Andrea Donaera, Lei che non tocca mai terra. Un coro di voci che cantano d’amore

Ma prima dell’amore Andrea non era certo intero: non era intero prima di incontrare Miriam, prima di spiarla dalla finestra mentre comprava i libri nella libreria di fronte al suo palazzo. Non era certo intero mentre leggeva le poesie a una madre che è “malata di vuoto”, che è un “livido enorme con gli occhi”, “cadavere indecomposto” che ha assunto lo stesso colore del divano nel quale è insabbiata da dieci anni riempiendo la stessa forma lasciata da suo padre il giorno in cui si è sparato un colpo in testa. Allora per Andrea è il contrario: Miriam non lo spezza, non si introduce nella sua interezza frantumandola ma rimargina il suo essere dilaniato da un dolore che gli ha riempito il corpo come mille spilli.

Ora Miriam è come congelata, come palpitante dentro una lastra di ghiaccio che, forse, può sciogliersi solo con il calore dell’alito delle persone che le parlano intorno, le parlano addosso, con il calore delle loro bocche che pronunciano parole. Alcune sono parole di dolore. Esiste un dolore in questo romanzo che pesa “seimila miliardi di miliardi di tonnellate”. È il dolore di un bambino che, mentre fa i compiti nella sua cameretta, sente uno sparo nella stanza accanto e da quel momento suo padre non ci sarà più. È il dolore di una moglie che dal momento di quello sparo non si è più alzata dal divano e “le si è fatta di un colore strano, la pelle”. È il dolore di una madre “lunga e rugosa” che sembra lei stessa tutta un dolore, sembra fatta di dolore, sembra lo sputo di un dolore immenso, una donna che ha già perso una sorella e sta al capezzale della propria figlia a raccontarle di un “destino di dolore e di lacrime”. È il dolore di un padre che ama la figlia dal momento in cui ha aperto gli occhi, che “si capiva subitu ca poi diventavi bellissima”. È quello di un’amica che è lontana ma che pensa incessantemente a Miriam, così, addormentata, e lei invece non può dormire, “che dormire senza pensare a te è proprio difficile, è proprio una cosa che stanca”.  

Ma questo romanzo non è un romanzo di dolore. È un romanzo d’amore:

“Penso che il mio, se tu non ti svegli, Miriam, è un amore che si può soltanto percepire. Non toccare, non vedere, non fare. Un amore che non tocca mai terra. Se non ti svegli”.

L’amore di Andrea ha bisogno che Miriam si svegli per poter esistere. Miriam deve ritornare perché l’amore di Andrea è un amore fatto di “ancora”. Ancora la sua voce, ancora la sua bocca che brucia, ancora le sue canzoni. Un ancora che possa smentire il fatto che “nessuno torna mai”, un ancora che è anche àncora a cui tenersi (“Ci sono io. Tieniti a me”), che è solida, che non va via, che ritorna. Ancora i suoi occhi, gli occhi di Miriam che sono chiusi, ma dietro le palpebre chiuse sono i più belli che si siano mai visti, sono “bellissimi e devastati”, “come se dietro c’è fisso un dolore”, in quegli occhi “sembra che tiene il mare dentru”, il mare che ora non è più azzurro ma è il mare che la culla, nel quale sta sospesa come se galleggiasse dentro acqua livida, mare che si è fatto magma nero come gli occhi di Papa Nanni, come il Male che questo personaggio rappresenta. Papa Nanni è il solo personaggio non “parlante”, non ha voce autonoma, come gli altri, ma vive nelle voci e nelle narrazioni altrui. Non ha una voce eppure è presenza ingombrante, aleggia su tutta la vicenda perché è il Male che rappresenta ad aleggiare, a imporsi sulle vite dei personaggi, a ostacolare le loro azioni, un Male che si nasconde dentro un mistero che si districa nell’alternarsi delle voci, un mistero che ha origini lontane, radicato nel passato ma vivo nel presente, che riguarda due Miriam diverse ma uguali, con gli stessi occhi e lo stesso spazio tra i denti. Ma per quanto potente e ingombrante sia, al personaggio di Papa Nanni manca qualcosa che, invece, gli altri personaggi hanno, qualcosa che rischiara il bosco oscuro in cui ciascuno si muove, un bosco interiore che può essere illuminato solo da quel qualcosa che a Papa Nanni manca. È l’amore. Le parole d’amore che i personaggi rivolgono a Miriam sono la sola medicina, la sola cura che può riportarla alla vita (amore e vita non sono forse la stessa cosa? Andrea non ha forse iniziato a sentirsi vivo da quando ha iniziato ad amare Miriam?). Papa Nanni, il Male che è in lui, mette in pericolo le esistenze di queste voci, le loro coscienze, le confonde e le minaccia, le irretisce e le ferisce. “Ma l’amore è più forte del Male. No?”.

C’è qualcosa che trema in questo libro.

Trema Mara di rabbia di fronte a Papa Nanni.

Trema Gabry di commozione mentre registra le sessioni di talking cure per la sua migliore amica. Tremano le mani di Lucio e trema la sua voce mentre parla come può e come sa, in un italiano un po’ strano pieno di “u”, alla figlia in coma.

Tremano le pupille di Andrea mentre è sopraffatto dall’emozione di fronte al volto immobile di Miriam addormentata.

Il buio trema.

“La luce trema. O forse sei tu”.

Tremi tu che il romanzo lo leggi.

[“Clinamen”, Novembre 2021]

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