La novità introdotta da Benjamin è che la riproducibilità dell’opera d’arte distruggerebbe quella che definisce “l’aura” che egli concepiva come qualcosa di irripetibile, presente soprattutto nelle opere antiche. Era un qualcosa di originario che ne garantiva l’autenticità, proveniente da manipolazioni tecniche che dovevano apparire ogni volta uniche e non totalmente imitabili. A ciò si aggiungerebbe che la “espositività” dell’opera, cioè la sua fruizione, era limitata a pochi, non percepita da ognuno e ovunque, come accade oggi per ogni immagine che sia realizzata in serie. Perciò la teoria di Benjamin è per la irripetibilità dell’opera d’arte.
Naturalmente, l’opera irripetibile è l’opera “classica”, come vuole Edward Hopper: quando un’opera diventa “classica” è un’opera d’arte in senso assoluto, cioè espone un principio indiscusso per secoli[54]. Kierkegaard, nel suo scritto sul Don Giovanni di Mozart, come abbiamo visto, aveva elaborato una definizione della classicità e della irripetibilità dell’opera classica, affermando che quanto più è astratta e quindi povera l’idea, quanto più è astratto e quindi povero il medium, tanto maggiore è la probabilità che non si verifichi alcuna ripetizione.
È evidente che l’aura è elemento indotto, in maniera strategica o come fatto automatico dai critici. Guardiamo ad un esempio esoterico rispetto a questi temi. Nella storiografia filosofica. Giambattista Vico si può dire un filosofo ignorato prima che la scuola napoletana di metà Ottocento e poi, soprattutto, Benedetto Croce pubblicassero opere su di lui. Non va dimenticato che Hegel, nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cita Giulio Cesare Vanini e non Giambattista Vico, tanto per rimanere nell’ambito dei pensatori meridionali e senza nulla togliere al pensatore di Taurisano, mandato al rogo a Tolosa dall’Inquisizione. Vico, solo dopo la lettura di Croce, è assurto ad un ruolo di primaria importanza.
Si tratta, come propone Dal Lago, di riappropriarsi “dello sguardo”. Se Sartre aveva affermato che parlare e scrivere di un quadro è fare letteratura e ciò non riguarda la pittura, Berenson invitava a limitarsi allo sguardo e a non perdere tempo nella lettura. Ma il dubbio rimane sempre: il nostro sguardo è puro o è storico ed incrostato? Abbiamo mai lo sguardo vergine? Il nostro non è comunque sempre uno sguardo “colto”, nel senso antropologico?
Il libro che ha dato l’input a queste argomentazioni insiste sul ruolo mercantile dell’arte: per quanto critici e filosofi possano argomentare che un’opera non è arte, sarà il circuito dell’arte composto da galleristi, direttori di musei, critici, collezionisti ecc a decidere in merito. L’esempio di partenza è il famoso Orinatoio di Duchamp inviato nel 1917 ad una mostra di New York. La didascalia tra l’altro diceva di Mr. Mutt (finto inventore): “Le sole opere che l’America ha prodotto sono i suoi articoli idraulici e i suoi ponti”. Nondimeno quell’Orinatoio è stata una delle opere più eversive e incisive dell’arte novecentesca.
Partiamo da lontano. Diotima di Mantinea nel Simposio (205 c) parla della poesia:
“La poesia, come sai, è qualcosa di complesso; infatti la causa per cui qualcosa va dal non essere all’essere è sempre poesia, tanto che anche le realizzazioni che provengono da tutte le arti sono esse stesse poesia e i loro artefici sono tutti poeti”. “Dici il vero”. “Tuttavia – aggiunse – tu sai che non vengono chiamati poeti, ma hanno altri nomi, e che soltanto una parte circoscritta, quella che riguarda la musica e i versi viene chiamata con il nome dell’intero”.
Inutile dire che il termine greco usato nel dialogo è poiesis, quindi si usa un termine molto più ampio che riguarda tutto il “produrre”, artistico e non artistico. Ma oggi ci si trova, scrivono Dal Lago e Giordano, dinnanzi ad un rifiuto delle categorie estetiche oppure ad un rifiuto dell’arte limitato al singolo genere. Anzi si propende verso un superamento dei generi, verso una poiesis onnivora e onnicomprensiva.
Inutile sottolineare, con gli autori del volume da cui hanno preso spunto queste riflessioni, che oggi si abbia la negazione dell’arte come “categoria” realtà codificata e incasellata. Eppure anche i negatori dell’arte rimarrebbero all’interno dell’arte. Non è un fenomeno nuovo nella nostra cultura: c’è un’antifilosofia programmatica e permanente e una afilosofia dichiarata che rimangono, di fatto, nella filosofia e nei suoi manuali. Pensiamo ad Agostino, Pascal, Kierkegaard, Nietzsche, tanto per fare nomi comunque decisivi.
Nel momento in cui alcune convenzioni diventano norme di riferimento, la produzione artistica contemporanea si pone sempre contro quelle convenzioni e norme. Si produce, cioè, una definizione per negazione, quasi una “teologia negativa”: possiamo dire dell’arte – o di Dio – ciò che non è, non ciò che è.
Esiste un altro aspetto della questione. Nello spazio dell’arte non sono solo l’artista e il pubblico fruitore perché si intromette una terza figura: il critico. Non si sottovaluta qui il ruolo della critica. Poco prima abbiamo parlato dell’esito salutare della critica crociana relativa a Vico. Dal Lago è più radicale in quanto ritiene che oggi ormai siano per lo più i critici a commissionare le opere agli artisti, e quindi in grande misura a se stessi, “in uno dei più singolari circuiti simbolico-economici che si possano immaginare”[55]. All’inizio erano gli stessi artisti che teorizzavano sulle loro opere. Con l’illuminismo questo compito passerà a filosofi e letterati. Con Hegel, poi, si prevede la morte dell’arte a vantaggio della Filosofia dello Spirito Assoluto.
Non si può negare che il grande pubblico fruisca di un’esperienza estetica, goda “di un po’ d’aura”. Così nascono i dagherrotipi, le riproduzioni in tela o cartone sin dalla seconda metà dell’Ottocento. In quante case non è una riproduzione della Tempesta di Giorgione o di volti femminili di Modigliani? Quindi “l’arte è buona se è messa in vendita in una buona galleria”[56]: la moda funziona sempre, ma è pur vero che esiste un’alfabetizzazione culturale ed estetica molto cresciuta anche per mezzo della scolarità obbligatoria e dei mass-media. Si potrà dire, senza paura di smentita, che anche quelle fonti sono fonti eterodirette e finalizzate, ma danno a molti l’esperienza dell’aura positiva. Anche se poi l’aura, vista da vicino, rivela facilmente la propria inconsistenza[57].
È vero che l’aurizzazione è un processo problematico perché consiste nella definizione continua di ciò che è arte e ciò che non lo è. È anche vero che l’arte d’oggi è una sfera culturale che esprime, più di ogni altra, la natura mercantile del nostro mondo. Non solo questo, ma nelle forme più alte di “valore”, il prodotto artistico diviene un fatto di puro investimento finanziario.
Concludiamo il dialogo ideale con Dal Lago e Giordano, riportando il concetto che pongono a chiusura della loro trattazione:
Noi crediamo quindi che l’arte debba essere vista in modo laico: un mondo di pratiche, in cui si produce, si rielabora e ovviamente si vende del senso. E se è giusto sottoporla ad un reale disincanto – come dovrebbe avvenire per ogni sfera della vita – è anche giusto non gravarla di troppe pretese. L’arte non ci sottomette, né ci emancipa. Esattamente come lo sport o la gastronomia. Se poi qualcuno osservasse che in questo modo escludiamo dall’arte il cambiamento, risponderemmo: proprio perché l’arte ufficiale esprime oggi il senso profondo di una società mercantile, arida, gerarchizzata, sarà meglio agire su questa, se vogliamo che anche l’arte sia un’altra cosa[58].
Ma il problema è proprio questo: come è possibile oggi agire “credibilmente” ed “efficacemente” sulla società mercantile? Viviamo tra le merci, con le merci, per le merci che il metafisico “mercato” ci propina mostrandocele come indispensabili per vivere e per vivere “come noi vogliamo vivere”.
È significativo chiudere provvisoriamente il discorso, crediamo in linea con le perplessità qui avanzate sulla possibilità di agire credibilmente sulla società mercantile, riprendendo una frase che troviamo come premessa alle conclusioni del volume. La frase è di Starobinski:
Allorché l’ordine sociale si dissolve, la presenza del clown si attenua così sulla scena come sulla tela: ma è proprio allora che il clown scende per le strade: ed è ciascuno di noi[59].
E, ancora, quanti quadri (artisticamente inguardabili) di clown variopinti sono sulle pareti di alcune case nei nostri paesi e città? L’inconscio ha un ruolo in tutto questo? Domanda fittizia perché l’inconscio è oggi indiscernibile da ciò che la cosiddetta “cultura” e i mass-media filtrano nella nostra coscienza a livello subliminale.
Note
[50] A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 286.
[51] Cfr. A. Dal Lago, L’etica della debolezza. Simone Weil e il nichilismo, in Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983.
[52] Mercanti d’aura, cit., p. 129. Il brano è ripreso da uno scritto dell’artista La filosofia di Andy Warhol dalla A alla B, apparso nel 1977. Una delle traduzione è di R. Ponte e F. Ferretti, Bompiani, Milano 1999.
[53] Mercanti d’aura, cit., p. 133.
[54] Cfr. Ivi, p. 74.
[55] Cfr. Ivi, p. 95.
[56] Ivi, 152.
[57] Cfr. Ivi, p. 244.
[58] Cfr. Ivi, p. 245.
[59] Ivi, p. 239. Il passo è ripreso dal volume di J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco (1970), II ed., Bollati Boringhieri, Torino 1998.