L’altra Calabria

La cantina vitivinicola si trova ad Acri: una cantina sperimentale, che porta avanti il progetto di Bafaro, emulando i classici. Il vino, prodotto con delle particolari spremiture, viene conservato nelle anfore interrate. Sono utilizzati argille e legni speciali, le uve selezionate manualmente e poi pigiate in tronchi scavati e, dopo una lunga macerazione in acqua, conservate dentro queste particolarissime anfore, che hanno la forma di quelle antiche. Il processo di maturazione ha una durata media più lunga del solito, dai sei agli otto mesi, poi il merum viene imbottigliato e tenuto in vetro per ancora quattro, cinque mesi, dopo di che è pronto per essere immesso sul mercato. Anche per la tappatura delle anfore, viene usato un sughero speciale con della cera enologica, sempre secondo i dettami degli antichi trattati di vinificazione. Gabriele trasmette empatia, nella sua appassionata perorazione, quando ripete che la Calabria è l’antica Enotria, perché già i Romani l’avevano definita “terra del vino”, e che conosceva già prima dell’arrivo dei Greci la coltivazione della vigna. Si percepisce l’orgoglio dell’appartenenza ad una terra onusta, per storia, cultura e tradizioni millenarie. E le soddisfazioni sono presto arrivate, essendo il suo prodotto pluripremiato.  

Al di là della facile retorica sul ritorno dei cervelli in fuga, cui ci spingerebbe il servizio, è significativo constatare come la Calabria (ma potremmo dire il Meridione in generale) sia depositaria di potenzialità ancora inespresse che a volte trovano felicemente il modo di esprimersi, come nel caso di specie trattato da LaCtv. Mentre guardo la trasmissione, mi viene di pensare a come sia ridotta oggi la nobile terra calabrese, devastata e saccheggiata da orde barbariche di politicastri e banditi, faccendieri e criminali, banchieri e narcotrafficanti.  Eppure la Calabria ha nel proprio patrimonio genetico l’italianità, come dire, ce l’ha nel sangue, nella sua peculiarità. La Calabria è forse più italiana di tutte le altre regioni. Non a caso, fu la prima regione della penisola ad essere chiamata Italia. Secondo gli studiosi, “Italia” è un nome osco e deriverebbe da vitulus, ossia vitello. Festo, nell’opera Sul significato delle parole, spiega che l’Italia è detta così perché possiede “grandi Itali”, cioè grandi buoi, essendo i vitelli chiamati in questo modo dagli abitanti della penisola. Terra dei vitelli, oppure terra degli itali, secondo altri studiosi. Il vitello sarebbe stato l’animale totemico delle prime tribù italiche stanziate sul territorio. In origine, il nome designava solo l’estremità meridionale della Calabria, che i Romani chiamarono Bruzio, poi si estese all’intera Magna Grecia, ovvero l’Italia meridionale, e gradualmente passò a designare tutta la penisola.

Ma nelle trasmissioni di approfondimento giornalistico, nei media in genere e nei tg, la Calabria assurge agli onori delle cronache solo per i tristi episodi di malasanità o ancor peggio di criminalità organizzata, e la Ndrangheta è diventata un marchio a fuoco inciso sulla pelle, un segno distintivo, esattamente come il sigillo apposto sulle anfore e le bottiglie di vino “enotrio”.  Ma i tempi stanno cambiando anche per la Calabria: non ci credo, ma lo scrivo lo stesso, quasi come una pratica di training autogeno sicché attraverso questo esercizio mentale io possa, non solo convincermene veramente, ma farmi anche fattore di cambiamento, essere addirittura io stesso funzionale al processo in atto. Ci berrò su, allora, magari col vino Acroneo.

Un “Prosit” alla Calabria.

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