Ma quello che ha suscitato stupore e grande interesse è la cronologia di questi materiali, che permettono di attribuire il relitto alla prima metà del VII sec. a.C.: si tratta dunque del più antico relitto di età storica, sinora rinvenuto nel Mediterraneo. Per la preistoria si possono citare le navi scoperte lungo la costa turca, come il celebre relitto di Karaburun, contenente oggetti diversi provenienti dal mondo miceneo e dall’Egitto.
Quello di Otranto richiama subito alla mente la scena raffigurata su un cratere della fine del secolo VIII, rinvenuto a Ischia (l’antica colonia greca di Pithecusa) con una drammatica scena di naufragio, in cui la nave appare rovesciata e i marinai galleggiano inerti in un mare pieno di pesci, il più grande nell’atto di divorare la testa di un malcapitato, mentre un solo marinaio tenta ancora di salvarsi nuotando. Per un periodo così antico il contesto otrantino costituisce un rarissimo documento del commercio, così come lo descrive Omero, in particolare nel libro I dello Odissea (versi 180-184), quando Telemaco parla con Atena sotto le mentite spoglie di un re che proveniva dalle regioni vicine ad Itaca, abitate dai Tafii, amanti dei remi (phileretmoisin), che percorrono il mare colore del vino (oinopa ponton).
“Sono signore dei Tafi, che volgono ai remi le cure: Mente sono io, son figlio di Anchialo senno divino. Ed ora, col mio legno son qui, coi compagni, diretto, sopra il purpureo mare, a genti di barbara lingua, bronzo cercando, a Temèse; ed io reco lucido ferro” (traduzione di Ettore Romagnoli).
Ma quali erano le genti di barbara lingua (allotroous, allotrie appunto), verso cui si dirigeva la nave affondata nel Canale? Bisogna pensare che, nella prima metà del VII sec. a.C. questa zona era direttamente interessata dalle attività della città dell’Istmo, governata da una dinastia di re (i Bacchiadi); alla fine del sec. VIII essi avevano inviato coloni a fondare le nuove città di Corfù e di Siracusa nella Sicilia orientale. Verso il Canale di Otranto, tra i mari Adriatico e Ionio, giungevano itinerari marittimi collegati all’Europa centrale e qui era possibile intercettare merci preziose come l’ambra del Baltico, i minerali ferrosi della Slovenia e delle Alpi, il rizoma dell’iris che cresceva nella vallata del fiume Neretva e che forniva la materia prima per i profumi che i Corinzi sapevano scambiare con altri beni, in tutto il Mediterraneo. Ma quello degli schiavi era un’attività ancora più redditizia, come racconta Omero. I marinai greci preferivano in questo periodo non inoltrarsi nell’Adriatico (iratum mare per eccellenza), per timore delle tempeste e soprattutto per il pericolo dei pirati.
I materiali del relitto vanno quindi cercati nelle terre che si affacciano sul Canale: lungo le attuali coste albanesi non sono presenti materiali di importazione greca così antichi (in queste zone soltanto in seguito, tra fine VII e inizi VI saranno fondate colonie elleniche). È invece lungo la costa salentina, che gli scavi recenti hanno portato alla luce una quantità impressionante di ceramiche e di contenitori da trasporto di produzione corinzia, del tutto simili a quelli rinvenuti nel relitto. Otranto costituiva il “port of trade”, in cui potevano essere scambiati beni di provenienza diversa, come nelle vicine città messapiche di Muro Leccese e Vaste, o nel grande santuario di Castro dove già si venerava una divinità femminile della fecondità, legata al mondo infero, ma anche al mare, in un punto del Capo Iapigio dal quale si traguardava la costa albanese e le isole greche. Appare dunque altamente probabile che la sfortunata nave affondata in mezzo al Canale, cercasse di raggiungere Otranto.
Solo una piccola parte del carico è stata recuperata e già costituisce una ricchezza ineguagliabile per la storia più antica del Mediterraneo; non resta che auspicare, come si fece a Taranto all’unanimità nel recente Convegno sulla Magna Grecia, che siano forniti alla nuova Soprintendenza i mezzi necessari a completare un’opera così importante e necessaria.
[“La Repubblica Bari” del 16 dicembre 2021]