Intervista ad Andrea Donaera

Il principe delle fiabe sveglia la principessa addormentata con un bacio. Andrea cerca di farlo con un incessante parlare. Che ruolo ricopre la parola, la voce, in Lei che non tocca mai terra?

In questa storia non c’è il principe (nel senso: non una figura eletta, superiore), ma una sorta di ragazzo qualunque, pieno di buchi e di vuoti, di traumi e di ossessioni: tra queste ossessioni c’è anche la ricerca di una qualche “principessa” da salvare, convinto che lei possa renderlo – da sveglia, da salva – finalmente un uomo platonicamente completo (ignorando che però l’amore non riunisce due anime: l’amore ti spacca in due). Dunque, in realtà, è il “principe” che vuole salvare sé stesso attraverso l’allestimento di uno pseudo-atto eroico. Andrea si convince che Miriam, una volta sveglia (salvata) potrà riempire i suoi vuoti, lenire i suoi traumi, ma è una convinzione ossessiva, un piegare la realtà esteriore verso un disegno mentale interiore che non ha un riscontro concreto. Per mettere in moto questo meccanismo (perverso?) dove lui può finalmente avere un ruolo nel mondo (quello del salvatore), Andrea utilizza il linguaggio, la voce. Questo perché, a mio parere, il suo innamoramento è effettivamente vero e onesto, al netto di tutto il torbido processo intrapsichico che lo produce e precede: e l’amore, vero e onesto, se ci pensiamo bene, si concretizza solo nell’incontro di linguaggi e di voci. Io capisco la tua voce, io capisco il tuo linguaggio: e tu capisci la mia voce, capisci il mio linguaggio. È in questo flusso di lingue che si toccano (similmente a un bacio senza bocche) che si verifica l’atto dell’amore: e Andrea vuole il linguaggio di Miriam, per capirla di nuovo – e vuole darle il suo linguaggio, per essere capito. E dunque lui parla: non ha altro, forse, non può fare altro.

C’è un personaggio del quale si è parlato poco ma che credo sia uno dei più affascinanti di tutto il romanzo. La madre di Andrea. Le madri dei tuoi romanzi (penso a Marta, a Mara) sono madri dure, rigide, ruvide, legnose. E la madre di Andrea?

La madre di Andrea, nella mia testa, non esiste. Nella mia testa lui vive da solo, è orfano di entrambi genitori. La madre di cui parla è un fantasma che lui vede lì immobile sul divano, nello stesso posto dove il padre si tolse la vita anni prima: ma la psiche di Andrea si rifiuta di concepire anche la madre come morta, non riesce a reggere questa ulteriore assenza, e dunque la ricrea in maniera immaginaria ma vivissima – ne parla come un «cadavere indecomposto», nella testa di Andrea è tutto un proliferare di mostri di Frankenstein. Ma questa è una interpretazione mia, che non ho voluto far emergere nella versione finale del romanzo – e non so quanto possa essere utile esplicitare, ma ormai l’ho fatto, e va be’.

Conosco solo un altro autore che descrive gli occhi come fai tu e che sembra affidare a questa parte del corpo la sede dell’anima ed è William Faulkner. Cosa c’è negli occhi di Andrea? Cosa negli occhi (chiusi) di Miriam?

La parte del corpo più clamorosamente espressiva degli esseri umani è quella: gli occhi. E se stai scrivendo una storia in cui degli esseri umani vivono alcune emozioni che vanno trasmesse a chi legge, cosa puoi fare? Beh, per me l’unica strada è descrivere/raccontare gli occhi. Gli occhi di Andrea sono troppo pieni, c’è una rete, un groviglio, di cui lui è conscio e che infatti prova a districare, anche goffamente e inquietantemente tramite l’amore che ha costruito per Miriam. Gli occhi di Miriam – oltre a essere bellissimi (cosa c’è di più incredibile degli occhi chiari?) – sono il sintomo di una lotta, sono magmatici (di un magma azzurro, metafisico), vogliono piangere, vogliono aprirsi: e tutto questo già prima del suo coma. Insomma, se guardi una persona negli occhi può succedere di tutto: puoi anche finire per desiderare di essere guardato – e di guardare – quel colore lì per quanto più tempo possibile (e credo che anche questa faccenda, in ultima analisi, finiamo per chiamarla “amore”).

Andrea e Veli. A mio parere hanno dei tratti in comune, sono entrambi coraggiosi, entrambi innamorati. In cosa si distinguono l’uno dall’altro? Esiste una versione migliore dell’altra?

Dopo l’adolescenza c’è un’età che non chiamiamo in nessun modo. Quel periodo tra i venti e i trent’anni, più o meno, dove si sente l’impulso di cambiare, di rivoluzionare il proprio status (anche se, specialmente nella mia/nostra generazione, questo periodo è divenuto decisamente più lungo). Veli e Andrea sono lì, ma devono fare i conti con un bel po’ di casini che sono capitati nelle loro vite. Le loro sono storie che meritano di essere raccontate, a mio parere: perché sono davvero nei guai, e quando si è davvero nei guai succede sempre qualcosa che, nel tempo, diventerà un materiale degno di essere narrato. Non credo siano coraggiosi: credo siano disperati – ed è un processo che biograficamente conosco bene, quello di compiere gesti che da fuori possono sembrare coraggiosi, ma che alla fine sono soltanto dettati dalla disperazione e rispondono all’istinto primordiale di volersi salvare la vita (attività dignitosissima, quest’ultima!). Veli e Andrea vogliono salvare una donna che amano: ma lo vogliono fare per salvare sé stessi, principalmente. Questo non li rende coraggiosi, ma senza dubbio li rende davvero innamorati, nell’accezione più luminosa del termine – e questo, forse, alla fine, è meglio del coraggio.

Il tuo cattivo, Papa Nanni, è un personaggio costruito, immaginato, inventato con grande cura. Sembra realmente incarnare il Male. Ci sono dei cattivi – nella letteratura, nel cinema, nelle serie tv – che ti piacciono particolarmente?

Ce ne sono moltissimi! Papa Nanni, fisiognomicamente, è costruito sulla base di un cattivo letterario/cinematografico proveniente dall’immaginazione di uno dei miei autori preferiti, cioè J.R.R. Tolkien: lo stregone Saruman de Il Signore degli Anelli. Naturalmente mi appassiono con grande intensità ai cattivi costituiti da un épos, da un passato ben articolato dal quale provengono e nel quale risiedono le ragioni profonde del loro agire (quante volte, nella vita, rischiamo di diventare cattivi a causa del nostro passato?). E dunque amo molto la figura di Lord Voldemort della saga di J.K. Rowling Harry Potter, così come quella di BOB della serie tv Twin Peaks realizzata da David Lynch. Anche un altro cattivo estremamente formativo, per me, proviene dalla serialità televisiva: Walter White di Breaking Bad, un personaggio così ambiguo che fa molto strano definirlo nettamente “cattivo”. Tornando alla letteratura, credo ci siano cattivi meravigliosi in quei testi dove convivono diversi gradi di realtà: Woland, ne Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov; il pianeta Solaris nell’omonimo romanzo di Stanislaw Lem; Dio nell’Antico Testamento de La Bibbia. Cose così.

[“Clinamen”, Novembre 2021]

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