La tecnologia può negarci la meraviglia della differenza

Nel progresso ciascuno di noi vorrebbe riporre una fiducia incondizionata e smisurata.  Ma ancora, in questo tempo, in questa civiltà delle grandi conquiste, migliaia e migliaia di persone al giorno muoiono di fame, o per malattie che si potrebbero curare con molto poco, o per le guerre che si accendono da qualche parte con una frequenza stupefacente; ancora a  milioni di bambini si nega l’istruzione.

Ci sono forme di progresso che a volte fanno paura. Per esempio fanno  paura certi scenari che Yuval Noah Harari, l’autore di Sapiens, Homo Deus, 21 lezioni per il XXI secolo, disegna nel corso di una conversazione con Roberto Saviano. Dice che tra venti o trent’anni la tecnologia contenuta in uno smartphone sarà inserita direttamente nei nostri cervelli tramite elettrodi e sensori biometrici. Sarà in grado di monitorare quello che accade all’interno del corpo e del cervello in ogni momento. Potrà conoscere i nostri desideri, le nostre sensazioni, i nostri sentimenti. Prenderà decisioni nel campo della prevenzione medica, degli affari, delle relazioni sentimentali. Potendo fare affidamento sulla potenza di questi computer e algoritmi, noi ci lasceremo guidare da essi in maniera crescente, diventeranno parte di noi stessi.

Allora, se si escludono i processi e gli strumenti che riguardano la medicina, cioè quella condizione che migliora la vita delle creature, tutto il resto fa paura. Detto banalmente ma semplicemente, con incompetenza ma sinceramente,  da uomo della strada ma onestamente, tutto il resto fa paura. Che  visibili o invisibili macchinette, microscopici (o macroscopici?) apparecchi possano manipolare i meccanismi del pensiero, la memoria, la previsione, l’immaginazione, la visione del mondo e delle sue storie, che possano fare scelte che un uomo – liberamente- avrebbe fatto in modo diverso, che possano anche determinare emozioni e sentimenti, che un programma stabilisca chi si deve amare e chi no, ad una persona normale fa paura: deve far paura. Deve farle domandare che cosa perde e che cosa ci guadagna da una realtà che di fatto stravolge la natura. Comunque, al di là delle domande e delle possibili risposte, rimane una sensazione di paura per una mutazione che in precedenza  probabilmente non è stata mai vissuta, per una situazione che afferma la definitiva prevalenza (o la sovranità assoluta?) della dimensione tecnologica rispetto alla dimensione dell’ umano.

L’uomo della strada che non conosce gli aspetti tecnici, si chiede, per esempio, se i meccanismi di funzionamento e gli esiti che i meccanismi produrranno, saranno uguali per tutti. Si chiede se penseremo tutti allo stesso modo e le stesse cose, se faremo tutti le stesse scelte, se i programmi orienteranno le nostre esistenze verso la stessa direzione.

Insomma, se saremo tutti uguali, negandoci la meraviglia della differenza, se replicheremo pensieri e azioni, cancellando la nostra irripetibilità, se saremo perfetti, privandoci della stupenda imperfezione che ci è stata data in dono da un peccato originale.

Nella sua assoluta mancanza di conoscenza, nella sua totale incompetenza, l’uomo della strada queste cose se le chiede, nella speranza che qualcuno lo rassicuri sul fatto che certamente no, non sarà cosi.

Però fino a questo momento nessuno è stato in grado di rassicurarlo.

Qualcuno invece lo ha rassicurato sulla circostanza che si tratta di evoluzione.

Però sul concetto di evoluzione, l’uomo della strada a volte nutre qualche dubbio, anche profondo. 

[ “Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 5 dicembre 2021]

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