Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XXXVIII

Più avanti, Leopardi, Zibaldone 2326-2327 (Edizione Damiani, pp. 1507-1508) aggiunge: “E’ proprio, appunto per queste ragioni, de’ mediocri o infimi drammatici, il sovraccaricare d’intreccio le loro opere, l’abbondare di episodi, ec. Il contrario è proprio de’ sommi. E la ragione è che questi trovano sempre come tener vivo l’interesse dello spettatore (anche in un’azione di poca importanza) colla naturalezza dei discorsi, la vivezza, l’energia, collo sviluppo continuo delle passioni, o col ridicolo ec. Quelli non sono mai contenti neppure dopo che hanno trovato o immaginato un caso complicatissimo, stranissimo, curiosissimo. Esauriscono in un batter d’occhio tutto ciò che il soggetto offre loro. Cioè non sapendone cavare il partito che possono e devono, il soggetto non basta loro se non per poche scene. Fatte o disposte queste; dopo di esse, o nelle scene di mezzo si trovano con le mani vote (per ridondante di passione, di ridicolo ec. che il soggetto possa essere), e non trovano altra via di tener vivo l’interesse e la curiosità, che quella di andare a cercar nuovi episodi, nuove fila, nuovi soggetti insomma, per esaurirli poi essi pure in un momento. Non possono insomma trovarsi un solo istante senza qualche cosa da raccontare, qualche filo da aggiungere alla tela, qualche soggetto ancor fresco, altrimenti non hanno nulla da dire. E quanti autori sono di questo genere? quanti drammi? 999. Per mille. (4. Gennaio 1822.).”

È  indubbio che le serie TV, seguitissime ai nostri giorni da tutte le età, abbiano preso il posto delle “azioni drammatiche” ottocentesche. L’industria televisiva globale che produce le serie (americane, brasiliane, turche, egiziane, tedesche, ecc.) non ha altro scopo che suscitare la curiosità dello spettatore con sempre nuovi casi, nuovi episodi, nuovi intrecci, che finiscono coll’irretirlo. Uso il verbo irretire proprio nel senso di metterlo in una rete, da cui difficilmente è possibile che lo spettatore scappi. Pertanto, nella società predatoria in cui viviamo, le serie TV costituiscono la naturale modalità con la quale si catturano e si mettono nel sacco le persone, cui si offrono, da consumare nel tempo della visione, inestricabili intrecci, ma privi di ogni affetto e risonanza che possano dirsi poetici. Gli innumerevoli casi messi in scena coprono la semplice verità, come dice Leopardi a proposito delle “azioni drammatiche” del suo tempo, che le serie TV e i loro produttori “non hanno nulla da dire”. E pazienza se nelle università si istituiscono cattedre per studiarle!

***

Paideia. Un termine antico per dire ciò di cui tutti, sin da fanciulli, hanno bisogno: essere educati, ma non come pecore, bensì come esseri umani dotati di ragione e senso critico.

Il problema è il seguente: chi ha il diritto di educare? Nel mondo sono i più forti (i pochi) che, servendosi delle cosiddette agenzie educative (la scuola, l’università, i mass media, ecc.) dettano le regole della vita, e i più vi si adeguano. La sindrome del gregge pervade l’umanità. Riuscire a riconoscere questa falsa paideia, a comprenderne gli effetti deleteri, e combatterla, è il compito di una sana paideia, secondo la quale l’uomo è un essere vivente che comprende le ragioni del suo comportamento e di quello degli altri e ricerca i modi migliori per regolare tali rapporti, nel rispetto del mondo in cui vive e degli altri esseri viventi. In tutte le cose, occorre ritrovare una giusta misura. Inoltre, bisogna avere fiducia che questo accada, e fare in modo che accada. Forse è questo l’unico scopo per cui valga la pena di scrivere.

***

Scrittori genealogici. In questo Zibaldone ho già ricordato la distinzione in Gianni Celati, La città di Medina Sabat, tra raccontatori di storie e narratori di genealogie; “questi ultimi”, scrive Celati, “sono tutti falsi e inventano le genealogie delle famiglie o dei capi di stato, facendosi pagare in anticipo e poi inventando quello che vogliono… I raccontatori di storie invece non inventano quello che vogliono, devono attenersi a quello che dice la storia…”. Ora leggo Girolamo Tiraboschi, Riflessioni su gli scrittori genealogici, Stamperia del Seminario presso Tommaso Bettinelli, Padova, 1789, pp. 3-4: “Non v’ha forse ramo di Storia, che sia tanto ingombro di favole e d’imposture, quanto quello delle Genealogie. La vanità di chi ne ordina la compilazione, e l’interesse di chi si accinge a formarla, ne sono le ordinarie sorgenti. Un uomo, che non abbia altro diritto alla pubblica stima, che quello della sua nobiltà, desidera di esporla nella maggior pompa, che gli sia possibile, e si lusinga che tanto più profondi inchini riceverà dal popolo, quanto più illustre sarà la serie dei suoi antenati. Un uomo, cui la fortuna dal basso stato, che avea sortito nascendo, ha sollevato a sublime grado di ricchezze e di onori, desidera prima, poi sogna, e finalmente si persuade, che i suoi Maggiori non sieno stati sì vili, come il volgo s’immagina, e che la sorte abbia bensì per qualche tempo voluto oscurarne, ma non estinguerne lo splendore. Un erudito famelico conosce il lor desiderio, e la loro ambizione; s’insinua destramente nella lor grazia; si mostra profondamente instruito dell’antichissima nobiltà delle loro famiglie, e offre lor la sua opera ad illustrarla scrivendo. Si accetta cortesemente l’offerta; e l’erudito è ben persuaso, che la sua ricompensa sarà in proporzione de’ secoli, fino ai quali ne farà rimontare l’origine. Eccolo dunque entrar negli Archivi, svolgere le pergamene, esaminar gli Atti pubblici, ricercare le antiche Cronache, e abbozzare la sospirata Genealogia.”

Come non pensare che questo scrittore, modenese (d’adozione) abbia anticipato di un paio di secoli il pensiero di Celati, che rimane essenziale per distinguere raccontatori di storie dai narratori di genealogie,  la vera dalla falsa letteratura?

***

Entomologia. Quale interesse mi spinge a leggere Jean-Henri Fabre, Ricordi di un entomologo I, Adelphi Milano 2020? Non certo un’improvvisa infatuazione per l’entomologia! Mi attrae il suo amore per la vita, che lo porta a indagare il comportamento dei viventi e il senso del vivere. Osservando gli insetti all’opera, cioè nell’azione di assicurare a se stessi e alla propria specie la sopravvivenza, ecco che cosa Fabre scrive: “Riflettendo sulla lotta fatale, implacabile, cui la natura costringe, per conservare la specie, queste diverse creature, alternativamente possessori e spossessati, divoratori e divorati, ci sentiamo invadere da un sentimento di pena misto ad ammirazione per la maniera in cui ogni parassita cerca di raggiungere il suo scopo; e dimenticando per un attimo l’infimo mondo in cui tutto ciò avviene, rabbrividiamo di spavento davanti a questa serie di rapine, astuzie e misfatti, che appartengono, ahimè, al disegno dell’alma parens rerum.” (p. 14).

“Rabbrividiamo di spavento” – dice Fabre -, perché il pensiero corre all’uomo, alla sua storia, che ci appare davvero spaventosa, se solo per un istante pensiamo alle innumerevoli serie di eccidi, stragi, ecatombi, di cui essa è costellata. Il comportamento degli umani non è affatto diverso da quello degli insetti, sebbene, in molti luoghi, Fabre cerchi di dimostrare il contrario!

***

Maestri e ministri. Massimo Recalcati, Il discorso del maestro, in “aut aut” 388, dicembre 2020, p. 50: “Il maestro è una parola in via di estinzione. Il suo tramonto coincide con l’imporsi di un linguaggio disossato, informatizzato, senza più rapporti con la vita, subordinato al feticismo delle cifre. La neolingua ipermoderna vorrebbe prescindere e autonomizzarsi dalla dimensione carismatica del maestro, ovvero dalla soggettività irriducibile della sua enunciazione. Conviene ricordare che la parola “maestro” viene da magis e indica originariamente, nella lingua latina, colui che ha un ruolo superiore contrapposto a quello del ministro (minister), che indica invece colui che ha un ruolo inferiore (minus). Conviene anche ricordare che si tratta di una terminologia che affonda la sua origine nel linguaggio religioso: il primo era “il celebrante principale” mentre il secondo era invece l’assistente, “il servitore”. Il nostro tempo ha cancellato brutalmente questa suddivisione ribaltandola indebitamente.”

Nell’età della tecnica, in realtà, qualora il magister si identifichi con l’esperto, il tecnico, lo scienziato, egli rimane superiore al minister, poiché questi nulla decide che non sia stato approvato dal magister. Lo si è visto bene in tempo di pandemia, durante il quale ogni decisione del ministro della salute (l’assistente-servitore) era subordinata al parere del magister-virologo (il celebrante principale). Il paradigma culturale dominante, infatti, non è più oggi quello religioso, ma quello tecnico-scientifico.

***

Il tacere. Non basta capire l’importanza del tacere, occorre impararne l’arte. L’arte del tacere, del non dir nulla, se non sia proprio necessario parlare, il che accade molto di rado. L’arte del tacere presuppone la chiara consapevolezza dell’infinita incontrollabile irremeabile risonanza della parola, che l’ingresso della parola nel mondo corrisponde all’aggiunta di un ulteriore ingrediente nel minestrone chiacchierifero degli umani; inutile, del resto, perché presto sopraffatta, adulterata, nullificata dallo sciocchezzaio e dalla nostra mistificante ipocrisia. L’arte del tacere è dunque l’arte del sottrarsi a tutto ciò, un’arte che è difficile da apprendere e da praticare.

Questa voce è stata pubblicata in Zibaldone galatinese di Gianluca Virgilio e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *