Ecco perché nel titolo di questo volume appaiono due storie e due nomi completamente diversi: quello di un filosofo, Diogene, con la sua lanterna e quello di un “genio” delle Mille e una notte che sorge da una lampada. Tra le due fonti culturali passano circa quattordici secoli. Come ha scritto un noto storico della filosofia, Diogene camminava con la lanterna accesa in pieno giorno, con chiara ironia provocatoria, e gridava ripetutamente la famosa frase: “Cerco l’uomo”, perché gli dei avevano concesso agli uomini facili mezzi di vita, ma poi li avevano anche tolti dalla vista umana. La ricerca, pertanto, consisteva nel trovare ciò che avrebbe potuto rendere visibile l’uomo e i suoi mezzi che lo avrebbero portato alla felicità. Per questa felicità, secondo Diogene, le istanze di natura dovevano prendere il sopravvento e avere la priorità. Non a caso il termine cinico, con cui il filosofo è anche chiamato nella storiografia, ha l’etimo nella parola cane[1]. Comunque l’emblema della lanterna è l’emblema di uno strumento che ci fa luce e ci fa vedere l’uomo: ed è questo il compito della filosofia, della narrazione e dell’autonarrazione dei soggetti, come si cercherà di spiegare in seguito.
La lampada di Aladino è la lampada che risponde ai desideri del soggetto: ed è l’icona della fantasia e del racconto, della proiezione in una realtà fittizia di ciò che sono i nostri desideri, le nostre paure e, soprattutto, il mezzo che permette la liberazione da esse. Allora perché Diogene ed Aladino? Perché sono le immagini della ricerca dell’uomo e del suo voler essere, nel campo della riflessione speculativa (da speculum: specchio) e in quello della creatività estetica. Ci sarebbe stata una terza lanterna da introdurre: la “lanterna magica” che dal Seicento fino ai fratelli Lumière costituì la preistoria del cinematografico. E oggi il cinema, il film e l’arte nel suo complesso sono quasi una lampada magica che aiuta nella ricerca, anche filosofica, dell’uomo.
2. In anni trascorsi, raccogliemmo alcuni testi sul nesso tra filosofie dell’esistenza e dimensione estetica. In questa sede la tesi è tendenzialmente più ampia, in quanto vuole vedere come la categoria estetica copra, sì, molto spazio della comunicazione culturale nelle sue varie forme, ma sia anche costitutiva della quotidianità esistenziale del soggetto. Ad esempio, il tema della sensualità e dell’amore, qui presentato anche tramite la trascrizione romanzata di un filosofo e poi nella lettura di un film, è un tema che da sempre emerge nella riflessione fenomenologica del singolo esistente oltre che nella riflessione specifica del pensiero speculante, pensiero-speculum, cioè riflettente del soggetto umano. Così come è avvenuto e avviene per il tema della seduzione e del seduttore.
Pier Aldo Rovatti, in un testo di non pochi anni fa[2], portava alle estreme conseguenze la riflessione sul “luogo” della filosofia e sul suo rapporto con l’universo ludico. La filosofia per lui è argomentazione, narrazione, non definizione, perché chi definisce è il critico non il filosofo. Ma il punto di maggiore presa in quel discorso era il tema del gioco che, per Rovatti, è una situazione e non una scelta, perché non si può cercare di entrare nel gioco, né prescrivere il gioco. Non si può progettare di giocare né di ridere, perché bisogna “essere” nel gioco: in-ludere. L’arte è in-lusione.
La cultura occidentale aveva avuto alcune costruzioni di un rapporto cultura-gioco quasi totalizzanti. Si ricorda sovente il frammento 52 di Eraclito riperso da Nietzsche: “Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo”. Pensiamo anche e soprattutto a Johan Huizinga e al suo Homo ludens del 1939, dove il gioco è cifra e incubazione di cultura. Il dibattito è lungo. Herbert Marcuse nel testo Existentialism, del 1948[3], parlava in senso negativo e fortemente critico, a proposito di L’Être et le Néant, di una “ontologia ludica” incompatibile con una prospettiva rivoluzionaria come quella di Sartre. Per di più Marcuse commentava: come si può parlare nel 1943, in pieno conflitto mondiale di un soggetto umano che “giocherebbe” all’essere, tramite la malafede. Sarebbe un universo ludens[4] senza valori e senza progettualità etica e politica.
Ma cos’è la propria identità se non costruzione e/o recita di ruoli, maschera? È un cammino di cui si conosce la provvisorietà e che, come i sentieri interrotti di Heidegger, non conduce in alcun posto. Si torna, se si torna, al posto iniziale. Rovatti ricordava Freud e il gioco del rocchetto che rotola e ritorna, che è poi il piacere della ripetizione, è il piacere di Novalis per il rim-patrio nella casa d’infanzia[5].
3. La ripetizione ludica annulla lo spaesamento, che è angoscia perché la ripetizione rassicura, non mette davanti al nuovo, alla possibilità. Ma annulla anche la libertà? Dovremmo riprendere le riflessioni sull’umorismo come quelle di Freud, Bergson e Pirandello. Dovremmo riprendere soprattutto il tema dell’ironia, tanto nella sua riproposizione fondante che è nell’opera di Kierkegaard, quanto nella pratica che se n’è fatta da sempre, sin dalla sua pre-istoria, nel pensiero femminile e della differenza[6]. Pensiamo all’episodio della servetta di Tracia. Lì quel sorriso ironico è apparso sempre come disturbo, complemento, bordo non cornice. Pensiamo anche al riso di Sara, all’annunzio inviatole da Jahvé, che avrebbe avuto, lei vecchia, un figlio. Isacco vuol dire risata.
V’è un invito a riprendere l’ironia come dimensione estetica che costruisce senso, per quanto sia una pratica “devastante”. Kierkegaard:
Ora, dal fatto che l’ironia sia stata a questo modo dominata, bloccata nell’infinità selvaggia in cui si scatena devastando, non segue per niente che debba perdere la sua importanza, o che la si debba liquidare[7].
L’ironia è strategia, come il cavallo di Troia: “l’ironia è la via, non la verità, ma la via”[8].
Ma, aggiunge il filosofo danese chiudendo così il suo discorso sull’ironia, se si vuole trovare il “valore eterno” dell’ironia occorre portarsi sul terreno dell’umorismo: “Lo humour contiene una scepsi più assai profonda che non l’ironia; lì tutto ruota infatti attorno, non alla finitezza, ma alla condizione di peccato; la sua scepsi sta a quella dell’ironia come l’ignoranza al vecchio adagio: credo quia absurdum”[9]. Ma l’umorismo, così inteso, si muoverebbe tra determinazioni “teantropiche”, tra Dio e uomo.
Come non ricordare Pascal e il suo pensiero 233 sulla scommessa? Siamo sempre nel gioco e dobbiamo giocare bene. E conviene scommettere perché qui c’è proprio una vita infinita infinitamente felice da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quello che si mette in gioco è il finito: “così, la nostra offerta possiede una forza infinita, quando c’è da arrischiare il finito in un gioco in cui sono uguali le probabilità di perdita e di guadagno, e c’è un infinito da guadagnare”.
Ma quale infinito? Occorre ritornare nel tempio, come leggiamo ne La gaia scienza (af. 125):
Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e qui abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”
Nel saggio su Dreyer troveremo anche questo “dubbio”.
Kierkegaard si era autoesentato da simili conclusioni. Si era fermato all’ironia che porta in una realtà trasparente e che si può aggredire anche per vie traverse. È l’ironia che ridimensiona l’oggetto e lo tiene a distanza. Così capiamo l’avversione di Hegel all’ironia dei Romantici e l’importanza data dal tedesco all’oggettivazione dell’Idea.
Narrazione, “recita”, ironia, umorismo… tutte categorie incarnate nel quotidiano commercio delle nostre esistenze. Il quarantenne Pirandello affrontò nel 1908 il rapporto tra humor, umorismo, ironia, ponendo una netta differenza fra i tre termini. Spiega:
l’umorismo consiste nel sentimento del contrario, provocato dalla speciale attività della riflessione che non si cela, che non diventa, come ordinariamente nell’arte, una forma del sentimento, ma il suo contrario, pur seguendo passo passo il sentimento come l’ombra segue il corpo. L’artista ordinario bada al corpo solamente: l’umorista bada al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, com’essa ora s’allunghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto non la calcola e non se ne cura[10].
4. Questo volume può sembrare un mosaico, ma non lo è perché il singolo tassello espunto dall’unità musiva non ha alcun senso autonomo. Speriamo, invece, di aver posto mano ad una sciarada o a una serie di sciarade, dove due o più parole di senso compiuto e autonomo, nel momento in cui sono congiunte, producono un “nuovo” e diverso senso compiuto.
I temi qui presentati possono apparire s-paesamenti, viste le tematiche apparentemente lontane, che trattano. C’è un filo rosso, invece – e speriamo che sia visibile – che unisce le varie isole in un unico arcipelago, in un unico discorso. Perciò oltre agli interventi più prettamente teorici come quelli sul gioco, sulla seduzione e sull’arte come mercato, sono, in piena continuità, alcuni testi sul cinema, sullo s/radicamento dell’artista, sull’umorismo satirico.
Non si tratta di un puzzle senza unità interiore, ma di una sciarada, cioè di parole, di temi, di concetti, di affermazioni che si autocostituiscono progressivamente, aggiungendosi gli uni agli altri e dando vita a nuovi plessi di filosofia e cultura. Si tratta di un percorso che speriamo permetta di avvertire l’indissolubilità tra il vissuto esistenziale e il sentire estetico – tautologia rafforzante – in tutti i suoi corollari fenomenologici.
Note
[1] Cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica, v. III, Vita e pensiero, Milano 1992, pp. 25-27. Reale riprende passaggi di Diogene Laerzio su Diogene di Sinope, detto “cinico” per la sua appartenenza all’orientamento chiamato cinismo, fondato da Antistene.
[2] Il paiolo bucato. La nostra condizione paradossale, Cortina, Milano 1999.
[3] Il testo marcusiano apparve in Italia nel volume Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Einaudi, Torino 1969.
[4] Su questo tema è il ns. Sartre. Dal “gioco dell’essere” al lavoro ermeneutico, II ed. con postfazione, Franco Angeli, Milano 2005.
[5] “A rigore la filosofia è nostalgia, il desiderio di trovarsi dappertutto come a casa propria”; Novalis, Fragmente [1795-1800], trad. it., Frammenti, a c. di E. Pocar, Rizzoli, Milano 1948, fr. 24.
[6] M. Forcina, Ironia e saperi femminili. Relazioni nella differenza, Franco Angeli, Milano 1995 e II ed. 1998.
[7] S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate, a c. di D. Borso, Guerini e Associati, Milano 1989, p. 251.
[8] “Ora, quando l’ironia sopraggiunge, mostra la via, non quella però per cui chi s’immagina di avere il risultato giunge a possederlo, bensì l’altra, su cui il risultato lo abbandona”, ivi, p. 252.
[9] Ivi, p. 253.
[10] L. Pirandello, L’umorismo, intr. di S. Gugliemino, Mondadori, Milano 1986, p. 168.