Tra le varie figure risalta quella di Carlo Cerova (all’anagrafe Carlo Alberto Viva) proveniente da Sogliano Cavour, che ha eletto San Foca come patria di adozione. Pittore abbastanza noto quand’era in vita, buon musicista jazz e poeta, mal si adattava in un ambiente sociale che viveva nell’ipocrisia più becera e nel quale la studiata apparenza era ben diversa dalla sostanza e lui, col suo intuito, smascherava, a colpo, tutti senza mezzi termini, ma era una voce che gridava nel deserto. Bene ha fatto Nahi a ricordare questo personaggio scomparso qualche decennio fa, di animo fondamentalmente nobile, anche se annegava i problemi del suo disagio sociale nei superalcoolici e con l’autoemarginanazione nel suo “eremo” al centro di San Foca. La sua figura era stata coperta dalla polvere del tempo e dall’incomprensione, relegata in una damnatio memoriæ con cui la collettività ha creduto di assolvere le proprie colpe di indifferenza e di voluta sordità nei suoi confronti.
Antonio Nahi, in quest’opera, diventa occhio osservante, orecchio accorto, memoria vigile e voce narrante e dà il tutto come un vissuto nel quale lui è contemporaneamente attore e testimone come sulla via già indicata da Rina Durante. Però, mentre Rina, con i personaggi del suo noto “Tutto il teatro a Malandrino”, offre le sue storie amalgamate in un’azione corale, Nahi sceglie di abbozzare “quadretti” a sé stanti che, accostati, alla fine, forniscono un quadro globale.
Non mancano le ricette di medicina popolare, allora molto in uso, dacché si ricorreva al medico solo per casi gravi e al ricovero ospedaliero per quelli disperati. Parimenti non mancano, integrate nei racconti, le semplici ricette culinarie povere che ogni massaia sapeva rendere squisite, imitando magari il sapore di carne o di pesce, là dove mancava l’uno e l’altro ingrediente.
Poi, passando da ieri a oggi, Antonio Nahi, con un pizzico di garbata autoreferenzialità e lieve ironia, affronta la sua esperienza di comandante dei VV.UU. nei periodi (per gli altri) di vacanza quando, unitamente ai compiti propri, diventa involontariamente cassa di risonanza di tutti i problemi che, a iosa, si riversano sulle Marine di Melendugno e deve dare ascolto alle ragioni reali e alle pretese non sempre ragionevoli di alcuni turisti, quindi improvvisarsi mediatore diplomatico per placare gli animi esasperati dallo stress accumulato nel corso dell’anno e acuito dalla calura.
Ma il Salento – è risaputo – è magico e misterioso e quindi era d’obbligo che nel racconto “Riti magici del vecchio Salento” emergesse anche la ricetta contro “lu ‘nfàscinu” (il malocchio), praticata in famiglia senza l’intervento di macàri o di macàre, con un rituale semplice che prevedeva come ingredienti acqua, olio d’oliva, preghiere e altri formulari.
Inoltre, trovandoci (per dirla col De Martino) nella terra del ri-morso, compare anche il racconto (stesso titolo del libro) che tratta del fenomeno noto come tarantismo.
Una donna, come si riteneva fino agli anni ’50 dello scorso secolo, (secondo Maurizio Nocera, pare che il fenomeno e la credenza esistano ancora, anche se in misura molto, ma molto limitata) era affetta dal morso della taranta dal quale ci si liberava o ci si “sveleniva” per un anno con una danza frenetica: “la pizzica”. A volte il rituale durava giorni, al suono di tamburelli ed altri strumenti musicali, finché il soggetto che danzava sino allo sfinimento non cadeva in trance. Ma san Foca, al pari di san Paolo in Galatina, è un santo che, nel giorno della festa a lui dedicata, ha il potere di graziare permanentemente il malcapitato o la malcapitata. Quindi, così come Galatina, anche il villaggio di San Foca era mèta di tarantati e tarantate che invocavano la grazia.
L’autore descrive con dovizia di particolari la scena-rito della tarantata presso il sagrato della chiesa e l’impegno dei tamburellisti e di altri strumentisti per placare con ritrovati jatro-musicali gli effetti del tarantismo, nel mentre la tarantata, danzando freneticamente, con suoi reiterati “ahi!”, chiedeva la grazia a san Foca.
È un libro dall’esposizione semplice e dalla lettura piacevole in cui l’autore, cantando la sua terra d’origine, le sue radici, la sua gente, offre un valido contributo perché – pur triturati, come ora gli alberi d’ulivo, da un modernismo teso ad annullare la nostra identità – non dimentichiamo chi eravamo e donde veniamo.
[“Presenza taurisanese” anno XXXIX – n. 11-12, nov-dic 2021, p. 9]