Camilleri e la memoria come eredità

Andrea Camilleri racconta e riempie il buio  con un universo di colori immaginari, fantastici, con un meraviglioso onirico che in qualche modo compensa il suo sguardo sbarrato.
Lui sa perfettamente che, al principio, non c’è una scrittura ma una voce. Probabilmente è questa la ragione essenziale del suo Tiresia raccontato con la voce. E’ il ritorno all’origine, alla radice, all’essenza della narrazione. Al respiro che si fa una sola cosa con l’aria, con il vento, l’umidore, la calura, il silenzio. Al racconto che non è mai definitivamente chiuso, che si rende disponibile alla sovrapposizione delle voci, ad una continua riformulazione, alla contaminazione, al rimando, all’innesto, alle interferenze, alle manipolazioni, che si sfrangia in digressioni, si interrompe, riprende, si dilata, che subordina la sua possibilità di esistenza esclusivamente alla possibilità della memoria.

Per Camilleri memoria vuol dire profondità abissale e altezza vertiginosa.

A proposito dei suoi “Esercizi di memoria”, disse che un libro così non si può scrivere a quaranta, a cinquanta, a sessant’anni; un libro così si può scrivere soltanto a novanta. Perché la vita è prima, e poi te la ricordi.

Perché c’è un tempo per ogni scrittura. C’è un tempo per la scrittura come una cattedrale gotica e un tempo per la scrittura come un capanno sulle dune.

C’è un tempo per la scrittura, come per ogni altra condizione della vita.

Per Andrea Camilleri si era fatto il tempo di una scrittura essenziale. Irripetibile. Come il giorno, l’ora, l’istante di una vita: irripetibili.  Si era fatto il tempo di una scrittura come un segno del corpo, sul corpo. Che insieme ad esso diviene, con esso si assimila, s’identifica. Si era fatto il tempo di una scrittura  che diceva del tempo. Perché a un certo punto non si può raccontare  nient’altro che il tempo; non si può dire altro se non la nostalgia, se non il dolore, le gioie, gli stupori,  i sogni, i trasalimenti, le emozioni, i rimpianti, i travagli, gli amori, nella trasparenza di un’immagine, in una parola, in una scena che riaffiora dalla profondità della lontananza.

Diceva che tutto era cominciato  nella casa dei nonni, dalla lettura di “Alice nel paese delle meraviglie” che gli faceva sua nonna Elvira. Fu lei a parlargli di Alice, del gatto senza ghigno, del cappellaio magico. 

Ma la morte della madre di sua madre, non è mai riuscito a scriverla. Lui che ha scritto più cento libri non è riuscito a scrivere la storia di quella morte. E’ riuscito solo a raccontarla a voce. Non si era mai spostata da Palermo, sua nonna. Poi a novant’anni andò a Roma a vedere Papa Giovanni. Vide Papa Giovanni e poi volle andare a vedere la villa di Adriano. La vide. Su una specie di ringhiera disse: tutta questa bellezza è insostenibile. Piegò la testa e morì sulla spalla di sua figlia. Morì di bellezza, raccontava Camilleri.

Ha scritto più di cento storie ma questa storia non ha saputo  scriverla. Chissà perché. Forse perché, lui, architetto di trame, tessitore d’intrecci, si ritrovava a confrontarsi con un gesto che stringe tutte le possibili trame e i possibili intrecci. Con quella testa piegata, con quella bellezza che dilaga negli occhi e li chiude in un sonno senza risveglio.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 12 dicembre 2021]

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