I ricordi di un rivoluzionario: Pescando recuerdos di Enrique Oltuski

            Ma incominciamo a ripercorrere alcuni dei momenti principali di questo libro, partendo proprio dal brano che sta quasi all’inizio di esso, una sorta di prosa lirica, piuttosto diverso stilisticamente  dagli altri racconti, che spiega la genesi, se così si può dire, di questi  ricordi:

            Mi arrampicai sul tetto della cabina e mi stesi supino, guardando il cielo, di un azzurro molto chiaro, trasparente, solcato da piccole nubi bianche, che però non apparivano molto bianche perché il cielo era chiaro.

                Arrivò un gruppo di nubi dai contorni più definiti e davanti c’era un indiano pellerossa con piume e tutto. Le piume si andarono dissolvendo e il naso adunco si staccò dal resto. ma subito arrivò una donna grossa,  con la parrucca incipriata, come ai tempi dei Luigi. E poi un veliero bianco, e molte altre cose, finché non mi stancai di quel gioco e chiusi gli occhi.

                Il sole era ancora forte e la sua luce penetrava attraverso le mie palpebre disegnando strane combinazioni di luci e colori, che insieme al dolce rumore dell’acqua che sfiorava lo scafo della barca mi fecero rilassare poco a poco dalle tensioni della giornata.

                Sopraggiunsero i primi ricordi. Mi succedeva sempre così quando uscivo a  pesca aspettando che il pesce abboccasse, guardando il paesaggio e seguendo le nuvole, godendo il silenzio. (p. 20)

            Ecco, così incominciano ad affiorare i ricordi (perché “ricordare è tornare a vivere”, scrive Oltuski) e, a seconda del tipo di ricordi, il tono della narrazione cambia: ora è commosso, ora divertito, ora  severo, ora quasi epico. Lo stile dei racconti è quasi sempre asciutto ed essenziale e ricorda quello dei narratori italiani meridionali del Novecento, come Silone, Bernari, Jovine. D’altra parte, in questo libro si respira, per così dire, aria salubre di neorealismo non solo per ragioni stilistiche ma soprattutto per la voglia di rappresentare una realtà, quella di Cuba, con un forte impegno di natura morale. E’ bene chiarire però che da queste pagine è escluso completamente l’intento propagandistico, come era nei canoni del realismo socialista, anche se la passione politica è ancora molto forte. C’è semmai un senso di giustificata sodddisfazione per quello che si è fatto a favore di un popolo le cui condizioni di vita sono notevolmente cambiate in questi ultimi decenni e quindi anche una profonda partecipazione, un’intima adesione ai fatti narrati, che è l’aspetto che colpisce di più (forse perché in Italia non siamo più abituati da tempo). E’ significativa, a questo proposito, la dedica del libro, nella quale anche la figura del leader carismatico di Cuba, Fidel Castro, viene umanizzata e riportata a quella di un nonno come tutti gli altri, così come lo vedono i nipoti di Oltuski. “È questo il messaggio del libro”, scrive l’autore, in maniera assai chiara, mi sembra.

            Ripercorriamo allora anche noi alcuni di questi ricordi che, come ho detto, compongono un grande affresco non solo della vita di Oltuski ma anche della storia  di un popolo, quello cubano, negli ultimi cinquant’anni. E, al contrario dell’autore, per comodità di esposizione,  seguirò un ordine cronologico, partendo proprio dai ricordi relativi a fatti più remoti, quelli che ci fanno conoscere la storia singolare e per certi aspetti drammatica della sua famiglia.

            Uno dei racconti (o pezzi narrativi), a mio avviso, più riusciti del libro è intitolato Il nonno e racconta appunto la vicenda del nonno dell’autore e della sua famiglia, una famiglia polacca composta da artigiani di origine ebraica, che si dedicavano alla confezione di scarpe per i contadini della zona dove abitavano. E qui emerge la capacità di Oltuski di ricostruire, sia pure rapidamente, l’ambiente ma anche le tradizioni, i riti della piccola comunità ebraica alla quale apparteneva la sua famiglia. Da queste pagine apprendiamo anche la sua personale vicenda, perché Enrique Oltuski è nato a Cuba, in quanto i suoi genitori, subito dopo il matrimonio, si trasferirono nell’isola, dove nacquero appunto lui e la sorella. In seguito però a una malattia della madre, la famiglia ritorna di nuovo in Polonia dove il piccolo Enrique conosce il nonno che diventa, come scrive l’autore, il suo “eroe”, il suo “primo eroe” e del quale  riesce a delineare un ritratto molto efficace. Dopo qualche anno gli Oltuski ritornano a Cuba e qui apprendono la tragica notizia della uccisione del nonno da parte dei tedeschi. E questo è sicuramente il brano più toccante del libro:

            Per bocca di mia madre ascoltai la storia. Quando i tedeschi avevano invaso il paese, mio nonno era fuggito in campagna con la sua famiglia e si era rifugiato in casa di uno di quei contadini per i quali faceva le scarpe. Aveva sentito parlare dei nazisti e del loro odio per gli ebrei. Ma in quei primi giorni non successe nulla e decise di tornare. Un giorno, diversi mesi dopo, i tedeschi radunarono tutte le famiglie ebree del villaggio. Nessuno sapeva perché. Ma mio nonno, con la figlioletta di uno dei suoi figli in braccio, riuscì a nascondersi sotto il ponticello di legno che dava accesso alla casa. Tre giorni dopo fu scoperto a causa del pianto della bambina, mezza morta di fame e di freddo.

                Fu spogliato dei suoi vestiti e obbligato a camminare nudo per le strade del villaggio. Nelle vicinanze del paese, dall’altro lato del fiume, in una vecchia cava di calce abbandonata, scavò la sua tomba. (p. 50)

            Ancora agli anni dell’infanzia si riferisce il ricordo della maestra di quarta e quinta elementare, La maestra Inés, che gli insegna a “capire le diverse tappe della storia di Cuba: gli indios, Colombo, la colonizzazione, la schiavitù, le guerre d’indipendenza” (p. 53) e gli fa conoscere il grande scrittore cubano José Martí, un altro degli eroi nazionali di questo paese, di cui la maestra era appunto una seguace. E proprio attraverso i versi di Martí gli trasmette il senso della giustizia e l’amore per Cuba. Da allora quest’isola sarà la “patria” dell’autore, tanto è vero che alla fine il racconto si conclude con l’affermazione e quasi la rivendicazione del suo essere cubano: “Sì, sono cubano”.

            Agli anni della prima giovinezza si riferisce invece il ricordo della prima esperienza sessuale, rievocata in La prima volta. Anche in questo caso quindi, come si vede, si tratta di fatti di carattere personale, che appartengono alla sfera privata dell’autore, come, d’altra parte, succede nel racconto intitolato Mia figlia Titi. Alla figlia Titi, ormai adulta, il padre chiede (o finge di chiedere) a sua volta di raccontargli che cosa ricordava degli anni nei quali vivevano nello zuccherificio diretto da Oltuski. E in questo brano il tono si fa quasi fiabesco perché il punto di vista adesso è quello di una bambina che vive in un luogo dove impara ad amare “la vita e le piccole cose”, gli animali e il contatto con la natura, secondo l’insegnamento del padre. Questo amore della natura, che a volte arriva quasi a un senso di fusione con essa, è un altro dei motivi ricorrenti del libro.

             Le esperienze lavorative di Oltuski sono al centro di altri racconti del libro: quelle di direttore di un grande stabilimento per la lavorazione dello zucchero nel racconto intitolato proprio Zuccherificio, dove emergono soprattutto i problemi del lavoro che bisognava affrontare e risolvere, ma anche quelli di carattere personale dei lavoratori. L’ esperienza di direttore di un’azienda per l’allevamento del bestiame è invece al centro di Come imparare ad andare a cavallo, dal tono più divertito, perché qui l’autore ricorda un curioso episodio. Ricorda appunto che imparò ad andare a cavallo, come era necessario dato il lavoro che svolgeva, attraverso un libro, una guida scritta da un italiano, il conte Renato Prodi, ritrovata casualmente nella biblioteca di un’altra azienda di allevamento che era stata abbandonata da un americano dopo la nazionalizzazione.

            Ovviamente non mancano nemmeno i ricordi relativi alle varie esperienze governative di Oltuski e anche qui il tono della scrittura cambia a seconda delle occasioni. E’ ancora piuttosto divertito nel racconto intitolato Ministro, dove Oltuski ricorda un episodio accaduto durante la sua esperienza di ministro delle Comunicazioni. Allora presentò direttamente un programma per spiegare al popolo l’opera, le conquiste della Rivoluzione cubana e questo programma, nonostante fosse di tipo politico, ebbe tanto successo che il proprietario della principale emittente di Cuba gli propose di diventare presentatore  di Canal 6, una volta terminato il suo incarico di ministro.    

            Il tono invece si fa impegnato, teso nel racconto dal titolo La Riforma Agraria. La riforma agraria, attuata nel 1959,  com’è noto, fu una delle grandi conquiste della rivoluzione cubana, che mise fine alla sofferenza e alla miseria di milioni di contadini di quel paese. Si pensi che fino a quel momento l’1% dei proprietari terrieri possedeva il 50% della terra, mentre un altro 71% ne possedeva l’1%. E uno dei firmatari di questa fondamentale legge che pose termine a questa situazione di grave ingiustizia sociale fu proprio Oltuski. Il racconto non può non colpirci particolarmente anche perché  ricorda  la situazione, che non era poi tanto diversa, dei contadini  meridionali  ancora fino alla fine degli anni Quaranta-primi anni Cinquanta, allorché venne approvata anche in Italia la legge sullo scorporo del latifondo. Questa situazione venne descritta dai nostri scrittori di quel periodo, basti pensare alle poesie del poeta lucano Rocco Scotellaro e, per quanto ci riguarda più da vicino, a certe prose dello scrittore leccese Vittorio Bodini. Penso soprattutto ai due bellissimi reportage sull’occupazione delle terre incolte dell’Arneo avvenuta nel 1949-1950, quindi qualche anno prima dei fatti raccontati da Oltuski. Con questi scritti si possono scoprire inaspettate analogie perché sia Bodini che Oltuski descrivono appunto situazioni quasi analoghe, seguendo anche lo stesso metodo, cioè informandosi e facendo parlare direttamente i contadini. Ma la spia, per così dire, che mi ha fatto mettere in rapporto questi scritti è stato un vocabolo che entrambi usano per descrivere la condizione di questa povera gente e che è  “paria” (parias  nell’originale). Così scrive Bodini, in L’ Arneide, ultimo atto, pubblicato in “Omnibus”, 20 maggio 1951, descrivendo un momento del processo che si tenne per questi fatti, dal quale i contadini uscirono assolti:

            Dopo le sue conclusioni che lasciano tutte le porte aperte alla difesa, c’è nel pubblico un’aria di sollievo e nelle interruzioni i contadini che dall’anno scorso lavorano nell’Arneo portano agli imputati i primi prodotti strappati dalle loro mani alla squallida macchia. Fanno la loro apparizione nell’aula fave, cicorie e piselli freschi. Questo processo è stato per me una vera rivelazione: dove avranno imparato tali finezze psicologiche questi uomini di cui gli atti processuali ci hanno rivelato l’altissima percentuale di analfabetismo? Ma non bisogna dimenticare dopotutto che questi paria  sono i discendenti degli antichi Messapi e Greci.

            Ecco, lo stesso vocabolo, “paria”, ritorna in un brano del racconto di Oltuski:

            E’ possibile che nella nostra Patria vivano persone in questo stato? Mentono questi uomini? Hanno vissuto gli oppositori della Riforma Agraria con questi paria della nostra società?

                Noi, che la Rivoluzione ha portato qualche volta sulle colline, conosciamo e soffriamo tutto questo.

                Sappiamo della fame. Sappiamo che prima ancora che sia pronto, il raccolto è già di colui che dà i pagherò.

                Sappiamo del bohío con il pavimento di terra con il suo unico mobilio: il tavolo, gli sgabelli e il letto comune. ha mai visto un oppositore della Riforma Agraria una cucina contadina? (p. 85)

            Nel libro non mancano nemmeno i ricordi meno lieti che però sono stati importanti dal lato umano, come quelli relativi alla permanenza per sei mesi in un isola, l’Isla de Pinas, dove Oltuski era stato confinato per lavorare come bovaro, dopo essere stato licenziato dal suo incarico, perché aveva preso una decisione senza aver consultato il ministro. A questa esperienza sono dedicati tre racconti, nei quali sono descritti vari personaggi incontrati sull’isola, come un ingegnere che lì era prigioniero. E anche qui l’attenzione dell’autore è rivolta ai sentimenti, alle emozioni di questi individui.

            Né mancano ricordi di fatti e personaggi apparentemente meno importanti, di tipo quasi quotidiano, che però stanno a dimostrare questo stretto intreccio tra privato e politico, che è una delle componenti principali di questo libro. Cito, ad esempio, Il solito sabato e una domenica diversa, dove sono descritti appunto una giornata di lavoro e una festosa, normalissima giornata trascorsa con la famiglia su una spiaggia di Cuba, e Rosa María, che rievoca l’incontro, rimastogli particolarmente impresso, con una donna che lavorava in una fabbrica di carbone. Quindi anche qui fatti e incontri comuni, piccole cose di ogni giorno, narrate con grande semplicità.

            Ma ovviamente i ricordi  più emozionanti del libro (e anche i momenti più intensi per il lettore) riguardano la figura del Che e quelle di Fidel Castro e  Camilo Cienfuegos, tre figure che fanno parte ormai della storia, le quali però qui, come s’è detto, sono viste soprattutto dal lato umano, così come sono state conosciute da Oltuski e da altri uomini e donne di Cuba. Incominciamo dal racconto Camilo, dedicato appunto al guerrigliero compagno di lotta del Che, scomparso in un incidente aereo. Nella rievocazione di quest’altra figura leggendaria, in Italia sicuramente meno nota rispetto a Guevara, Oltuski ricorre addirittura a toni epici, paragonando Camilo agli eroi d’Omero

            Camilo. Camilo era una parola magica per noi. Sulla sua presenza basavamo la soluzione di tutti i problemi. Fin da quando il Movimento aveva organizzato le prime forze ribelli a Las Vilas avevamo chiesto la presenza di Camilo. Camilo arrivò un anno dopo con i suoi ottanta e passa uomini. Il suo arrivo al nord della nostra provincia rappresentò il panico per i soldati e il culmine delle nostre speranze. La sua presenza sul campo di battaglia aveva sulle truppe di Batista lo stesso effetto di quello di Achille sui Troiani. Per questo associavamo sempre il suo nome a quello degli eroi greci. Sembrava uscito dall’Iliade di Omero. (p. 67)

            Ma è soprattutto il ricordo del Che che ritorna insistentemente nella memoria di Oltuski e in queste pagine, come scrive lui stesso:

            Mi perseguita il ricordo del Che. Mi succede spesso. Gli anni trascorsi accanto a lui hanno plasmato il mio modo di essere e di pensare, come anche Fidel. Quante notti abbiamo trascorso insieme discutendo su come costruire un mondo migliore. Eravamo così giovani! Nessuno aveva esperienza su come si dirigeva una fabbrica, una proprietà, un’attività commerciale e men che meno un governo, imparammo a suo tempo, il nostro obiettivo era la giustizia sociale, la felicità dell’essere umano. (p. 153)

              Che Guevara è  uno dei miti del Novecento. Negli anni intorno al Sessantotto poi fu una figura-simbolo per milioni di studenti, lavoratori e intellettuali sparsi in tutto il mondo. Ma ancora adesso la sua fama non accenna a tramontare, anzi aumenta sempre di più. Opere letterarie e cinematografiche ne tengono infatti sempre viva la memoria. Tra quelle più recenti ricorderò la biografia di Jorge Castañeda, Compañero. Vita e morte di Ernesto Che Guevara  e il film I diari della motocicletta, basato sulle memorie di Guevara, nel quale è raccontata la sua avventura e quella dell’amico Alberto Granado, durante l’attraversamento dell’America del Sud in motocicletta, nei primi anni Cinquanta.

            A  proposito di questa fortuna sempre maggiore della figura del Che, Oltuski scrive giustamente:

            Cosa sta succedendo nel mondo per cui ogni giorno la figura del Che si ingigantisce sempre di più? Non sarà perché viene a colmare un vuoto morale? Non sarà perché ispira fiducia nel futuro? Non sarà perché è l’essere umano che tutti vorremmo essere? Non sarà perché il Che è l’uomo nuovo nato in anticipo? (p. 152)

            A Guevara sono dedicati ben quattro pezzi del libro, Che posso dire del Che?, Il vero Che, Pachungo  e Avere fede, ma nell’uomo. Nel primo, Oltuski ricostruisce, attraverso l’immaginazione, gli ultimi istanti della vita del Che, l’agguato e la morte in Bolivia, con quella esposizione del cadavere che ci impressionò e ci commosse tutti, ma rievoca anche il suo primo incontro e altri episodi che riguardano il suo rapporto col guerrigliero, con l’ossessiva ripetizione della frase “Che posso dire del Che che non sia stato detto?”, quasi a voler far forza nella propria memoria per trovare frammenti ancora inediti che possano gettare ulteriore luce su questa figura:

            Che posso dire del Che che non sia stato detto? Che ricordo quella sera che lo conobbi alla luce dei falò. Che un tempo non eravamo d’accordo su come intendere il futuro e malgrado ciò lo ammiravo.

                Che in seguito chiesi di lavorare proprio con lui. E un giorno misi la mia mano sulla sua spalla in segno d’affetto e mi disse:

                – E questa  confidenza?

                E tolse la mia mano.

                Che passarono i giorni e una volta mi disse:

                – Sai? Non sei così figlio di puttana come mi avevano detto -. E ridemmo ed eravamo già amici.

                Che posso dire del Che che non sia stato detto?

                Che una volta gli chiesi:

                – Non hai mai avuto paura?

                E mi rispose:

                – Una paura tremenda. (p. 71)

             In Il vero Che invece Oltuski si affida non più o non solo ai suoi ricordi ma anche a quelli di persone che lo conobbero e che ne danno un’immagine vera appunto, non deformata, come spesso succede, da più o meno interessate ricostruzioni. E anche qui emerge appunto, come s’è detto, soprattutto l’aspetto umano del Che. E’ il caso, ad esempio, del ricordo che ne ha Aleida, la donna che sarà la sua compagna e madre dei suoi figli, ma in questo racconto ci sono anche altri ricordi personali di Oltuski. Uno di questi riguarda l’incontro di suo padre col Che, il quale gli propone di diventare ispettore nazionale dell’industria calzaturiera, dopo che la sua fabbrica di concerie era stata nazionalizzata.

            Pachungo  è invece il racconto di una lettera scritta dall’autore al Che nella quale gli chiede di arruolarsi. Questa lettera, piena di espressioni entusiastiche, gliela fa avere con  un amico di nome Pachungo appunto, il quale però dopo averla consegnata gli comunica che il Che non lo voleva come guerrigliero ma come amministratore del territorio, spegnendo immediatamente il suo entusiasmo. 

            L’ultimo pezzo, Aver fede, ma nell’uomo, è l’unico che non è basato su ricordi personali, ma su  riflessioni sul Che fatte da Fidel Castro, dalle quali emerge la profonda coscienza morale di Guevara, che, scrive il presidente di Cuba, “aveva una grande fede nell’uomo. Pur essendo un uomo realista, il Che non rifiutava gli incentivi materiali, li considerava necessari nella fase di transizione, nella costruzione del socialismo; ma il Che dava un peso importante, e sempre maggiore, al fattore coscienza, al fattore morale” (p. 154).

            Ma, accanto al discorso di Castro, Oltuski riporta anche un brano della lettera d’addio del Che ai suoi figli, che, come confessa lui stesso, nella sua evoluzione politica ha chiarito meglio di ogni altro l’obiettivo della sua vita. E con questo  brano, assai significativo, quasi una sorta di testamento morale, vorrei concludere il mio intervento:

            Crescete come buoni rivoluzionari. Studiate molto per dominare la tecnica che permette di dominare la natura. Ricordatevi che la Rivoluzione è l’unica cosa importante e che ciascuno di noi, solo, non vale nulla.

                Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel profondo qualsiasi ingiustizia commessa in qualsiasi parte del mondo. E’ la qualità migliore di un rivoluzionario (p. 157).

[Testo della presentazione del libro di Enrique Oltuski, Pescando recuerdos  (Nardò, Besa, 2005), tenutasi l’8 marzo 2005 presso la Sala Ferrari dell’Università del Salento, con la presenza dell’autore; poi in «Crocevia», 7/8, 2006, pp. 262-269]

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