Dantismo di fine Ottocento: Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia di Francesco Muscogiuri

La sua produzione saggistica è piuttosto varia ed eterogenea. Egli infatti si occupò non solo di letteratura italiana, ma anche francese e tedesca, e pubblicò saggi su scrittori inglesi e latini. Collaborò a numerose riviste, come  «Rivista Europea», «Nuova Antologia», «Vita Nuova», «Nuova Rassegna», «La Settimana», «Natura ed Arte» e «Il Gazzettino letterario» di Lecce. Nel 1988, nel suo paese natale, gli venne dedicata una Giornata di studi, i cui Atti apparvero nel 1990[2]. In quella occasione, lo scrivente tracciò un profilo del critico, analizzando le sue opere nelle quali si mantenne costantemente fedele all’insegnamento e al metodo del maestro che dopo la morte, avvenuta nel 1883, non godeva più di grande attenzione tra gli studiosi di letteratura[3].

Muscogiuri esordì nel 1877 con un volumetto di carattere, per così dire, “militante”, Note letterarie, dedicato proprio a De Sanctis, di cui riprendeva la visione storiografica, l’impostazione metodologica e alcuni concetti fondamentali come quello di “forma”. In esso esaminava le principali correnti critiche e i più importanti movimenti letterari dell’Ottocento, restando saldamente ancorato a una concezione dell’arte di pretto stampo romantico. Non a caso, pur aprendosi a un certo tipo di realismo, che per lui rappresentava «l’avvenire dell’arte»[4], condannava senza mezzi termini il naturalismo o verismo che ne costituiva, a suo giudizio, una sorta di pervertimento.

La stessa posizione emerge in un altro volume intitolato Il Cenacolo (Profili e simpatie), pubblicato l’anno dopo, nel 1878, dedicato in buona parte  al Romanticismo francese, di cui passava in rassegna gli esponenti più significativi, come Alphonse de Lamartine, Victor Hugo, Alfred de Vigny, Alfred de Musset, Théophile Gautier, Gérard de Nerval, e i principali generi (il dramma, il romanzo, la poesia, la critica). Anche qui, ritornando sul realismo, ne distingueva una forma moderata e una degenerazione che si verificherebbe dopo il 1860, allorché sorge la «scuola satanica, che inaugura l’arte infernale, l’arte della sazietà, l’arte pericolosa e scandalosa dei sensi»[5]. Di questa “scuola” uno dei principali rappresentanti sarebbe Baudelaire del quale Muscogiuri dà un’interpretazione in chiave patologica, definendolo «il poeta della putrefazione, e l’autore di un libro malsano, Les fleurs du mal»[6]. Anche Il Cenacolo risente ovviamente della lezione di De Sanctis, al quale, peraltro, egli fa esplicito riferimento in vari punti.

Successivamente, tra il 1880 e il 1891, il critico mesagnese pubblicò alcuni saggi su quattro scrittori tedeschi vissuti tra Sette e Ottocento, Goethe, Uhland, Platen e Körner, nei quali cercava di delineare un panorama del Romanticismo tedesco, analogamente a quanto aveva fatto, nel Cenacolo, con quello francese. All’ultima fase della sua attività risalgono il volumetto Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, che costituisce l’oggetto del presente intervento, e altri articoli ancora sui più disparati argomenti, come Catullo, il Falstaff di Shakespeare, Giovanni Pontano e lo stesso De Sanctis, di cui delineò un preciso profilo basato anche sui ricordi personali. L’ultimo suo articolo, intitolato Due donne del primo Impero, che risale al 1903, è uno studio di carattere esclusivamente biografico-rievocativo su due figure vissute in Francia nei primi dell’Ottocento: Madame de Staël e Madame Récamier[7].

In quest’ultimo periodo della sua attività, comunque, Muscogiuri si allontanò definitivamente da quel primo Ottocento romantico che aveva costituito l’argomento principale, se non esclusivo, del suo precedente lavoro e si rifugiò, in un certo senso, nei classici, quasi per reazione agli ultimi sviluppi della letteratura italiana ed europea, considerati come conseguenza di un’epoca di decadenza morale. Non a caso nel saggio sul Falstaff, del 1893, scriveva che al secolo che stava per finire corrispondeva «il tramonto degli ideali e delle cose belle». «L’amore, ‒ continuava – la patria, la famiglia, la divinità, la fede, l’arte e l’onore o han perduto ogni fascino, ogni profumo d’idealità o son parole e sentimenti andati in disuso»[8].

Nel libretto Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, pubblicato a Firenze nel 1889, raccolse tre “letture” del poema dantesco, una per ogni cantica: il canto XXVII dell’Inferno, il IV del Purgatorio, il III del Paradiso. Anche questo lavoro si colloca sotto il segno di De Sanctis, che aveva rinnovato la critica dantesca nell’Ottocento, fin dalla ripresa, nel titolo, del termine “carattere”, di cui l’autore della Storia della letteratura italiana aveva dato una definizione nel saggio Il Farinata di Dante:

     Il carattere nel senso estetico non è questa o quella parte dell’anima, ma è la personalità tutta intera,   tutto l’uomo; non è volontà e potenza in astratto, ma volontà e potenza vivente, manifestata nelle idee, ne’ sentimenti, nelle azioni, co’ suoi motivi e i suoi fini: ciò che Dante chiama “esser vivo”, e ciò che costituisce l’individuo, la persona libera e consapevole- […] E questo è il carattere, questo è la persona, nella ricchezza delle sue determinazioni, nella libertà de’ suoi movimenti vita e azione. Così l’uomo esce dall’indeterminato del simbolo e del puro ideale, e diviene reale, diviene un personaggio drammatico: l’attore[9].

Com’è noto, De Sanctis, in tre memorabili saggi, apparsi per la prima volta nel 1869 nella «Nuova Antologia», aveva delineato i “caratteri” di alcuni tra i più famosi personaggi danteschi, tutti collocati dal poeta nell’Inferno: Francesca da Rimini, Ugolino e, appunto, Farinata[10]. Muscogiuri, cercando di seguire le orme del suo maestro, sceglie invece tre figure “minori”, o ritenute tali, del poema, rappresentative ciascuna rispettivamente dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso: Guido da Montefeltro, Belacqua e Piccarda Donati. Ovviamente, il critico salentino aveva presente anche gli altri lavori di De Sanctis su Dante pubblicati fino ad allora, nonché il fondamentale capitolo sulla Divina Commedia, compreso nella Storia della letteratura italiana, che costituisce la summa di tutta la sua meditazione sul poema.

Nelle pagine iniziali, che si possono considerare una sorta di premessa del libro, emerge il motivo della decadenza morale dei suoi tempi, già presente in alcuni lavori precedenti. Sulla letteratura contemporanea – osserva infatti l’autore – «incombe una fatale incertezza»[11]. «Le teorie – continua ‒ non hanno più alcuna efficacia, e prima che sorgano le nuove forme dell’arte, vanno in dissoluzione le antiche»[12]. Per questo si augurava che il culto di Dante potesse risorgere e costituire un «auspicio di rigenerazione morale e letteraria»[13]. In effetti, in quel periodo si registrava un movimento di ritorno al padre della nostra letteratura, come dimostravano ‒ osservava ancora Muscogiuri ‒ «il voto del Parlamento per l’istituzione della cattedra dantesca, la splendida conferenza letta dal Carducci nell’aula massima dell’Università di Roma, il discorso di Giovanni Bovio, gli articoli dei giornali e il caldo entusiasmo della gioventù»[14]. E questo movimento era tanto più intenso quanto più acuta era «la malattia dell’arte»[15].

La posizione di Muscogiuri, a tal proposito, era simile a quella  di altri illustri critici e studiosi di quel periodo che, come ha scritto Aldo Vallone, ponevano «le punte più alte in Dante e in Alfieri dopo un pauroso abbassamento di valori civili e politici»[16]. Questa linea – afferma Vallone ‒ «piacerà e sarà fatta tutta sua dal De Sanctis. La rinascita morale e civile d’Italia coincideva, come già in altri critici e storici (Mazzini, Gioberti, ecc.), con la ripresa dello studio di Dante»[17].

Ma, a giudizio del critico mesagnese, l’Italia era più arretrata rispetto ad altri paesi europei come la Francia, l’Inghilterra e la Germania, dove i grandi poeti nazionali erano assai popolari per cui non era nemmeno necessario «raccomandarne il ricordo»[18]. Nel nostro paese, invece, si era fatto ben poco «per rendere popolare l’opera di Dante»[19], nonostante i lavori di tanti studiosi danteschi della fine del Settecento e dell’Ottocento che egli rammentava:

     Pregevolissimi al certo sono gli scritti di Gaspare Gozzi, Foscolo, Balbo, De Sanctis, Giuliani, Perez, Andreoli, Carducci, D’Ancona, De Gubernatis, D’Ovidio, Del Lungo ed altri minori o dimenticati: ma quelle monografie, se rendono agevole lo studio dei canti più belli della Divina Commedia ed hanno pagine di grande efficacia, non rendono egualmente chiara e compiuta l’idea del carattere, dell’utopia politica e del genio di Dante, né riescono a snebbiare dalle infinite incertezze storiche e biografiche l’immagine di lui[20].

A suo parere, era necessario cercare «innanzi tutto d’intendere e far intendere ai giovani la Divina Commedia»[21] attraverso lo studio dei caratteri e dei personaggi. E, ancora una volta, richiamava l’esempio «impareggiabile» di De Sanctis sulla cui scia collocava il suo lavoro, definito modestamente «più un’impressione che un esame, intorno a tre figure meno popolari del sacro poema: un consigliere malvagio, un arguto poltrone, una bella e vereconda beata»[22]. E proprio sull’esempio dei grandi saggi di De Sanctis, l’autore, in queste “letture”, tende a “ricreare” gli episodi danteschi, concentrandosi quasi esclusivamente sui principali personaggi dei canti presi in esame e tralasciando il resto. Passiamoli allora rapidamente in rassegna.

Il primo saggio riguarda Guido da Montefeltro, protagonista del canto XXVII dell’Inferno, in cui Dante e Virgilio si imbattono dopo aver incontrato Ulisse nel canto precedente. Guido è condannato da Dante nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio tra i consiglieri fraudolenti, per aver dato a papa Bonifacio VIII il consiglio di promettere il perdono ai nemici per impadronirsi di Palestrina e poi di non mantenere la parola data. E qui Muscogiuri ha buon gioco, in un certo senso, nella sua disamina perché Guido è sempre sulla scena, dall’inizio alla fine, col suo lungo racconto, poiché la vicenda di questo personaggio coincide integralmente col canto. Non a caso, egli espone la “storia” e la “leggenda” del Feltrese non ritenendo necessarie però ricerche di carattere storico o d’archivio, come ammette candidamente: «Se tutto ciò è una maligna invenzione ghibellina, come asserisce il Padre Tosti, io non voglio indagare. Solo mi basta rilevare che questo guerriero muore da santo nella storia e da furfante nella leggenda»[23]. D’altra parte, tutta l’analisi condotta dal critico sui tre canti danteschi è di tipo esclusivamente estetico e prescinde totalmente da approfondimenti di natura filologica, storica, erudita, come avrebbero fatto in quel periodo o subito dopo gli esponenti della “scuola storica”.

Successivamente ripercorre passo passo il canto commentandolo. Ad esempio, quando Guido chiede a Virgilio notizie della situazione politica della sua terra, la Romagna, Muscogiuri scrive:

     Quanta efficacia in questa descrizione! In poche parole è dipinto il panorama della serra di Urbino. In due semplici particelle e intra è tutto il segreto, tutta la selvaggia poesia di quei pinnacoli dirupati. L’abbozzo delle descrizioni dantesche assume nell’immaginazione del lettore le proporzioni di un quadro. […] da quelle descrizioni si disserra un sentimento or di mestizia, or di solitudine, or di soavità campestre, che rattrista o turba o consola l’animo dello spettatore»[24].

E dopo la risposta di Dante che, su invito di Virgilio, fornisce a Guido le informazioni richieste, scrive:

     In queste stupende terzine, in cui sono accumulati tanti tesori di lingua e di poesia, è scolpita l’infelice Romagna. La descrizione di più famosi castelli e delle signorie di quella contrada è fatta a via d’immagini, che rendono ancor più artistica la rapida e pittoresca rassegna[25].

Ma la parte centrale del canto, com’è noto, è costituita dal racconto dello stesso Guido che rievoca la sua vita dagli anni della giovinezza, quando era un abilissimo guerriero e un astuto politico, fino a quelli della vecchiaia allorché, pentito della sua condotta, decide di ritirarsi in un convento francescano. Qui venne raggiunto da papa Bonifacio VIII che, in lotta coi Colonna, gli chiese un consiglio su come espugnare la rocca di Palestrina, promettendogli l’assoluzione in anticipo o la scomunica in caso di rifiuto. «Il racconto del Feltrese – scrive Muscogiuri – ha forma epica e contenuto drammatico, andamento spedito, scatti di ira, sospiri strozzati, lamenti di speranze deluse»[26]. Questo episodio è “ricreato” alla fine da Muscogiuri in un crescendo drammatico, con la scena, che raggiunge il «colmo dell’orrore»[27], allorché il papa «passa dalla preghiera alla minaccia»[28]. E qui il critico, per enfatizzare ancora di più la narrazione, ricorre largamente a una serie di frasi interrogative:

     Terribile contrasto! Il mansueto pastore della Chiesa e il vicario di Cristo sulla terra, messo di grazia e ministro di pace, dimentica il sommo ufficio di cui è insignito e diviene il lupo del suo greggio. La lebbra dell’ira avea infettato l’animo suo acceso impetuosamente di sconfinato dominio. Smarrito il senso della rettitudine morale e politica, si avvaleva della potestà pontificia per affermare in Europa la supremazia della Chiesa militante, non già, ma armeggiante e aggressiva. E a quest’insano disegno associava un fallo ancor più grave: l’impudente mercato della fede. Considerate bene costui in questa sublime concezione dantesca. Sollecito più dei vantaggi terreni che del prestigio dell’alta dignità pontificia, sprezzante il sacro capestro di san Francesco, intento a violare la coscienza di un povero frate tornato al sentiero della virtù dopo lunghi anni di vita malvagia, senza abominio ed orrore. Era sogno o realtà? Era proprio il Santo Padre colui che induceva il Feltrese a ricader nel peccato? e questi, era questi il divoto seguace del poverello di Assisi, o pure il truce conte di Urbino? Tali pensieri attraversarono la mente di Guido in quell’istante fatale. E chi può dire quali sentimenti tumultuassero nell’animo del poeta alle rivelazioni di quella fiamma sciagurata?[29]

Successivamente, mette a confronto il “carattere” di Guido con quello di Dante che definisce il «più grande poeta dei tempi moderni»[30], con un’espressione che ricorda da vicino quelle usate da De Sanctis che aveva terminato la trattazione della Commedia dinanzi ai giovani della prima scuola napoletana con queste parole: «possiamo quindi conchiudere con Lamartine che Dante è il poeta moderno, è il poeta de’ nostri tempi»[31]. In Guido da Montefeltro – sostiene Muscogiuri ‒  mancava «il carattere che è la coscienza del diritto e del dovere, della virtù e dell’equità. Affaticato dalle massime rituali, ‒ continua ‒ scambiava l’essenza colla contingenza della religione, e concedeva al finito gli attributi dell’infinito. Da questa incertezza e trepidanza di fede derivò la sua recidiva»[32]. Del tutto diverso era il “carattere” di Dante. «Pio e fervente cristiano, ‒ scrive il critico ‒ stimava che gli atti protervi e l’autorità fallace del sommo pontefice non rispecchiassero il volere e i decreti divini; e sfidando i fulmini della scomunica, percosse a sangue papi e cardinali che nel nome della Chiesa facevano mercimonio e baratteria di ciò che vi è di più sacro nell’ordine morale»[33].

Alla fine, a proposito dell’apparizione del diavolo che disputa con San Francesco l’anima di Guido da Montefeltro morente, non manca di tracciare un rapidissimo excursus della tradizione demonologica nella letteratura europea, sviluppando uno spunto del De Sanctis che nella sua Storia della letteratura italiana aveva scritto: «il nero cherubino, che strappa a san Francesco l’anima di Guido da Montefeltro, è il padre di Mefistofele. Egli crea il diavolo, gli dà il suo concetto e la sua funzione»[34]. Ecco il brano di Muscogiuri:

     Fu il genio della malizia per Milton e il genio della distruzione per Klopstock, lo spirito della vita e del godimento per Goethe e la forza vindice della ragione per Carducci, un angelo per la Sand, un santo per Baudelaire, un sogno per Lermontov. Né qui finisce. Un francese prima e un italiano poi, Alfred de Vigny e Mario Rapisardi, lo fecero spasimare d’amore come un Lindoro da commedia, senza por mente che questa degenerazione del tipo è l’ultima forma, e forse la più goffa, di uno splendido concetto[35].

Il saggio si conclude con una sintetica delineazione delle caratteristiche dell’Inferno, in cui l’autore riprende, pur con qualche variazione, alcune osservazioni desanctisiane[36]: «Tutto è umano nell’Inferno di Dante: le immagini e i caratteri, gli accenti e la lingua ma ancor più umano è il sentimento del poeta. E in questo sublime umanesimo è riposto il pregio principale dell’epica tregenda»[37].

Il secondo intervento prende in esame Belacqua, protagonista del IV canto del Purgatorio, macchiatosi di negligenza per aver rimandato il proprio pentimento fino in punto di morte, che, nell’Antipurgatorio, si trova in attesa del momento in cui gli verrà concesso di accedere all’espiazione[38]. Questo personaggio – osserva Muscogiuri all’inizio – rappresenta «una nota allegra di una sinfonia magistrale, come il De Sanctis chiamava la Divina Commedia»[39], dove non può sfuggire l’esplicito riferimento al suo maestro, che viene citato spesso, come s’è detto, in questo volume. Anche nella raffigurazione di Belacqua che «rimane un carattere comico»[40], il critico riprende l’interpretazione di De Sanctis, che aveva parlato di questo personaggio come di una «caricatura felicissima nella figura, ne’ movimenti, nelle parole, e tanto più comica quanto più Belacqua si sforza di rimaner serio, usando un’ironia che si volge contro di lui»[41]. Il carattere di Belacqua, d’altra parte, come osserva l’autore, è adeguato al Purgatorio che «è teatro più adatto alla rappresentazione umoristica», dove «non sono più le passioni irrefrenabili, gli atteggiamenti dolorosi, le tenebre e le grida empie e disparate dell’Inferno, e non sono ancora le beatitudini rigidamente soavi, i torrenti di luce e i mistici canti del Paradiso»[42].

Anche in questo saggio Muscogiuri presenta brevemente la figura di Belacqua, un liutaio fiorentino, amico di Dante, famoso in città per la sua pigrizia, basandosi su ciò che di lui aveva scritto «un antico postillatore della Divina Commedia»[43], ma anche stavolta senza procedere a ulteriori ricerche storiche o archivistiche. Poi accenna alla prima parte del canto in cui Virgilio offre a Dante una serie di spiegazioni astronomiche, che ‒ osserva ‒ «non sono ancora scienza e che ripugnano all’arte e al lettore»[44], e dove «la voce del rinascimento è oscurata sovente dalla voce rude del medio evo»[45]. E anche qui si nota l’influenza desanctisiana nel giudizio negativo espresso sul Medioevo:

     Nella Divina Commedia ciò che non è rappresentazione, è scolastica, e ciò che non è limpida poesia, è inamabile e apocalittica dottrina; e se le ragioni di Virgilio persuasero Dante che si trovava all’antipodo di Gerusalemme, intrigano viceversa il lettore che si smarrisce come Fetonte tra i segni dello Zodiaco[46].

Ma l’attenzione del critico si concentra subito sul protagonista del canto, del quale mette in rilievo l’ironia che si rivela nelle prime battute tese a colpire proprio Dante e il suo “vano” desiderio di sapere. E a questo punto, come aveva fatto nel saggio precedente, Muscogiuri mette a confronto i “caratteri” del personaggio e del poeta che riflettono quelli di due epoche differenti:

     Così due caratteri affatto opposti si trovano faccia a faccia. Se Dante riassume in sé l’infaticabile operosità e la sapienza del secolo decimoquarto, Belacqua è il primo tipo poetico dell’inerzia brutale e intellettiva; se quegli si strugge a domar la natura e a scoprirne i sensi arcani e reconditi, questi non si distanzia dall’ombra di un sasso, si disagia a mala pena, e come inutilmente ha vissuto, indegnamente sopravvive a sé stesso nel mondo dei martìri[47].

Questa lotta dei caratteri, che nella vita reale si sarebbe risolta tutta a favore di Dante, nella finzione poetica subisce un curioso e inaspettato capovolgimento, perché «qui non è la sapienza che spregia l’ignoranza, ma è l’inerzia che si burla del tormento dello spirito umano: qui non è Dante che soverchia Belacqua, ma è Belacqua che rintuzza la vana curiosità del poeta»[48].

A questo punto, a giudizio del Muscogiuri, alle battute ironiche e insolenti di Belacqua, Dante non riesce a reagire, come in altre occasioni, con il suo consueto rigore, anzi in un certo senso ne prova diletto, come emerge dai versi: «Gli atti suoi pigri, e le corte parole / mosson le labbra mie un poco a riso». «Il comico – commenta allora il critico – scaturisce non solo dal gusto e dalle argutezze di Belacqua, ma anche dall’atteggiamento di Dante, che compone le labbra ad un fugace sorriso»[49]. Subito dopo, però, il poeta riprende il suo fiero atteggiamento e ribatte, a sua volta, con una battuta ironica che fa oscurare il volto di Belacqua: «Belacqua, a me non duole / di te omai; ma dimmi perché assiso / quiritta se’. Attendi tu iscorta, /o pur lo modo usato t’ha ripriso?».  Da allora, a giudizio del critico, «l’episodio volge al patetico»[50]. Il «pigro artefice fiorentino» cerca di discolparsi «con artificiose e malinconiche parole» e «sperando d’intenerire il poeta, lo chiama col dolce nome di fratello»[51]. Così si conclude il canto, di cui a questo punto Muscogiuri riassume il tono:

     Ora, se voi cercate in esso la nota giocosa piena e squillante, resterete delusi. Ho detto innanzi che al carattere dell’Alighieri e all’euritmia del poema ripugnavano le situazioni men che drammatiche: e se una certa festività illeggiadrisce quest’episodio, essa non deriva da una successione di tratti comici, ma da alcuni motti che acquistano lepore sulle labbra del pigro artefice fiorentino[52].

Il terzo saggio riguarda Piccarda Donati, protagonista del III canto del Paradiso, che Dante include tra gli spiriti difettivi del primo Cielo della Luna per aver mancato al proprio voto per altrui violenza. Analogamente ai due precedenti, Muscogiuri presenta prima la figura di Piccarda dal lato biografico e storico, ricordando che il poeta aveva chiesto notizie di lei al fratello Forese nel canto XXIV del Purgatorio, dove si trova «il prologo dell’episodio »[53]. La famiglia dei Donati era vissuta in grande intimità, a Firenze, con quella degli Alighieri, negli anni della fanciullezza del poeta, poi la donna si era rinchiusa nel convento delle Clarisse, da dove venne rapita dal fratello Corso e da altri uomini per essere data in sposa da questi a Rossellino della Tosa per motivi di convenienza politica.

Successivamente Muscogiuri, come di consueto, passa all’episodio dantesco, facendo notare che gli aspetti truci di esso sono taciuti perché il Paradiso è

     l’immateriale fatto arte. In quel puro mondo dello spirito tutto è fuggevole e indefinito, meno la grazia divina che piove dall’alto Empireo sui cieli digradanti nello spazio infinito […]. Era quindi naturale che nell’estasi di quel mondo epico-lirico la nuda e cruda realtà non poteva aver forma sensibile, e che il dramma di Piccarda vi giungesse spogliato di qualsiasi passione terrena, o per lo meno lavato di ogni macchia di turpitudine[54].

Dopo aver accennato alle spiegazioni astronomiche di Beatrice del canto precedente, anche qui giudicate negativamente in quanto espresse «in un linguaggio filosofico e astruso» che sfociano in «un’arida tesi»[55], analogamente a quanto aveva affermato De Sanctis in un’occasione[56], Muscogiuri si sofferma sulla lingua e lo stile di Dante, del quale, sempre sulla scia del grande critico, ancora una volta citato esplicitamente («Le similitudini, ha lasciato scritto il De Sanctis, sono le vere gemme del Paradiso»[57]), mette in rilievo la ricchezza e l’importanza delle similitudini: «a rendere musicale e popolare il poema concorse principalmente la forma, nella scelta severa delle parole, nella sapiente collocazione degli accenti, nella fluidità del metro, nella vivacità delle immagini e, soprattutto, nella ricchezza delle similitudini»[58]. E infatti l’episodio di Piccarda – osserv l’autore – si apre «con una delle più soavi similitudini». Essa paragona le anime beate, in un «crescendo meraviglioso d’immagini, dai vetri trasparenti ai fondi non persi della riva, dalle acque tranquille di un lago alla perla che ingemma una candida fronte»[59].

Poi l’attenzione di Muscogiuri si rivolge alla donna in cui si alternano «la natura umana e la natura trasumanata e perciò le sue parole rappresentano una espressione di ricordi mondani e di gioie paradisiache»[60]. Ma al momento dell’incontro con Dante la natura umana prende il sopravvento sull’essenza divina,

     ed in questo riapparire della terra nel puro mondo dello spirito è riposto il pregio insuperabile della Divina Commedia. Anzi dico di più:  Piccarda Donati non sarebbe la più vaga e intellegibile creatura del Paradiso di Dante, se ella, che fu l’eroina di un dramma commovente, salita nell’Olimpo, si fosse già districata di tutti i ricordi e le dolci passioni di quaggiù[61].

Ma mentre Piccarda «si umana», il poeta «s’imparadisa»: «Piccarda lo stimola a riconoscerla, ed egli non sa che rispondere; Piccarda vuol riattaccare il filo della sua storia e rivivere un sol momento nelle memorie di una giovinezza agitata, ed egli la interrompe  e vuol chiarire il mistero della beatitudine»[62]. Sull’alternanza tra natura terrestre e natura celeste, nel Paradiso, De Sanctis si era soffermato nel capitolo della sua Storia della letteratura italiana dedicato alla Divina Commedia: «A rendere intellegibili le parvenze di questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la natura terrestre e ne coglie i fenomeni più fuggevoli, più delicati,  e ne fa lo specchio della natura celeste. Così rientra la terra in paradiso, non come sostanziale, ma come immagine, parvenza delle parvenze celesti»[63].

A questo punto «l’arida teoria delle beatitudini si trasforma sul labbro di Piccarda in un canto di sublime lirismo»[64]. Dante «ritorna ad esser uomo» e rievoca gli anni felici della fanciullezza, chiedendo alla donna quale sia il voto che non ha mantenuto. Allora dal seno di un’idillica elegia nasce una situazione tragica che muore «in un flebile lamento» nel verso: «Dio lo si sa qual poi mia vita fusi!»[65]. In questa continua successione di toni diversi insomma sta, per l’autore, il fascino di questo episodio che «con una bella similitudine comincia […], e con un’altra ancor più bella finisce: “[…] come per acqua cupa cosa grave”»[66].

E con questa osservazione si conclude anche Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia di Muscogiuri il quale, come critico, ha avuto il merito di riprendere la lezione desanctisiana in un periodo in cui essa era stata soppiantatata dalla cosiddetta “scuola storica”, ormai nettamente dominante nella critica letteraria italiana. In particolare, i tre saggi danteschi dello studioso salentino, compresi nel volumetto preso in esame, sono tra i pochissimi tentativi compiuti in quegli anni di seguire da vicino l’interpretazione e il metodo di De Sanctis nell’analisi della Divina Commedia, anche se restano ben lontani ovviamente dal livello raggiunto dai lavori del maestro. Anche per questo motivo, comunque, essi meritano di essere ricordati nell’ambito della critica dantesca degli ultimi decenni dell’Ottocento.

[In «L’Idomeneo», n.31/2021, pp. 65-76]


[1] Cfr, Dal Libro della scuola, in F. Torraca, Per Francesco De Sanctis, Napoli, Perrella, 1910, poi in Id., Appendice a F. De Sanctis, La giovinezza. Memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli, a cura di G. Savarese, Torino, Einaudi, 1961, pp. 454, 456.

[2] A. Ancora e D. Urgesi, a cura di, Francesco Muscogiuri. Atti della Giornata di studi. Mesagne, 29 gennaio 1988, Oria, Italgrafica, 1990.

[3] Cfr. A.L. Giannone, Un critico di scuola desanctisiana: Francesco Muscogiuri, in Id., La “permanenza” della poesia, Studi di letteratura meridionale tra Otto e Novecento, Cavallino di Lecce, Capone, 1989, pp. 7-34,  e anche in Francesco Muscogiuri. Atti della Giornata di studi, cit., pp. 9-39. A questo lavoro si rimanda per un approfondimento dell’attività di Muscogiuri.

[4] F. Muscogiuri, Note letterarie, Lecce, Tipografia editrice salentina, 1877, p. 22.

[5] Id., Il Cenacolo (Profili e simpatie), Roma, Tipografia del Senato, 1878.

[6] Ivi, p. 160.

[7] Per i riferimenti bibliografici di questi saggi si rinvia a A.L. Giannone, Un critico di scuola desanctisiana: Francesco Muscogiuri, cit.

[8] Id., Falstaff, in “Nuova Rassegna, 1893, p. 4 dell’estratto.

[9] F. De Sanctis, Il Farinata di Dante, in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, Torino, Einaudi, 19672, p. 664.

[10] I tre saggi vennero pubblicati sulla «Nuova Antologia» nel seguente ordine: Francesca da Rimini, secondo i critici e secondo l’arte, fasc. I, 1/1869;  Il  Farinata  di  Dante, fasc.  V,  5/1869;   L’Ugolino  di  Dante, fasc.  XII, 12/1869. Essi poi furono ristampati in volume  in F. De Sanctis, Nuovi saggi critici, Napoli, Morano, 1873. Ora in Id. Lezioni e saggi su Dante, cit, pp. 633-704.

[11] F. Muscogiuri, Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, Firenze, Niccolai, 1889, p. 3.

[12] Ibid.

[13] Ivi, p. 4.

[14] Ivi, p. 3.

[15] Ibid.

[16] A. VALLONE, La critica dantesca nell’Ottocento, Firenze, Olschki, 1958, p. 149. Ma cfr. anche E. Ghidetti ed E. Benucci, a cura di, Culto e mito di Dante dal Risorgimento all’Unità: atti del convegno di Studi, Firenze, Società Dantesca italiana, 23-24 novembre 2011, Firenze, Le Lettere, 2013.

[17] Ibid.

[18] F. Muscogiuri,  Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, cit., p. 4.

[19] Ivi, p. 3.

[20] Ivi, p. 5.

[21] Ivi, p. 6.

[22] Ibid.

[23] Ivi, p. 10.

[24] Ivi, p. 13.

[25] Ivi, p. 14.

[26] Ivi, p. 17.

[27] Ivi, p. 20.

[28] Ivi, p. 21.

[29] Ivi, p. 20.

[30] Ivi, p. 22.

[31] F. De Sanctis, Purismo Illuminismo Storicismo, Scritti giovanili e frammenti di scuola, a cura di A. Marinari, t. III, Torino, Einaudi, 1975, p. 1091.

[32] F. Muscogiuri,  Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, cit., p. 21.

[33] Ibid.

[34] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, con introduzione di N.Sapegno, Torino, Einaudi, 19663, p. 226.

[35] F. Muscogiuri,  Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, cit., p. 23.

[36] Cfr.: «L’inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell’altro mondo e s’immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento; peccato eterno, pena eterna» (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., p.201; e anche: «L’inferno è il regno del male, la morte dell’anima e il dominio della carne, il caos: esteticamente è il brutto» (ivi, p. 203).

[37] F. Muscogiuri,  Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, cit., p. 24.

[38] Questo saggio, in una versione differente, era stato già pubblicato, col titolo Un carattere comico nella Divina Commedia,  in “Il Gazzettino letterario”, Lecce, a. I, n. 9, 25 novembre 1978, pp. 129-132.

[39] F. Muscogiuri,  Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, cit., p. 25.

[40] Ivi, p.

[41] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., p. 235.

[42] F. Muscogiuri,  Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, cit., p. 26.

[43] Ivi, p. 27.

[44] Ivi, p. 29.

[45] Ibid.

[46] Ibid.

[47] Ivi, p. 32.

[48] Ibid.

[49]Ivi, p. 33.

[50] Ivi, p. 34.

[51] Ibid.

[52] Ivi, p. 35.

[53] Ivi, p. 37.

[54] Ivi, p. 41. E anche in questa definizione si nota l’influenza di De Sanctis che aveva scritto: «Il paradiso è il regno dello spirito, venuto a libertà, emancipato dalla carne o dal senso, perciò il soprasensibile, o come dice Dante, il trasumanare, il di là dall’umano» (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., p. 257).

[55] Ibid.

[56] Cfr «Qui Dante gitta via l’astronomia che rende spesso così aride le sue albe e le sue primavere» (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., p. 243).

[57] F. Muscogiuri,  Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, cit., p. 42. La definizione di De Sanctis («Questi paragoni di Dante sono le vere gemme del Paradiso») è a p. 263 della sua Storia della letteratura italiana, cit.

[58] F. Muscogiuri,  Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, cit., p. 42.

[59] Ivi, p. 43.

[60] Ivi, p. 44.

[61] Ivi, p. 45.

[62] Ibid.

[63] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., p. 263.

[64] F. Muscogiuri,  Di alcuni caratteri meno popolari della Divina Commedia, cit., p. 46.

[65] Ivi, p. 49.

[66] Ivi, p. 50.

Questa voce è stata pubblicata in Letteratura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *