «una maggiore apertura di discorso e insieme una particolare attenzione ai dati umani e sociali che nel decennio precedente restavano assai remoti, recisi quasi del tutto dai suoi interessi privilegiati»[9]. Secondo Renato Aymone, «ciò che muta, essenzialmente, nell’indirizzo poetico degli ermetici meridionali si può riassumere nel grado di attenzione verso la realtà sociale del Mezzogiorno, alla sua realtà in genere, assai più sviluppato rispetto agli anni precedenti, e nell’intenzionale assunzione del filtro ideologico nell’osservare questa realtà»[10].

Forse non sarà inutile richiamare alcune date relative a questa vicenda. Tra il 1938 e il 1943, Quasimodo, Gatto e Sinisgalli raccoglievano in un unico volume tutta la loro produzione ermetica stricto sensu: Quasimodo, in Poesie del 1938 e poi in Ed è subito sera del 1942; Gatto, in Poesie del 1941; Sinisgalli, in Vidi le Muse del 1943. Negli anni seguenti videro la luce quei libri che segnarono una svolta appunto, o rappresentarono comunque una evoluzione, nell’iter poetico dei rispettivi autori: Giorno dopo giorno, nel 1947, e La vita non è sogno, nel 1949, di Quasimodo; Amore della vita, nel 1944, e Il capo sulla neve, nel 1947, di Gatto; I nuovi Campi Elisi, nel 1947, Quadernetto alla polvere, nel 1948, e la prima edizione de La vigna verde, nel 1952, di Sinisgalli. E di quegli stessi anni, sono anche alcuni libri di prose: La sposa bambina, del 1943, di Gatto; Fiori pari fiori dispari, del 1945,  Belliboschi, del 1948, Furor mathematicus, del 1950 di Sinisgalli. Inoltre Raffaele Carrieri, noto fino ad allora come narratore e critico d’arte, esordì come poeta nel 1945 con la raccolta Il lamento del gabelliere, mentre nel 1949 pubblicò Souvenir caporale e nel 1949 La civetta. Nel 1952 uscì ancora La luna dei Borboni di Vittorio Bodini che quattro anni dopo, nel 1956, pubblicò Dopo la luna, mentre nel 1954 apparve postuma la raccolta di Rocco Scotellaro, morto l’anno prima, È fatto giorno. Sono soprattutto questi gli autori e i testi che permettono di parlare dell’esistenza di una linea meridionale della poesia italiana del Novecento, della quale ci proponiamo di delineare nel presente articolo temi e caratteristiche principali.

         Il primo, e più generale, motivo comune a questi poeti, al quale tutti gli altri devono essere poi ricondotti, è quello “del Sud”, vero e proprio tema lirico-narrativo, che secondo Aymone

ha il preciso compito di rivelare attraverso la comunicazione poetica la propria storia e di integrarla all’interno di una più ampia coscienza collettiva. Descrivendosi, il Sud non solo si sforza di ritrovarsi, ma di ritrovarsi esattamente in una diversa e più ampia dimensione storica, di superare quel grado  di alienazione non solo da sé ma pure da un resto dell’Italia e dell’Europa in cui rischia perpetuamente di ritrovarsi votato al silenzio e all’emarginazione[11].

Sono numerosi gli esempi che si potrebbero portare a questo proposito. E incominciamo con il Lamento per il Sud di Quasimodo, compreso nella raccolta La vita non è sogno,  dove il ritorno consueto, col pensiero, alla terra d’origine non è solo ormai la proiezione della propria vicenda interiore ma si carica di una riflessione sulla storia del Mezzogiorno, sul passato di miserie e di sopraffazioni, di sofferenze e di dolori della gente del Sud, espressa, sia pure, con una certa dose di enfasi e di oratoria:

Più nessuno mi porterà nel Sud.

Oh, il Sud è stanco di trascinare morti

in riva alle paludi di malaria,

è stanco di solitudine, stanco di catene,

è stanco nella sua bocca

delle bestemmie di tutte le razze

[…]

Più nessuno mi porterà nel Sud[12].

            A questa poesia si può accostare, anche per il comune andamento iterativo, Appunti per una litania (1948) di Scotellaro, che figura nella raccolta Margherite e rosolacci (1978), dichiarazione di intima adesione e di completa identificazione del poeta con la propria terra e con la propria gente. Qui  il termine Sud è ripetuto per ben otto volte:

Sud è il mio amore, sono gli aratori,

nell’ombra delle quercie o sulle aie,

dormono legati alle cavezze

delle cavalle baie

[…]

Sud è bambini che piangono

nelle bocche dei vicoli abbandonati    

[…]

Sud è l’amore condannato

[…]

Sud è il mio più strano amore

[…]

Sud è la canzone dei primordi

[…]

E sud è mio nonno

mio padre e mia madre

e sud è il soldato di New York

che vi gira col casco sulle spalle,

lui figlio melenso in casa natia,

e sud sono anch’io

che canto la litania… [13]

            Questo termine, in Bodini, compare assai frequentemente, spesso in contrapposizione, geografica e ideale, al ‘Nord’, fin dalla prima delle Foglie si tabacco (1945-1947), che figurano all’inizio della raccolta La luna dei Borboni:

Tu non conosci il Sud, le case di calce

da cui uscivamo al sole come numeri

dalla faccia d’un dado[14];

dove il Sud è già associato a una condizione esistenziale, alla casualità dell’esistere, dell’ ‘esserci’ sulla terra.

In tutti questi poeti il Sud si specifica ulteriormente con la propria regione d’origine. In Quasimodo, ad esempio, il motivo della propria terra, storicamente e geograficamente determinato nella natia Sicilia, ricorre costantemente in tutto l’arco della sua produzione, da Acque e terre (1930) fino a Dare e avere (1966), anche se assume connotazioni diverse a seconda dei vari periodi, in rapporto alle particolari scelte ideologiche e di poetica dell’autore.

Questo tema emerge già nella prima raccolta di versi,  Acque e terre, pubblicata nel 1930, nelle Edizioni di “Solaria”, a Firenze, dove il poeta si era trasferito l’anno prima, allontanandosi per sempre dalla Sicilia, di cui gli era rimasta nel sangue un’acuta nostalgia. Ecco allora che i luoghi incantati della sua infanzia e della prima giovinezza, vissute in piena armonia con la natura, si affacciano improvvisamente alla memoria e assumono il significato di un bene irrimediabilmente perduto, di una sorta di Eden che si contrappone alla infelicità del presente. È, questo, lo spunto iniziale di Vento a Tindari, una delle sue più celebri composizioni, in cui l’improvviso riaffiorare alla memoria di una gita domenicale, compiuta in una località collinosa della provincia di Messina, Tindari, in compagnia di una «brigata» di amici, diventa, per il poeta ormai lontano da essa, l’occasione per riflettere sulla condizione di «esilio» in cui vive ora, caratterizzata da un’«ansia precoce di morire» e dalla «tristezza»:

Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te

d’armonia oggi si muta

in ansia precoce di morire;

e ogni amore è schermo alla tristezza,

tacito passo nel buio

dove mi hai posto

amaro pane a rompere[15].

Ma una vera e propria svolta nell’attività letteraria di Quasimodo si ha soltanto negli anni dell’immediato dopoguerra con la raccolta Giorno dopo giorno, allorché, nel poeta siciliano e in genere negli ermetici meridionali, matura, come s’è accennato, l’esigenza di una maggiore apertura comunicativa e, al tempo stesso, un’attenzione ai dati umani  e sociali della realtà. La sua poesia allora da lirica si fa corale ed epica e non disdegna di affrontare temi tratti dalla storia e finanche dalla cronaca, con un totale impegno etico e civile. Anche l’immagine della Sicilia cambia e un duro senso del reale prende il posto degli elementi favolosi e mitici, della trasfigurazione fantastica a cui il poeta aveva sottoposto la sua terra. L’ «isola di Ulisse» diventa ora il simbolo dell’intero Sud, e, non a caso, questo termine, più ampio e generale, balza in primo piano e prende il posto dell’altro. Si legga, ad esempio, la strofa finale di A me pellegrino, dove, accanto al motivo della ‘lontananza’ della sua terra, c’è l’allusione alla lunga storia di lutti e di dolore del Sud:

La nostra terra è lontana, nel sud,

calda di lacrime e di lutti. Donne,

laggiù, nei neri scialli

parlano a mezza voce della morte

sugli usci delle case[16].

Nelle poesie di Sinisgalli e di Scotellaro è invece la Lucania che compare costantemente, ma con una differenza sostanziale tra i due poeti. Mentre in Sinisgalli essa è immersa in una dimensione mitica, arcaica, fuori del tempo, perennemente associata alla magica stagione dell’infanzia, considerata come un momento di irrepetibile beatitudine, la Lucania di Scotellaro è invece anche una terra viva e dolorosamente concreta, con innumerevoli problemi di varia natura. Per il primo è sufficiente citare alcuni versi della lunga composizione Lucania, tratta dalla raccolta I nuovi Campi Elisi :

Lo spirito del silenzio sta nei luoghi

della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto,

sofistico e d’oro, problematico e sottile,

divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio

nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce

con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati[17].

         Per Scotellaro riportiamo invece la giovanile  poesia Lucania, compresa nella prima sezione, Saluto, della raccolta È fatto giorno, influenzata ancora chiaramente dall’ermetismo nella ripresa di stilemi tipici e nella estrema sintesi espressiva:

M’accompagna lo zirlìo dei grilli

e il suono del campano al collo

d’un’inquieta capretta.

Il vento mi fascia di sottilissimi nastri d’argento

e là nell’ombra delle nubi sperduto,

giace in frantumi un paesetto lucano[18].

         Per quanto riguarda Bodini, il Sud equivale al suo Salento, del quale quel termine, come è stato osservato, è un iperonimo. Assai significativa è Nella penisola salentina, tratta da Dopo la luna, in cui sono evocate le leggende, le tradizioni della sua terra, e in cui il glorioso passato è contrapposto allo stato di miseria e di abbandono del  presente:

L’amore era una lettera trovata

nel tronco di un olivo; l’amicizia

il capello spaccato in due, soffiato

nel vento, e la morte

il dente che si serba per il giorno

del Giudizio.

Qui c’erano accademie

e monaci sapientissimi:

o città gloriose

di sporcizia e abbandono!

Nel mattino senz’uomini allattano i figli

Le donne sulle porte o lungamente

si pettinano.

E che neri capelli, che capelli

che non finiscono mai,

fra quelle bianche case con le file

di zucche gialle sulle cornici!

Su un mucchio d’immondizie un gatto feroce

rosicchiava una lisca madreperlacea

guardando avvicinarsi il forestiero

con due occhi terribili[19].

         Ma frequentissimi sono anche, in tutti i poeti meridionali, i richiami alla storia, antica e recente, di queste terre, ai lontani abitatori, ai vari popoli che le invasero e le sottomisero. Emerge così una storia fatta di grandezze e di miserie, di eroismi e ribellioni, della quale affiorano talvolta i tragici segni nel desolato paesaggio circostante: «Spuntano ai pali ancora / le teste dei briganti… »[20], scrive Scotellaro in Sempre nuova è l’alba, alludendo al fenomeno del brigantaggio che caratterizzò il Sud d’Italia nell’Ottocento. È, questo, un altro elemento in comune a questi poeti, nei quali il sentimento di nostalgia verso un passato favoloso si unisce all’orgoglio di appartenere a una razza antichissima, che affonda le radici nella preistoria, se non proprio nella leggenda, nel mito: «“I miei avi hanno forse conosciuto l’Atlantide”»[21], scrive addirittura Sinisgalli con un pizzico d’orgoglio in una poesia intitolata Paese, compresa nella raccolta I nuovi Campi Elisi.

Anche in questo caso sarebbero numerosissimi i riscontri presenti nei versi di questi poeti. Ci limitiamo a indicarne soltanto qualcuno. Incominciamo dal tarantino Raffaele Carrieri, che in Chi è passato prima di me, che fa parte del Lamento del gabelliere, allude alle tracce evidenti lasciate sul territorio dagli antichi abitatori della Magna Grecia. Ecco la prima strofa:

Chi è passato prima di me

di me ha lasciato orma.

Rintraccio l’esile forma

del piede che fu mio

tra il terzo e il quarto

secolo e corse questi lidi

e si portò dall’altra parte

oltre le isole e gli uliveti

sulla rotta dei califfi[22].

Analogamente Bodini in Tutto un paese sorge contro un uomo si identifica quasi negli antichi antenati messapici dei quali restano le tombe in vari luoghi del Salento:

eppure il tempo non si vendica, serba una traccia

dell’antica fierezza che morì

nelle disabitate tombe sparse

fra questi scogli che corrode il mare

e lo zolfo di sommersi vulcani.

È lì che vaga la notte la tua anima

di uomo come me, di  me che credo

in quegli avi sepolti per tanti secoli

con un profilo come il mio

con cui guidavano

il corso delle navi e dei cavalli

e amavano pazienti donne dagli occhi d’uva[23].

Ecco ora un esempio di Scotellaro che, in Olimpiadi, rievoca le origini mitiche della sua terra:

I nostri padri furono fanciulli

che vennero a stare sui lidi, sui monti

e si misero a cantare.

In faccia al mar Jonio, nei giorni più lunghi

a Olimpia chiamavano il loro Dio,

erano dei la terra il cielo il mare,

e Omero li sentì, quel povero

che a Cuma chiese un truogolo di crusca[24].

In questo eloquente brano in prosa, dal titolo Le metafore del principe Venanzio, che fa parte della raccolta L’indovino, Sinisgalli elenca invece tutti i vari popoli che hanno abitato nei secoli la Lucania:

Io ritrovo nel loro sguardo e nel loro dialetto la storia dei terremoti a cui sono state perennemente soggette le pietre e le coscienze. Greci, romani, visigoti, goti, romani, longobardi, francesi, saraceni, normanni, svevi, andeganesi, aragonesi, spagnuoli, austriaci,,, Tanta confusione di lingue e di sangue, tante bilance, tanta afflizione[25].

Anche Quasimodo in una poesia compresa nel suo ultimo volume di versi, Dare e avere (1966),  Nell’ isola,  guarda alla vicenda millenaria della Sicilia, alla stratificazione di razze, di culture, di civiltà diverse (greci, svevi, spagnoli, arabi) che hanno contribuito al suo sviluppo e sembra  acquietarsi al pensiero della continuità della storia, del fluire inarrestabile delle vicende umane che trascende la vita dei singoli individui:

            Di tutte le mani che alzarono muri

            nell’isola, mani greche o sveve

            mani di Spagna mani saracene,

            muri del solleone e dell’autunno,

            di tutte le mani anonime e ornate

            di sigilli, vedo ora

            quelle che gettarono case

            sul mare di Trabia. Linee verticali,

            avvolgimenti dell’aria inclinati

            dalle foglie dell’acacia e dei mandorli [26].

            Così anche il ricordo dell’infanzia lontana si mescola col sentimento delle antiche civiltà sepolte, dando il senso della continuità della vita che sembra pullulare dalla morte:

            Oltre le case, laggiù, fra i lentischi

            delle lepri, c’è Solunto morta.

            Salivo quella collina un mattino

            con altri ragazzi lungo

            interni silenzi. Dovevo

ancora inventare la vita[27].

         Un altro elemento tipico della civiltà e della cultura meridionali, ampiamente presente in questi poeti, è il culto o la ‘religione’ dei morti, che sembra discendere direttamente dai remotissimi e misteriosi riti orfici e pitagorici della Magna Grecia. Nei poeti meridionali  la presenza dei morti nella vita quotidiana è un dato costante, quasi palpabile. Con i defunti perdura infatti, come scrive Sinisgalli nella prosa Il vaso rotto, che fa parte de L’indovino, «un’affettuosa corrispondenza»[28], che va oltre la morte. Non a caso Scotellaro usa spesso formule colloquiali per rivolgersi ad essi e salutarli. In L’acqua piovana, compresa in È fatto giorno, ad esempio, scrive così: «Salute miei parenti morti, / l’acqua piovana vi lava la faccia»[29].

         In Sinisgalli, questo motivo è presente già nella raccolta Campi Elisi, nella lirica omonima («Di là dalla dolce provincia dell’Agri / siete approdati alle rive sognate, / oscuri morti familiari»[30]), ma esso è ancora di più sviluppato in  I nuovi Campi Elisi, nelle poesie dedicate alla madre e alla sorella morte, Nessuna più mi consola, Epigrafe, 16 settembre 1943, e anche nelle prose. Tra il mondo dei vivi e quello dei defunti esiste una sostanziale continuità, che si rivela anche nel ripetersi periodico della vicenda biologico-naturale, alla quale sono soggetti inevitabilmente tutti i fenomeni, e quindi anche gli uomini, una volta esauritosi il loro ciclo vitale. Tra questi due mondi non esistono nemmeno separazioni e confini materali. Il cimitero è un posto come tutti gli altri, anzi, per Scotellaro, è uno dei più belli, «è il solo / giardino del paese» (Solitaria natura, II, Margherite e rosolacci)[31].

         Ma la presenza dei morti si manifesta anche nella persistenza delle loro anime, che sono costantemente in mezzo ai vivi, rimaste come ai margini di questo mondo, desiderose di ritornare ancora ai luoghi che hanno dovute abbandonare. «L’anime, che luoghi frequenteranno, quando tornano sulla terra? Son qui, sono anche qui, fra noi. Sono fra il pane e il coltello che scende a tagliarlo, fra la rosa e il contorno della rosa, nell’odore della cenere fredda»[32], scrive Bodini in una prosa intitolata Il Cane da anime. E Sinisgalli a sua volta, nel  ‘dialoghetto’ Il vaso rotto de L’indovino: «I defunti sono costretti a manifestarsi solo in certi luoghi e in particolari circostanze»[33].

Anche in Scotellaro le anime dei defunti si manifestano come possono: sui tetti delle case di notte, quando riprende la vita misteriosa dei «piccoli rumori», i quali altro non sono se non il respiro e il palpito di ogni cosa: «Sono sui tetti le anime / dei morti del vicinato / camminano sulle zampe dei gatti» (Camminano sulle zampe dei gatti)[34]. Oppure si manifestano in una «pietra che frange / l’aria, scagliata alla campagna», che è anch’essa «un’anima che cade / […] un’anima che piange» (Anche una pietra)[35]; o nella «lepre sul pianoro», che «fugge / come lo spirito riconosciuto» (Il cielo a bocca aperta)[36]; oppure ancora nei terribili latrati dei cani: «Mamma, scacciali codesti morti / se senti la mia pena nei lamenti / dei cani che non ti danno mai pace» (Le nenie)[37].

         Sempre nell’ambito di questa «realtà dell’invisibile»[38], tipica di una cultura contadina, nella quale l’elemento magico si fonde con quello religioso, rientrano le varie credenze, le superstizioni, le leggende popolari, che si incontrano così di frequente nei poeti meridionali. Si legga, ad esempio, Le foglie delle palme d’ulivo di Scotellaro, dove c’è il riferimento a un’antica usanza del giorno delle Palme, quella cioè, come spiega lo stesso poeta in una nota,  di  «sentire dalle foglie d’ulivo, date alla brace, il proprio destino e la sorte degli amori»[39]:

Sovrastano sguaiate cornacchie

sui fumi dei comignoli di marzo.

Accendiamo per le nostre zitelle

le foglie delle palme d’ulivo:

morse sobbalzano, anime penanti,

dicono di sì e di no

alle nostre turbate domande[40].

         In Quanta rabbia di esistere Bodini allude invece alla credenza in strane creature, che si divertono a fare scherzi annodando le code delle cavalle:

… Folletti che avevano

un buffo berrettuccio di capelli

attorcevano in trecce le code delle cavalle[41].

Sinisgalli ancora, in un brano tratto da Furor mathematicus, allude alla tradizione popolare di raffigurare la fine del carnevale con un pupazzo, chiamato la «Quaremma»,  che si appendeva alle finestre delle case:

La signora Quaresima che è un pupazzo messo in mostra alla finestra dal carnevale fino alle Ceneri è un’autentica pupa di pezza. È un’autentica pupa di pezza. È l’unica maschera di questi paesi tetri, una strega che ramazza, una strega ilare, una creatura spaesata. Un capricho![42]

         Un altro motivo riconducibile a una matrice antropologica, infine, è quello dei genitori, che ha un grande rilievo nei poeti meridionali. Questo motivo non può non richiamare, difatti, una concezione arcaica, tradizionale, della famiglia, tipica anch’essa di una società patriarcale e contadina. In Scotellaro, ad esempio, esiste una vera e propria mitologia del padre, che per il poeta resta, anche dopo la sua morte, un modello insostituibile, una guida perennemente valida. Questa figura è vista quasi in una dimensione rituale, se non addirittura sacrale («Padre mio, che sei nel fuoco, / che brulica al focolare», Padre mio [43]), ma, a volte, anche  con un  tono più confidenziale, forse proprio perché si tratta  di uno scomparso («papà mio bello / che stai di casa oltre la murata», Per il camposanto [44]). Per il poeta, il padre è colui che ha saputo dargli grandi e piccole lezioni di vita («mi rimandavi indietro sulla porta, / avevi ospiti e forestieri, / perché imparassi a dire buona sera», Per il camposanto [45]);  che lo ha messo in guardia dai pericoli del mondo («Attento, dicesti figlio mio, / in questo mondo maledetto», La benedizione del padre [46]); che ha offerto esempi inimitabili di abilità, di forza, di coraggio:

Mio padre misurava il piede destro

vendeva le scarpe fatte da maestro

nelle fiere piene di polvere.

   Tagliava con la roncella

   la suola come il pane

   una volta fece fuori le budella

   a un figlio di cane.

               (Mio padre [47]). 

            Anche in Sinisgalli la figura del padre è «tutta avvolta nel rito, parte del rito essa stessa»[48] fin dalla  poesia «Mi ricorderò di questo autunno», di Vidi le Muse:

Mio padre parlava di quel ciliegio

piantato il giorno delle nozze, mi diceva,

quest’anno non ha avuto fioritura,

e sognava di farne il letto nuziale a me primogenito [49].

            E anche nel poeta di Montemurro si nota talvolta l’adozione di formule tratte dalla liturgia cattolica, come in Padre mio:

Padre mio che sei

 sulla loggia dopo cena

e sonnecchi. Ti scuoti

al rumore dell’acqua

che dal barile è calata nei secchi.

Anna innaffia la terra

Delle fucsie materne.

Poi con la mano ti scaccia

I moscerini dalla faccia[50].

Anche Quasimodo attribuisce quasi una dignità sacerdotale alla figura paterna che viene rievocata nella famosa poesia Al padre (in La terra impareggiabile),  una sorta di omaggio che termina con la formula rituale di saluto che il campiere rivolge al padrone:

E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni

ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali

di partenza colorati dalla lanterna

notturna, e qui da una ruota

imperfetta del mondo,

su una piena di muri serrati,

lontano dai gelsomini d’Arabia

dove ancora tu sei, per dirti

ciò che non potevo un tempo – difficile affinità

di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo

cicale del Biviere, agavi lentischi, come il campiere dice al suo padrone:

«Baciamu li mani». Questo, non altro.

Oscuramente forte è la vita[51].

         Tra le poesie dedicata al padre da Alfonso Gatto, invece, citiamo A mio padre, compresa in Il capo sulla neve, in cui emerge il messaggio di pace e di serenità che il padre sapeva trasmettere ai figli:

Mi basterebbe che tu fossi vivo,

un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.

Ora alla terra è un’ombra la memoria

Della tua voce che diceva ai figli:

«Com’è bella la notte e com’è buona

Ad amarci così con l’aria in piena

Fin dentro al sonno». Tu vedevi il mondo

nel plenilunio sporgere a quel cielo

gli uomini incamminati verso l’alba[52].

Se la figura del padre viene inserito in una dimensione rituale da questi poeti, quella della madre è vista apparentemente in una luce più intima, familiare. Essa è descritta quasi sempre all’interno della casa, alle prese con le faccende domestiche, spesso accanto al focolare, intenta a un’occupazione umile e domestica: quella di tenere acceso il fuoco o di coprire la brace con un po’ di cenere. Si legga, ad esempio, Casa di Scotellaro:

Come hai potuto, mia madre, durare

gli anni alla cenere del focolare,

alla finestra non ti affacci più, mai.

E perdi le foglie, il marito e i figli lontani,

e la fede in dio t’è caduta dalle mani,

la casa è tua ora che te ne vai[53].

La stessa immagine si ritrova in Sinisgalli nella prosa Non è cambiato nulla, compresa in Belliboschi, nella quale la scomparsa della madre è preannunciata proprio dalla mancanza del fuoco che lei teneva costantemente acceso nel focolare, adempiendo quasi a un rito sacro, arcano, come un’antica vestale:

Ero arrivato a casa col caldo,  i balconi e le finestre erano tappati, un mucchi di cenere bianchiccia giaceva raccolta sotto il camino, sulla pietra dove i gatti stavano distesi a dormire. Quella grande buca vuota, in quel pomeriggio, vuota di fiamme in quella giornata d’afa, e le croste visibili della fuliggine furono per me l’avvertimento più doloroso della irreparabile sventura che aveva colpito casa nostra. Mia madre non avrebbe mai lasciato spegnere il fuoco, raffreddare la grande lastra di vivi sasso: mi accoglieva sempre seduta accanto al focolare, d’estate o d’inverno, le rare volte che negli ultimi anni io ritornavo vicino a lei, a lei che negli ultimi anni aveva i bordi larghi della veste un poco bruciacchiati[54].

         Anche Quasimodo dedica alla madre una celebre poesia, Lettera alla madre, compresa nella raccolta La vita non è sogno. Qui il poeta, ormai lontano dalla sua terra, immagina di scrivere alla madre, rievocando il momento del’abbandono dell’isola e riconoscendole le doti che l’hanno «salvato da pianti e dolori». La poesia si conclude con l’invocazione alla morte affinché non tocchi persone e cose a lui care:

… Ah gentile morte,

non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro,

tutta la mia infanzia è passata sullo smalto

del suo quadrante, su quei fiori dipinti:

non toccare le mani, il cuore dei vecchi.

Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,

morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dulcissima mater[55]

            Numerosissime sono infine le poesie dedicate da Carrieri alla madre, uno dei temi costanti della sua opera. Ad essa è intitolata addirittura una raccolta del 1967, composta in occasione della sua morte, La formica Maria, da cui  è tratta l’omonima poesia:

In vita meno pesava d’ogni cosa

la formica Maria.

Per trattenersi ancora

nella cucina della fattoria

il tempo fermò con l’ombra sua.

In vita pesava meno d’una piuma

la formica Maria.

E quando divenne muta,

per non lasciarmi solo

il silenzio col piombo rifuse.

In vita pesava meno d’una foglia

la formica Maria.

E quando divenne pietra

in sei furono a sollevarla

per portarla via[56]

Non vogliamo affermare, ovviamente, che il tema della famiglia è una prerogativa esclusiva di questi poeti, ma nello loro composizioni le figure dei genitori sono sempre rappresentate nei ruoli da essi ricoperti all’interno della società meridionale. Questo tema cioè si carica di una particolare connotazione antropologica e rinvia, ancora una volta, ai caratteri fondamentali di un territorio e di una civiltà.

[in Lingua e letteratura del Sud nell’Italia del Novecento. Atti del Convegno internazionale (Università diGöterborg. 13-15 settembre 2011), a cura di Ulla Åkerström, Roma, Aracne, 2013]


[1] G. CONTINI, Avvertenze al lettore di Sinisgalli, in L. SINISGALLI, Vidi le Muse, Mondadori, Milano 1943; ora in G. CONTINI, Altri esercizi (1942-1971), Einaudi, Torino 1978, p. 161.

[2] Su questo argomento ci sia concesso di rinviare ad alcuni nostri lavori che sono stati utilizzati nel presente articolo, e precisamente: Scotellaro e gli ermetici meridionali, in «Otto/Novecento», 2, marzo-aprile 1987, pp. 25-46, ora in A. L. GIANNONE, La  “permanenza” della poesia. Studi di letteratura meridionale tra Otto e Novecento, Capone, Cavallino di Lecce,1989, pp. e in Scotellaro trent’anni dopo, Atti del Convegno di studio (Tricarico – Matera, 27-29 maggio 1984), Matera, Basilicata ed.,  1991, pp. 345-366; Profilo di Rocco Scotellaro, in «Critica letteraria», a. XXX, fasc. IV, n.117/2002, Miscellanea di studi critici in memoria di Pompeo Giannantonio, II, pp. 867-888; Quasimodo, Bodini e l’ermetismo meridionale, in «Rivista di Letteratura Italiana», a. XXI, n.1-2, 2003, pp. 149-158; Scotellaro e Bodini, in «Oggi e domani», a. XXXII, n. 7-8, luglio-agosto 2004, pp. 27-28; Quasimodo e il Sud, in Quasimodo a Taranto, a cura di G. Iacovelli, ‘Italia Nostra’, Massafra 2008, pp. 11-23; Il Sud di Vittorio Bodini, in «Apulia», a. XXXVI, n. IV, dicembre 2010, pp. 111-114.

[3] S. QUASIMODO, Poesie e discorsi sulla poesia, a cura e con introduzione di G. Finzi, Mondadori, Milano 19 p. 288.

[4] V. BODINI, Quasimodo iniziatore della poesia meridionale. Le sue terre d’uomo, in «La Fiera letteraria», a. X, n. 29, 17 luglio 1955, p. 5.

[5] Vallecchi, Firenze 1953.

[6] V. BODINI, Quarant’anni di poesia, in «L’esperienza poetica», n. 1, gennaio-marzo 1954, p. 25.

[7] E.F. ACCROCCA, rec. a V. BODINI, Dopo la luna, in «La Fiera letteraria», a. IX, n. 43, 28 ottobre 1956; poi in Omaggio a Bodini, a cura di L. Mancino, Lacaita, Manduria 1972, p. 54.

[8] Ibid.

[9] R. AYMONE, Poeti ermetici meridionali, Palladio, Salerno 1981, p. 25.

[10] Ivi, p. 28.

[11] R. AYMONE, Vittorio Bodini. Poesia e poetica del Sud, Salerno, Edisud, 1980,  p. 41.

[12] S. QUASIMODO,  Poesie e discorsi sulla poesia, cit., p. 147.

[13] R. SCOTELLARO, Tutte le poesie 1940-1953, a cura di F. Vitelli, con Introduzione di M. Cucchi, Mondadori, Milano,  p. 242.

[14] V. BODINI, Tutte le poesie (1932-1970), a cura di O. Macrì, Mondadori, Milano 1983, p. 91.

[15] S. QUASIMODO, Poesie e discorsi sulla poesia  cit., p. 11.

[16] Ivi, p. 136.

[17] L. SINISGALLI, L’ellisse. Poesie 1932-1972, a cura di G. Pontiggia, Mondadori, Milano 1974,  p. 55.

[18] R. SCOTELLARO, Tutte le poesie 1940-1953  cit. , p. 12.

[19] V. Bodini, Tutte le poesie (1932-1970) cit., p. 121.

[20] R. Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953 cit., p. 67.

[21] L. Sinisgalli, I nuovi Campi Elisi. Poesie (1942-1946),  Mondadori, Milano 1947, p. 60

[22] R. Carrieri, Poesie scelte, a cura di G. Gramigna, Mondadori, Milano 1976, p. 15.

[23] V. BODINI, Tutte le poesie (1932-1970) cit., p. 111.

[24] R. SCOTELLARO, Tutte le poesie 1940-1953 cit., p. 74.

[25] L. SINISGALLI, Furor mathematicus, Mondadori, Milano 1950, p. 57.

[26] S. QUASIMODO, Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. 253.

[27] Ivi, p. 253.

[28] L. SINISGALLI, Furor mathematicus cit., p. 30

[29] R. SCOTELLARO, Tutte le poesie 1940-1953 cit., p. 38.

[30] L. SINISGALLI, L’ellisse. Poesie 1932-1972 cit., p. 44.

[31] R. SCOTELLARO, Tutte le poesie 1940-1953 cit., p. 169.

[32] V. BODINI, Il Cane da Anime, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 16 febbraio 1951; ora in V. BODINI, Corriere spagnolo (1947-54), a cura di A. L. Giannone, Besa, Nardò 1987, p. 75.

[33] L. SINISGALLI, Furor mathematicus cit., p. 29.

[34] R. SCOTELLARO, Tutte le poesie 1940-1953 cit., p. 82.

[35] Ivi, p. 89.

[36] Ibid.

[37] Ivi, p. 13.

[38] La definizione è di G. B. BRONZINI, Mito e realtà della civiltà contadina lucana, Montemurro, Matera 1977,  p. 261.

[39]  R. SCOTELLARO, Tutte le poesie 1940-1953 cit., p. 28.

[40] Ibid.

[41] V. BODINI, Tutte le poesie (1932-1970) cit., p.108.

[42] L. SINISGALLI, Furor mathematicus cit., p. 208.

[43] R. SCOTELLARO, Tutte le poesie 1940-1953 cit., p. 143.

[44] Ivi, p. 33.

[45] Ibid.

[46] Ivi, p. 34.

[47] Ivi, p. 36.

[48] G. MARIANI, L’orologio del Pincio. Leonardo Sinisgalli tra certezze e illusione, Bonacci, Roma 1981, p. 64.

[49] L. SINISGALLI, L’ellisse. Poesie 1932-1972, cit., p. 41.

[50] Ivi, p. 68.

[51] S. QUASIMODO, Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. 202.

[52] A. GATTO, Poesie (1929-1969), scelte dall’autore, con introduzione di L. Baldacci, Mondadori, Milano 1972, p. 103.

[53] R. SCOTELLARO, Tutte le poesie 1940-1953 cit., p 109.

[54] L. SINISGALLI, Prose di memorie e di invenzione, Leonardo da Vinci, Bari, 1964, p. 159.

[55] S. QUASIMODO, Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. 158.

[56] R. CARRIERI, Poesie scelte cit.,  p. 195.

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