Solitamente la prima fase di una conoscenza è costituita dall’informazione. Poi l’informazione si approfondisce, viene messa in relazione, si elabora in concetto, in pensiero. In molti contesti questi passaggi sono definitivamente saltati. All’informazione segue un’altra informazione che annulla e sostituisce la precedente. Allora dobbiamo anche dare ragione a Thomas Eliot che diceva: prima abbiamo barattato la sapienza con la conoscenza, poi la conoscenza con l’informazione. Certo, aspirare alla sapienza è presuntuoso; tendere verso la conoscenza invece è un dovere. Eppure, davanti ad una condizione di continuo smottamento del pensiero, forse si può anche provare qualche sentimento di speranza.
Si spera che ci si stanchi, a un certo punto. Che soprattutto i giovani si stanchino di espressioni culturali che non sono tali, della superficialità, dell’inconsistenza, dell’assenza di sostanza, della genericità, dell’approssimazione, dell’informe, dell’insignificanza, dell’usa e getta: di libri che non hanno dentro niente, delle immagini deformate; che si stanchino di restare impigliati nella rete, che sappiano sfuggire dalle sue maglie per andarsene in mare aperto con il loro pensiero e non di navigare a bordo del pensiero d’altri, anonimo molto spesso.
Probabilmente si stancheranno. Probabilmente ci stancheremo. Perché, poi, l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo avverte la necessità delle certezze, anche delle certezze del pensiero. Ha bisogno di capire la differenza fra la bellezza e la bruttezza delle cose e delle storie, fra quello che è falso e quello che è vero, fra il superfluo e l’essenziale, quello che si dissolve e quello che rimane, fra la copia e l’originale.
Si stancheranno. Ci stancheremo. Forse ci verrà la nausea, come accade sempre con ogni sovrabbondanza, con qualsiasi eccesso. La cultura fast food ci sta impedendo di ritenere le cose che ci servono per sempre, quindi di comprendere. Anche per sintetizzare questo concetto abbiamo bisogno di fare riferimento ad un verso dantesco stratificato nei secoli: “ché non fa scïenza, sanza lo ritenere, avere inteso”.
Forse non fa nemmeno coscienza.
Comprendere significa, essenzialmente, avere coscienza dei significati di cui sono cariche le storie del proprio tempo e le storie del tempo che è venuto prima; significa essere in grado di collocarsi con l’immaginazione nel tempo che verrà dopo il tempo che si vive, di prevedere il verificarsi di fatti e di fenomeni e di condizioni con un margine di probabilità che consenta di assumere decisioni che coinvolgono i destini di tutti e di ciascuno. La comprensione è profondità di pensiero. La superficialità, l’improvvisazione, la genericità, l’indeterminatezza, l’approssimazione non producono comprensione: non possono.
La comprensione è l’esito di un dialogo, di un confronto costante, di un lavoro di costruzione di significati condivisi e di finalità comuni. La comprensione, i significati condivisi, le finalità comuni, generano il progresso e lo sviluppo delle civiltà. La mancanza di comprensione genera la stagnazione sociale e culturale, e qualche volta anche la bruttura.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 28 novembre 2021]