di Giovanni Invitto
Queste considerazioni su arte e mercato dell’arte assumono come testo di riflessione e di discussione Mercanti d’aura di Alessandro Dal Lago e di Serena Giordano[50]. Dal Lago, già noto per aver lanciato introno alla metà degli anni Ottanta, con Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, il cosiddetto “pensiero debole”[51], affronta qui tematiche estetiche e sociologiche e, in particolare, quella dei rapporti tra arte, critica e mercato, partendo dalla nozione di “aura”. In un’affermazione di Andy Warhol, messa come exergo di un capitolo del volume in questione, leggiamo:
Alcune aziende erano recentemente interessate all’acquisto della mia “aura”. Non volevano i miei prodotti. Continuavano a dirmi: “Vogliamo la tua aura”. Non sono mai riuscito a capire cosa volessero. Ma sarebbero stati disposti a pagare un mucchio di soldi per averla. Ho pensato allora che se qualcuno era disposto a pagarla tanto, avrei dovuto provare a immaginarmi cosa fosse[52].
Il concetto di aura è preso da una delle opere più significative di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, del 1936, dove l’aura è definita l’insieme di cornici sociali e cognitive che fanno dell’arte quello che è. Quindi, una delle conseguenze tratte da Dal Lago e Giordano è che l’aura definisce la capacità di un’opera di produrre un effetto sul pubblico in termini analoghi a ciò che nella filosofia e nella sociologia della religione è definito carisma[53]: cioè, tutto avviene indipendentemente dal valore del prodotto in sé. Benjamin citava, come esempio dell’aura, il simulacro che riposava nascosto nella cella dei templi che, pur visibile per il solo sacerdote, possedeva integro il suo valore per tutta la comunità. Chiaramente ci può essere un uso “benigno” dell’aura, ma ci può essere anche un suo uso esclusivamente mercantile.