di Antonio Errico
Camilleri: un ricordo, una sera.
La voce arrochita che pareva provenisse dall’antro di una antichità misteriosa. Le parole scandite che s’inchiodavano nell’aria. Le mani che si aprivano e si congiungevano, le braccia che si stendevano ad abbracciare la sera, e poi si appoggiavano sul petto, come per cercare un riposo. Il suo volto che sembrava scolpito nella pietra. Gli occhi coperti di buio per scrutare oltre il buio.
Era l’11 giugno del 2018, quando nel teatro greco di Siracusa Andrea Camilleri diventò Tiresia.
Diceva che a
novant’anni aveva sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa
sia l’eternità. Ma forse l’eternità si può percepire soltanto attraverso
l’azzardo di un vaticinio, di una profezia, con l’energia di uno sguardo cieco
che trapassa la densa fumaglia del presente e raggiunge orizzonti di verità diversamente
impensabili, e vede una luce che senza quella cecità non si può vedere.
La voce vortica nell’aria. L’indovino,
la creatura multiforme, fa esperienza dell’azzardo di una profezia, penetra
nell’universo scuro dell’incognita e lo attraversa con il raggio di un pensiero
che vorrebbe metterci sull’allerta come sentinelle a difesa dei nostri destini.