Pasolini e la dittatura del presente

Quest’idea suggestiva di passato inteso illusoriamente come terra promessa si dissolve, però, di fronte alla completa affermazione del neocapitalismo, che, attraverso inediti meccanismi di acculturazione, determina, secondo Pasolini, un vero e proprio «genocidio culturale» – concetto, questo, come spiega Voza, non molto lontano dalla nozione di apocalittica borghese di Ernesto de Martino. A partire dagli anni Sessanta fino al suo drammatico assassinio, Pasolini fa del tema dell’omologazione culturale il centro focale della sua poetica e della sua ideologia: riflette sul concetto di falsa tolleranza, che considera una delle armi più insidiose dell’edonismo consumistico («La tolleranza» – scrive Pasolini – è l’aspetto più atroce della falsa democrazia. Ti dirò che è molto più umiliante essere “tollerati” che essere “proibiti” e che la permissività è la peggiore delle forme di repressione»); non perdona al Potere la feroce manipolazione non solo dei modi di pensare delle persone, dei loro atteggiamenti, del loro modo di vestire e di parlare, ma addirittura dei loro stessi corpi, reificati, degradati e insomma sottoposti a una violenza senza precedenti: perciò Voza parla di Pasolini come dell’«intellettuale-artista che più tenacemente, più estremisticamente, all’interno della sua ormai impossibile poetica del regresso, è andato interrogando il nesso corpo-potere».

Nell’ultimo decennio della sua attività artistica, Pasolini non oppone più, scrive Voza, «il passato contro il presente», ma considera «il presente come assoluto»: questo suo nuovo atteggiamento di desolante constatazione di un regime dittatoriale ormai irreversibile si esprime non più attraverso la lotta, ma «attraverso la consapevolezza estrema dell’“urlo”, ovvero del “gesto essenziale del rifiuto”, “totale” e “assurdo”: da scagliare contro i “rapporti di intimità” col Potere, vale a dire contro la sua molecolarità pervasiva, capace di penetrare nelle fibre più interne della vita».

Sono gli anni terribili dell’abiura dalla trilogia della vita e dell’«ipertrofia metascritturale» – così la definisce Voza, già autore di un importante saggio su questo argomento, La meta-scrittura dell’ultimo Pasolini (Liguori, 2011)  – del «poeta in falsetto», gli anni del Pasolini ‘luterano’ e ‘corsaro’, gli anni di Salò e del Tetro entusiasmo della sua raccolta estrema, La nuova gioventù. Sono gli anni in cui Pasolini, seppur sconfitto perché sa che la poesia, in questo contesto, è impossibile e comunque incapace di intervenire su una realtà sempre più orrenda, continua ostinatamente a urlare tutto il suo disprezzo contro la dittatura del presente, e, insomma, la sfida ancora, col «proposito di rappresentarne l’estrema irriconoscibilità».

[Recensione a Pasquale Voza, Pasolini e la dittatura del presente, Manni, 2016, in www.centropens.eu;]

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