Alla luce delle conoscenze successive, in verità, questa ipotesi ci sembra ormai difficilmente sostenibile in quanto Bodini, che era arrivato in Spagna verso la metà di novembre del ‘46, in quei primi mesi della sua permanenza era tutto preso dall’esplorazione del paese straniero, come dimostrano i reportage del Corriere spagnolo, oltre che dall’attività di traduttore e mediatore culturale, e probabilmente non aveva più alcun interesse a scrivere un romanzo ambientato nella sua città all’inizio degli anni Trenta.
Per questo, a nostro avviso, la data di composizione va anticipata di qualche anno. Quasi sicuramente lo incominciò, tra il 1942 e il 1944, a Lecce, dove lo scrittore, ritornato dopo la laurea conseguita a Firenze nel 1940, ebbe un incarico come supplente di italiano e latino presso il locale Liceo scientifico “Cosimo De Giorgi”, dopo aver insegnato per un anno presso il Liceo classico “Pietro Colonna” di Galatina. A questa esperienza, infatti, l’io narrante fa riferimento nelle prime righe del romanzo, allorché scrive di dover andare «la mattina presto a scuola, dove i miei alunni indovineranno la mia sfortuna [al gioco]» (p. 25), fornendo ai lettori, in tal modo, una precisa informazione sul suo lavoro di insegnante nella città dove si svolgono le vicende narrate. D’altra parte, non ci sono dubbi che si tratti di un’opera a carattere fortemente autobiografico, essendoci un’indiscutibile relazione d’identità fra autore, narratore e personaggio principale, il quale, fra l’altro, si chiama proprio Vittorio.
È probabile poi che Bodini abbia ripreso la stesura del romanzo a Roma, dove si trasferì, tra il 1944 e il ’46. In una lettera dalla capitale a Oreste Macrì del 2 novembre 1946, immediatamente prima quindi della partenza per Madrid, così scriveva, infatti: «Per “Costume” – Io ho dato già a Mucci alcune “Pagine di romanzo” d’una materia e un colore leccesissimi – e siccome è un pezzo del romanzo che un giorno o l’altro finirò di scrivere, voglio sentire il tuo giudizio»[1]. E, in effetti, un capitolo di esso, col titolo L’amore in provincia, venne pubblicato con alcune varianti sulla rivista romana “Il Costume politico-letterario”, n. XIX-XX del 3 maggio 1947, quando lo scrittore si trovava ancora in Spagna. Una volta tornato definitivamente in Italia, nell’aprile del ’49, non ebbe più tempo e voglia di terminarlo né di sottoporlo a una revisione che nemmeno successivamente ha più fatto.
Ma qui il genere delle scritture autobiografiche si fonde con quello del romanzo di formazione, il cosiddetto Bildungsroman[2], nel senso che viene sviluppata una narrazione dell’io proprio nei modi e con le caratteristiche del romanzo di formazione. Il fiore dell’amicizia, infatti, delinea l’evoluzione del protagonista, Vittorio, verso la maturazione in un periodo particolare della sua vita compreso tra i diciotto e i diciannove anni, anche se non mancano alcuni flash back relativi ad anni precedenti. Un’ideale continuazione di esso si può considerare il racconto Il gobbo Rosario[3], di qualche anno posteriore, nel quale figura un altro tema comune al Bildungsroman, il trasferimento del personaggio principale, per motivi di studio, dal luogo natio in un’altra città dove prosegue la sua formazione.
Nel romanzo incompiuto c’è infatti la storia di un giovane che fa il suo ingresso nella vita attraverso alcuni riti di passaggio: la ribellione nei confronti della scuola e della famiglia, l’inserimento nel gruppo di amici, l’iniziazione al sesso, le relazioni sentimentali. Gli amici, soprattutto Carmine e Albertino, un po’ più grandi di lui, svolgono una funzione di guida, sostituendo in un certo senso la figura paterna, assente. Gli fanno conoscere ambienti nuovi della città, gli insegnano a giocare a biliardo, a rubare i frutti dagli alberi nelle campagne, gli danno consigli su come comportarsi con le donne e su come assicurarsi un comodo futuro con un buon matrimonio. Vittorio, infatti, è consapevole della sua «inesperienza» (p. 36 ) e pensa a quanto gli resti «ancora da imparare per essere come Albertino» (p. 57). Dal canto suo, Carmine, che conosce bene l’amico, sostiene di avere «un po’ più d’esperienza» (p. 88) di lui.
Ma anche altre esperienze di questo periodo servono, in fondo, al narratore-protagonista per conoscere meglio se stesso. È il caso della effimera relazione con la prostituta Nelly, a proposito della quale egli confessa a un certo punto: «e invero non era tanto in una stanza che io penetravo, guidato da lei, quanto in una ragione, fino a quel momento confusa, e tutto ciò che imparavo di lei lo imparavo anche di me» (p. 63).
Non a caso, Il fiore dell’amicizia parte proprio da un evento che rappresenta la rottura dell’equilibrio iniziale nella vita di Vittorio: l’espulsione da tutte le scuole del Regno (che, com’è noto, avvenne realmente per Bodini proprio l’ultimo anno di liceo) e il conflitto inevitabile, che ne deriva, con la famiglia, soprattutto con la madre. Privo quindi di quelli che sono i cardini della sua educazione, i punti fermi, gli ancoraggi della sua esistenza, come ammette egli stesso («… ero sempre vissuto nel giro della scuola, anche quando più mi pareva di calpestarne leggi e principi», p. 30; «Come dicevo, nonostante la mia scapestrataggine, ero vissuto fino ad allora sempre nell’ambito della scuola e in funzione di essa…», p. 34), il protagonista del romanzo incomincia la sua formazione con gli amici, che gli permettono l’esplorazione di sé, anche se non si tratta ancora di un sé definitivo:
Ma a me di tutto questo m’importava assai poco. Specialmente i deserti erano la cosa che aveva meno posto in quella vita che mi fantasticavo in segreto, e alla quale mi andavo preparando coscienziosamente, come credo facessero molti di noi, ma certamente Albertino e Carmine (p. 66).
Fa parte di questa progressiva conoscenza di sé anche la scoperta, sia pure dissimulata, della propria vocazione letteraria, rinvenibile in alcuni brani del romanzo dai quali si può ricavare una sorta di “ritratto dello scrittore da giovane”. Si veda il riferimento alle composizioni poetiche nel brano in cui Albertino rivela a Nelly a proposito del suo amico: «È romanticissimo, e scrive persino delle poesie» (p. 57). Ciò causa una forte irritazione a Vittorio per quella che definisce una «stupida bugia» (p. 57), ma, d’altra parte, qualche pagina prima aveva confessato: «ero un ragazzo molto studioso e avrei passato la notte sui libri se mi fosse stato possibile» (p. 42). Inoltre rivela di essere «avidissimo» (p. 42) di romanzi che leggeva la notte, accendendo furtivamente la luce, quando la madre dormiva, e successivamente, ancora, racconta che accetta di leggere a Nelly, che glielo aveva chiesto, poesie di Pascoli e d’Annunzio «alla finestra mentre calava la sera» (p. 69), mentre nega nuovamente di comporne di sue.
Ma questa esplorazione di sé s’intreccia strettamente, nel romanzo, con quella della propria città, verso la quale il narratore-protagonista, peraltro, manifesta apertamente la propria avversione:
e che essa [Nelly] era in fondo assai più simile ad altre cose che conoscevo e detestavo di quel paese, una scontentezza secca e irrequieta, che gira a folle fra le cose, coltello cocomero palme, e poi pane, vino, pietra di tufo, e la miseria i gridi delle rondini ecc. ecc (p. 56).
A Lecce, infatti, Vittorio, proprio come Stephen Dedalus a Dublino (Joyce, con A portrait of the Artista as a Young Man e le altre opere era stata una lettura fondamentale negli anni fiorentini, come racconta egli stesso[4]), si sente imprigionato e non vede l’ora di fuggire:
Così pure, non m’importava nulla di conoscere a fondo la vita dei nostri cittadini; questo sembrava potesse assicurar loro dei vantaggi, di diversa natura. Ma io, che non avevo ancora un’idea chiara su ciò che avrei fatto nella vita, sentivo però con chiarezza che sarei andato molto lontano, che era altrove dove avrei dato battaglia (p. 115).
A dire il vero, non c’è ancora, come avverrà in seguito, un’interpretazione della città che adesso viene solo descritta in maniera realistica attraverso alcune “divagazioni” su luoghi e ambienti particolari, che compongono una “topografia” letteraria limitata però, prevalentemente, alla zona della stazione ferroviaria dove Bodini abitava. Manca, ad esempio, qualsiasi riferimento al barocco, che diventerà la chiave di lettura principale per penetrare nell’«anima segreta» (p. 30) di Lecce e dei sui abitanti. È significativo però che, un paio di volte, compaia già l’immagine del «vuoto» che è il concetto-base dell’interpretazione bodiniana del barocco leccese (l’ horror vacui), anche se esso ora è un dato puramente fisico, collegato a due luoghi cittadini: la piazza principale, che – sostiene – «ora […] non è più una piazza, è un vuoto» (p. 33) e il piazzale che è «un vuoto improvviso» (p. 41) alle spalle del Castello».
Ma, a leggerlo attentamente, questo romanzo si rivela un vero serbatoio di figure, motivi, immagini che l’autore svilupperà successivamente. Valli ha messo in rilievo soprattutto i rapporti con le poesie, ma numerosi sono i punti di contatto con i racconti e le prose, come in primo luogo quelli poi raccolti da chi scrive nel Corriere spagnolo [5] e in Barocco del Sud. Proviamo allora a dare qualche esempio attraverso una ricerca intratestuale, all’interno cioè dei testi bodiniani.
Intanto, ci sono alcuni personaggi presenti nel romanzo che compariranno anche in altri scritti successivi. Valli ha citato giustamente la figura dello zio Giovanni, che compare in Appendice e che, col nome di zio Antonino, ritorna nel racconto Il giro delle mura[6], ma anche quella del gobbo, proprietario del Cinema-Teatro San Carlino, (cap. VII), si ritrova, non a caso, proprio nel racconto Il gobbo Rosario, scritto qualche anno dopo, tra il 1948 e il ’49[7].
Tra i motivi presenti, spicca quello del paesaggio che sembra anticipare la riflessione matura. Si veda, ad esempio, l’immagine del cielo «che schiaccia contro una pianura di calce i pochi alberi di fico e le siepi irte dei fichidindia» (p. 64). Ebbene, essa ritorna quasi uguale in quel testo fondamentale della poetica bodiniana, intitolato Pitagora è uno delle nostre parti, dove c’è una rappresentazione metafisica del paesaggio salentino, luogo del duello interminabile tra terra e cielo, tra essere e non-essere: «Come un enorme coperchio, un cielo burocratico, stirato fra orizzonte e orizzonte, grava e schiaccia ugualmente il filo d’erba e l’ulivo, la torre aragonese diroccata, i muri sgretolati, i fichi d’India…»[8]. Questa sorta di ‘metafora ossessiva’ compare anche in Barocco del Sud, una vera summa della riflessione bodiniana: «Un cielo che schiaccia ogni cosa, e in cui un albero finisce col non essere più alto d’un filo d’erba»[9].
Ma qui per la prima volta sono messe in rilievo dallo scrittore anche alcune caratteristiche dei leccesi che poi saranno approfondite alla luce della sua organica interpretazione, quali la passione del gioco, che «è l’unico divertimento che ci si possa prendere in questo paese dopo una giornata di lavoro» (p. 25), e la «naturale e inutile sottigliezza» di «questo paese d’avvocati» (p. 113). E in Barocco del Sud scriverà: «La volubilità, i sofismi forensi o del cuore, gli orologi fermi, la passione del gioco sono altrettanti modi per sfuggire al senso del vuoto che è alle spalle di questa pianura dove l’Europa ha termine, e da cui ognuno coltiva segretamente un progetto di fuga e di effettiva avventura»[10]. La «mania del pettegolezzo» (p. 43), tipica dei leccesi, diventa poi, nel racconto Il gobbo Rosario, «l’indole indiscreta dei suoi concittadini»[11] e nella prosa di argomento spagnolo, Torero per grazia di Dio, «quel gusto vigliacco a ridurla [la vita d’un uomo] a un mucchietto di ceneri di pettegolezzi e di scherni»[12].
Non mancano nemmeno alcuni motivi polemici, ripresi successivamente da Bodini, contro mentalità e abitudini inveterate dei salentini che a volte li danneggiano irreparabilmente. Si veda l’accusa di «pigrizia» nei confronti dei proprietari terrieri, che si lasciano portare via dai «milanesi» il loro vino, «ciò che dovrebbe dare il benessere a un’intera regione» (p. 59). Com’è noto, questa polemica verrà sviluppata nella prosa Squinzano, vino a Milano, dove si ripete, quasi con le stesse parole, che una delle cause dell’arretratezza economica del Salento è «la pigrizia dei produttori locali, che fatta l’uva hanno sempre aspettato che gliela venissero a comprare dal Nord»[13]. E si noti anche, a questo proposito, come l’immagine del «nostro vino nero e denso che si direbbe pigiato dai diavoli, tanto è forte e maligno» (p. 87), anticipi molto da vicino quest’altra, che si trova nella prosa citata: «il vino [,,,] ha un cupo spessore in cui esalano i zolfi dei diavoli conficcati nelle profondità di questo suolo»[14].
Un altro motivo polemico che sarà alla base della poesia bodiniana è quello della lontananza, anzi dell’assenza, dello Stato dal Sud: «Valeva la pena di mangiarsi l’anima per un governo lontano che non sapeva neanche che esistevamo, e per il quale tutta intera la nostra città non era altro che un nome su una carta geografica?» (p. 112). Il tema della separatezza del Meridione dal resto della nazione ritorna poi, oltre che nella Luna dei Borboni, dove assume anche connotazioni esistenziali, nella prosa La Puglia contro Pietro Micca[15], dove è sviluppato il motivo dell’emarginazione della storia del Sud rispetto a quella italiana.
Anche un aspetto particolare del costume meridionale, che Bodini coglie nel romanzo («la vigilanza strettissima» alla quale sono sottoposte le figlie dai genitori, i quali intervengono «troncando ogni cosa sul nascere» ogni volta che «s’accorgono di qualche simpatia pericolosa», p. 89), ricompare nelle prose Balletto delle fanciulle del Sud, pubblicato per la prima volta il 14 novembre 1946 sulla “Fiera letteraria”, («Le madri erano sedute sulle panchine verdi fra le aiuole, in luogo donde meglio potessero assistere al loro passaggio»[16]) e L’amore in Puglia ha il muso storto, nelle quali emerge il motivo del matriarcato («la dominazione materna»[17]) che per lo scrittore sarebbe alla base della società meridionale.
Certe immagini ritorneranno poi, oltre che nelle poesie, anche nelle prose. Si veda l’immagine ricorrente dei carri provenienti dalle cave della periferia cittadina e dei carrettieri. In Flamenco, com’è noto, proprio il canto lamentoso dei carrettieri salentini costituirà la spia per stabilire l’analogia tra il popolo spagnolo e quello meridionale. Ma in questa prosa compare anche l’immagine del caldo che d’estate tormenta le notti dei leccesi («Era una di quelle notti estive, illuminate da una luna sinistra a forza d’esser bianca, nelle quali non si può chiudere occhi per il caldo»[18]), come nel romanzo:
Nelle case si tenta di dormire nei vasti letti al buio, rivoltandosi continuamente. Si dorme senza lenzuolo che dopo un poco ci si troverebbe tutto incollato al corpo per il sudore; il lenzuolo invece si usa annodarlo ai quattro angoli alla spalliera del letto, dopo averlo inzuppato d’acqua» (p. 85).
E anche l’immagine delle statue di cartapesta, che si vedono per le strade della città davanti alle botteghe degli artigiani («Non incontrammo che qualche mendicante disteso a dormire sotto un portico, e dei Cristi e delle Madonne in cartapesta, a grandezza naturale, davanti alle botteghe ad arrostire al sole», p. 86), si ritrova nel racconto La morte fatta in casa («Le prime piogge dell’inverno […] esiliano i San Luigi e i Sant’Antonio di cartapesta dal muro dove le loro colle e le passate di calce si sono asciuttate al sole nella buona stagione»[19]), oltre che nella prosa Il paradiso di cartapesta, dedicata specificamente all’artigianato della cartapesta[20]; come pure l’immagine delle processioni del Venerdì santo con la statua del Cristo morto che si tengono in città («quando passa, oscillante sulle spalle dei portatori, la bara di tulle bianco in cui si vede disteso il corpo di Cristo morto, e su di essa un angelo che vola con le piccole bianche ali aperte», p. 50) ritorna in Cristo sull’Escorial («un simulacro simile a quelli che nelle nostre chiese di paese venerano i contadini del Sud»[21]); mentre quella delle madri che si precipitano a riprendere i figli dalle strade («Talvolta, se una carrozza girava l’angolo, al rumore delle ruote sul lastrico dirupato da ogni porta uscivano madri scarmigliate imprecando contro i figli con stridule voci e richiamandoli in casa, o precipitandosi come furie a prendere il bimbo più piccolo seduto in mezzo alla strada», p. 45) si ritrova in Torero per grazia di Dio («o le madri inseguire i bambini, rapirli dai vicoli, al passaggio d’una automobile, saettandogli sulla nuca la selvaggia ‘i’ di assassiiino!”[22]).
Per finire, frequentissima nel romanzo è l’immagine del bianco della calce delle case salentine, quasi un simbolo del Sud bodiniano, che compare fin dalla prima delle Foglie di tabacco, accostata a una condizione esistenziale («Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado»[23]).
Come si vede, insomma, si tratta di nuclei concettuali, motivi, immagini, ancora allo stato quasi embrionale che, sottoposti a un’ulteriore elaborazione, ritorneranno con maggiore forza e consapevolezza nella produzione matura ed entreranno a far parte di quell’organico ‘sistema’ interpretativo del Sud che sarà alla base della poesia e della prosa più alta di Bodini. Ed è anche questo che rende estremamente interessante e degno di attenzione Il fiore dell’amicizia, nonostante la sua incompiutezza e la mancata revisione da parte dell’autore.
[Prefazione
a V. Bodini, Il fiore dell’amicizia.
Romanzo, a cura di D. Valli, Nardò, Besa, 2014]
[1] Questa indicazione mi è stata fornita da Anna Dolfi che sta curando il Carteggio tra Vittorio Bodini e Oreste Macrì, in corso di pubblicazione, e che qui ringrazio.
[2] Su questo genere letterario cfr.: F. Moretti, Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti, 1986; Il romanzo di formazione nell’Ottocento e nel Novecento, a cura di M. C. Papini, D. Fioretti, T. Spagnoli, Pisa, Edizioni ETS, 2007.
[3] Ora in V. Bodini, Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa, 2003, pp. 23-38.
[4] Cfr. V. Bodini, Compianto di Joyce, in «Vedetta mediterranea”, n. 1, 23 marzo 1941; Id., Firenze, in Appendice a R. Aymone, Vittorio Bodini. Poesia e poetica del Sud, Salerno, Edisud, 1980, pp. 124-135.
[5] V. Bodini, Corriere spagnolo (1947-1954), a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa, 2013 (I. ed., Lecce, Piero Manni, 1987).
[6] Ora in Barocco del Sud, cit., pp. 53-66.
[7] Ivi, pp. 23-38.
[8] Ivi, p. 115.
[9] Ivi, p.79.
[10] Ivi, p. 81.
[11] Ivi, p. 32.
[12] In Corriere spagnolo, cit., p. 98.
[13] In Barocco del Sud, cit., p. 89.
[14] Ivi, p. 88
[15] In Barocco del Sud, cit., pp. 123-128.
[16] In V. Bodini, La lobbia di Masoliver e altri racconti, a cura di P. Chiarini, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1980, p. 50.
[17] In Barocco del Sud, cit., p. 102.
[18] In Corriere spagnolo, cit., p. 53.
[19] In Barocco del Sud, cit., p. 39.
[20] Ivi, pp. 75-78.
[21] In Corriere spagnolo, cit., p. 112.
[22] In Corriere spagnolo, cit., p. 97.
[23] V. Bodini, Tutte le poesie (1932-1970, a cura di O. Macrì, Milano, Mondadori, 1983, p. 91.