A tutti questi ora è possibile aggiungere un articolo di Giuseppe Ravegnani, La poesia ed il contagocce, apparso sulla “Gazzetta Ferrarese” il 16 maggio 1918 e poi sulla rivista barese “Humanitas” nel numero 35-36 dell’1-8 settembre 1918. Questo scritto, per quanto a nostra conoscenza, è sfuggito completamente all’attenzione della critica[5], forse perché non si tratta soltanto di una recensione del libro ungarettiano, e probabilmente non era conosciuto nemmeno dal poeta dal momento che non ne fa cenno nei suoi numerosi scritti e nei vari carteggi finora pubblicati.
Ma andiamo con ordine. Prima di esaminare l’articolo di Ravegnani, cerchiamo di ricostruire nelle linee essenziali il dibattito sviluppatosi dopo l’uscita del Porto Sepolto che, com’era prevedibile, venne apprezzato soprattutto nell’ambiente letterario fiorentino della “Voce” e di “Lacerba” e in quello napoletano della “Diana”. Non a caso erano, queste, le riviste alle quali Ungaretti aveva collaborato fino a quel momento. In linea generale, si può dire che solo un paio dei recensori, esattamente Papini e Marone, i quali per primi l’avevano scoperta, riuscirono a penetrare un po’ più in profondità nella poesia ungarettiana, tentandone una definizione critica, mentre gli altri si limitarono a fare osservazioni marginali o dipendenti da quelli[6]. Quasi tutti, in ogni caso, prendevano le mosse proprio dall’articolo di Papini che a volte sembrava il vero oggetto di discussione a causa del giudizio positivo da lui espresso sul Porto Sepolto.
E, a questo proposito, è necessario partire dall’intervento di Papini, il primo in assoluto, apparso sul quotidiano bolognese “Il Resto del Carlino” il 4 febbraio 1917, al quale lo stesso poeta attribuiva “il valore di una consacrazione”[7]. Ungaretti, com’è noto, aveva conosciuto lo scrittore fiorentino nel 1915 a Parigi e gli aveva proposto alcune sue composizioni che vennero pubblicate su “Lacerba”. Verso di lui il poeta, in quegli anni, non nascondeva la sua sconfinata ammirazione, come risulta anche da alcune lettere inviate a Marone. In quella del 7 ottobre 1916 così scrive ad esempio: “Io credo veramente in Papini. Noi giovani dobbiamo amarlo. Nessuno ha la visione, come lui, del nostro tempo: nessuno, dopo Leopardi, ha detto parole di profondità umana, unanime, come le sue, nessuno è nelle nostre anime come lui […]. Noi pochi giovani, veramente umani, dovremmo amare infinitamente Papini, come uno specchio delle nostre anime, come amiamo la nostra sofferenza, con l’amore infinito che portiamo alla vita”[8].
Nella sua recensione, l’autore di Un uomo finito collegava le poesie del Porto Sepolto alla guerra, giungendo ad affermare che Ungaretti ha scritto “le più care e sollevate poesie che abbia dato la guerra italiana”[9]. Subito dopo però chiariva acutamente che “sono poesie d’un soldato, non sono poesie di guerra”, perché Ungaretti “poeta prima, fa ora anche il soldato ma seguita ad esser poeta puro”[10] e la guerra non è “soggetto o contenuto”[11]. Inoltre metteva in rilievo certi motivi ispiratori, come “il pensiero della morte”, la “fraternità”, la “contemplazione”, la “metafisica estenuazione”, gli “spalancamenti felici di serenità”. Non mancavano nemmeno osservazioni di carattere formale: “La stessa brevità dei versi e dei poemi perfeziona l’incanto impalpabile di queste amare contentezze espresse in trine di parole”[12]. Così pure erano individuati i diversi ascendenti culturali della poesia ungarettiana: “C’è qui una nettezza di visione ch’è tutta italiana di quella buona, e un lasciarsi andare alla deriva delle proprie immaginazioni ch’è quasi orientale, e una mobilissima magneticità di raccordi e dissonanze ch’è francese moderna”[13].
Quasi contemporaneamente, sulla rivista romana “Cronache Letterarie”, interveniva sul Porto Sepolto Gherardo Marone, che, a sua volta, aveva ospitato poesie di Ungaretti sulla “ Diana” fin dal maggio del 1916 e altre ne avrebbe ospitato nella Antologia della Diana del 1918. Marone, che all’inizio fa riferimento all’articolo di Papini, “l’infaticabile scopritore di uomini”, definisce “essenziale” la poesia ungarettiana, della quale – sostiene – l’aspetto più evidente è la “straordinaria brevità”[14]. Né il futurismo, né Govoni hanno rapporti, a suo giudizio, con questa poesia perché qui siamo in presenza di “poesia classica, nel senso puro della parola”, alla maniera del Pascoli di Myricae, in quanto “quasi tutto questo libro è sopra di ogni contingenza”[15]. E lo accosta a Salvatore Di Giacomo, al d’Annunzio di Alcyone e “più di tutto – scrive ‒ a quello straordinario Suikei Maeta che con Harukichi Shimoi per la prima volta in Europa ho tradotto dall’originale giapponese”[16]. E qui per la prima volta Marone propone questo suggestivo accostamento che diede il via da allora a un’interminabile dibattito tra coloro che videro un’influenza della poesia giapponese su Ungaretti e coloro, tra i quali figura lo stesso poeta, che la negarono decisamente[17].
Qualche anno dopo, nel volume Difesa di Dulcinea, Marone ripubblicò questo articolo con qualche modifica, aggiungendo che il valore della poesia ungarettiana bisogna cercarlo “in questa sollevazione del particolare, in questo senso universale della vita”, come, d’altra parte, “il valore della poesia giapponese e in fondo di tutta la poesia, è proprio nel particolare sollevato a universale, nell’elemento che diventa tutto, nell’attimo che diventa infinito”[18]. Inoltre giungeva ad affermare che nella poesia di Ungaretti egli ha creduto di vedere “la via nuova che tutti cercavamo”, ma non come un arrivo, ma solo “come un generoso avvio che attende ancora la sua più alta attuazione”[19].
Marone fece una breve segnalazione del Porto Sepolto anche su “La Diana”, accostando nuovamente la poesia di Ungaretti alla ”fantasiosa e grande poesia giapponese” ancora una volta per la sua “straordinaria brevità” che è la sua “esteriore caratteristica”[20]. E anche qui, a proposito di questi versi, parlava di una “suprema essenzialità che la solleva alla purezza lirica di tutta la poesia immortale, di un frammento di Saffo, di un attimo di Leopardi, di una strofe di Pascoli”[21].
Meno rilevante la recensione apparsa proprio su “La Diana” ad opera di Paolo Argira, pseudonimo della direttrice della rivista, Fiorina Centi[22], piuttosto enfatica e “tutta intessuta su una serie di interminabili esclamativi”[23], nella quale riprendendo quasi alla lettera il giudizio di Papini, del quale riportava ben tre brani, sosteneva che Ungaretti “poeta e soldato nei riposi della guerra ha saputo creare il più puro libro di poesia che potevamo aspettarci dalla nostra grande guerra”[24]. Giudizio che ripeteva alla fine, allorché Il Porto Sepolto veniva definito “il più puro e più grande libro di poesia scritto in questi due anni di guerra”[25]. L’unico punto degno di nota, sulla scia della segnalazione di Marone, è la rivendicazione dell’‘universalità’ della poesia di Ungaretti: “Poesia umana e perciò universale fuori il tempo e lo spazio”[26].
In questo periodo escono altri due interventi sul Porto Sepolto su altrettanti riviste del tempo: “La Brigata” e “Crociere Barbare”. La prima, una vera e propria stroncatura, è anonima ma attribuibile all’inquieto direttore, Francesco Meriano, già collaboratore della “Diana” ma poi staccatosi per contrasti con la coppia Marone-Centi[27]. Meriano parte qui proprio dalla recensione di Papini che – scrive ‒ gli ha recato “un vero dispiacere” e che costituisce il vero bersaglio polemico del suo intervento. Di Papini, verso il quale pure non aveva mai nascosto la sua ammirazione, contesta la definizione di “poeta puro” data a Ungaretti, innanzitutto perché non crede “alla distinzione in poesia pura ed impura, e poi perché “chi fa il poeta puro in trincea ‒ sostiene ‒ accanto ai nostri meravigliosi contadini, umani, profondi, antichi come la razza, è un cretino”[28]. Più avanti afferma che Papini “non ama e non capisce questa roba” e per “non apparire poco avanzato, egli cerca, si sforza di capire. E, come un intelligente lettore, trova quel che non c’è: la poesia”[29]. Dall’articolo non si evince se effettivamente Meriano avesse letto Il Porto Sepolto perché i soli versi che riporta sono gli stessi citati da Papini nella sua prima recensione. Anche per questo forse cade nell’equivoco di parlare di “svalutazione della tecnica, della cultura e, infine, della forma” da parte di Ungaretti, “che ha portato facilismo ed ignoranza”[30]. E rimprovera all’autore, paradossalmente, proprio un uso disinvolto della parola, sulla quale egli fonda la sua poetica. La parola – scrive, infatti – “non deve esser leggera né generica, né deve avere troppi significati: deve essere aderente alla carne e all’anima del poeta, chiara, sincera, unica, essenziale”[31].
Elpidio Jenco, invece, altro collaboratore della “Diana” e amico di Ungaretti, che spesso lo cita con affetto nelle lettere a Marone chiedendo sue notizie, scrive una breve nota, in cui mette in rilievo la sua funzione di “caposcuola”, in contrasto, anche qui, col giudizio di Papini che aveva affermato che Ungaretti “non è, in poesia, né uno scolaro né un caposcuola”[32]. Ma soprattutto individua uno dei motivi centrali della prima poesia ungarettiana: la “coscienza umana di annientamento e di ricongiungimento alla doglia universale […] il suo disperato e smanioso desiderio di armonizzarsi con l’infinito”[33], che, a suo giudizio, lo accomuna al poeta giapponese Nobutsume Sasaki.
Nel suo intervento, Giuseppe Prezzolini insiste invece sul rapporto del poeta con la guerra e sul peso negativo che questa ebbe su di lui. Non entra nel merito della sua poesia, ma traccia un profilo umano di Ungaretti, descrivendolo anche nella sua fisionomia: ”Il suo corpo è misero. Le sue ciglia si chiudono sugli occhi d’un azzurro di mare chiaro come quelli d’un gatto angora. La sua testa è curva. Le sue parole rade e un po’ strascicate. C’è in lui qualche segno d’Egitto”[34]. In particolare, riprendendo un suo verso, lo definisce “uomo di pena”. Ma, chiarisce, “non è la pena banale, che conosciamo, il peso materiale dello zaino, le ossa zuppe di acqua, la ferita che azzanna col suo tormentoso dente. È la pena di spirito e corpo, la solitudine metafisica e la rassegnazione alla propria croce”[35].
Veniamo ora all’articolo di Ravegnani, ma per comprenderne pienamente le affermazioni è necessario fare riferimento alle tesi sostenute in quegli anni, in campo letterario, dall’autore, che poi, com’è noto, si affermerà come direttore della Biblioteca Ariostea di Ferrara, critico letterario, giornalista e operatore editoriale[36]. Nato a San Patrignano, in provincia di Rimini, il 13 ottobre 1895, fa il suo esordio nel 1914 con una raccolta di versi, di gusto crepuscolare, I canti del cuculo, a cui segue Io e il mio cuore (1916). A diciassette anni, nel 1913, fonda a Ferrara, con Italo Balbo, la rivista “Vere Novo”, di cui escono solo due numeri. Nell’ambiente letterario ferrarese entra in contatto con Lionello Fiumi, Filippo De Pisis e Corrado Govoni, la figura più nota del gruppo. Fu caporedattore della rivista “Myricae”, in cui polemizza contro gli eccessi futuristi e lacerbiani. Nel 1918 pubblica Sinfoniale, una “raccolta di prose liriche sul tema campestre, con l’esaltazione della Romagna, secondo un gusto molto presente anche nel conterraneo e amico Corrado Govoni e già nel più anziano Antonio Beltramelli”[37]. Il libro è preceduto da un Appello neoclassicista, datato 10 ottobre 1917, in cui, quasi in anticipo sulla “Ronda” ma con altro spirito, propone un ritorno alla tradizione e a Leopardi, entrando in polemica, oltre che col movimento marinettiano, con l’“avanguardismo”, che “ora – scrive – opacato e svisato, frainteso e ridotto a misere forme: verso libero e prosa lirica, frammento e scheggiature di sensazioni […] zoppica monco e ridicolo verso la palude del nulla”[38]. Per questo invitava i giovani a liberarsi “da tutte le gramaglie barocche di questa illogica modernità”, di gettare “in un canto l’affetto cieco alla forma esterna, per ricercare un saldo contenuto lirico”, di sciogliersi “dall’abbraccio servile a letterature straniere”, per scoprire la loro “anima italiana”[39] e ritornare “neoclassici”.
Ravegnani lesse probabilmente Il Porto Sepolto sulla copia del suo sodale Lionello Fiumi, a cui Ungaretti l’aveva mandata su insistenza di Marone[40], come risulta da una lettera del 10 gennaio 1917 inviata a Papini, nella quale lo informava anche del tipo di risposta che aveva dato Fiumi, da lui definito, senza mezzi termini, “un imbecille”[41]. D’altra parte, altre espressioni simili, che rivelano la scarsa stima di Ungaretti nei confronti di questo gruppo di scrittori, si trovano anche nelle lettere a Marone, come in quella senza data ma risalente a gennaio ’17, nella quale parla di Ravegnani, De Pisis e Fiumi come “diminutivi di Govoni e altri”[42], affermando ancora che “il più grosso dispiacere – nausea! – è d’essere confuso con qualche scimmietta pretenziosa, genere De Pisis, Ravegnani e compagni”[43].
Si è già detto, peraltro, che l’articolo di Ravegnani non è una recensione del solo Porto Sepolto, ma di ben quattro libri di poesia apparsi in quel periodo e da lui accostati in base ad alcune caratteristiche comuni. Oltre alla raccolta ungarettiana, si trattava per la precisione di: Poesie Giapponesi, tradotte da Marone e Shimoi (Napoli, Ricciardi, 1917), Archetti d’oro, di Paolo Argira, alias Fiorina Centi, (Napoli, Libreria della Diana, 1917) e Coriandoli, di Armando Curcio (Napoli, Libreria della Diana, 1918). In queste opere Ravegnani individuava un fenomeno di moda nella letteratura del tempo, che definiva “la poesia a frantumi, a schegge, a gocce”[44]. Questo tipo di poesia – precisava ‒ non lo soddisfaceva “né come prosa, né come poesia”, in quanto si trattava di un “genere ibrido, asessuale, che piglia dall’una e dall’altra, senza raggiungere la pienezza della prima, la finitezza della seconda”. A suo giudizio, “questa poesia nuova, fatta di brevi respiri, e di momenti spirituali, anche se perfetta nell’attimo e nel soffio, rimane sempre un mattone, uno solo, di quell’immenso edificio che si chiama lirica”. E qui si rifaceva proprio alla sua idea di poesia come “sinfonia”, come “costruzione”, esposta nell’Appello neoclassicista, poc’anzi citato. Non può essere, infatti, sosteneva, la sola sensazione a fare l’arte, ma ci deve essere (e in questa affermazione è evidente un’influenza dell’estetica crociana) anche il pensiero, la logica, l’equilibrio. È dall’insieme di tutte queste note che può rivelarsi “la cantata della nostra anima, e non dalla rivoluzione di una unica nota”. Arte, aggiungeva, “vuol dire significare. Poesia vuol dire dare per simboli e descrizioni un intero mondo interiore”. Questa poesia invece capovolge “le leggi di ciò che è arte espressiva, dando valore ad un solo lato del problema, e dimenticando tutte le costruzioni del passato, le quali, così, non vengono superate, ma negate a priori, ingiustamente”.
Se dal lato teorico, però, si dimostra contrario a questo fenomeno, afferma di ammirare ugualmente il lavoro di “questo gruppo di giovani”. E di questo gruppo considera i caposcuola proprio Ungaretti e i poeti giapponesi, accostati nuovamente dopo gli interventi di Marone. Per Ravegnani, l’autore del Porto Sepolto è “un ricco temperamento di poeta”, ma non ancora un “poeta intero”, come aveva affermato Papini, in quanto le sue “distillazioni liriche […] non hanno mai la consistenza soda dei ritrovamenti completi: l’oggetto è sfocato e si sente ch’è fuori ancora dell’autore…”. E a questo proposito, contesta soprattutto il carattere di “universalità” attribuito da Papini alla poesia ungarettiana, ripreso poi da Marone. Per il critico, Ungaretti è poeta vero solo in alcune composizioni, come ne I fiumi, dove “costruisce uno stato d’animo […] completo”, e quindi fa anche “poesia e poesia buona”, e in Annientamento, dove ritroviamo “mille valori sentimentali ma resi in totalità e non per approssimazione”, esprimendo “non nuda sensazione ma pensiero, la totalità dei sentimenti”. Questa totalità manca invece nei tre versi di Tramonto, i quali significano “un istante di abbandono cerebrale, una immagine che può essere incantevole, una nota arpeggiata che può riuscire deliziosa, ma rimangono istante, imagine, nota, e non vita, costruzione, sinfonia”. In conclusione così scriveva, un po’ enfaticamente, Ravegnani: “Quindi, riconosco in Ungaretti un’anima, magari grande, di poeta, ma non accetto il modo con cui realizza in parole i moti di questa. Siamo a quella poesia orientale, fatta di fumo e di rifrazioni, di screziature e di rughe ombrose, nelle quali ci si disperde come in un mare di nebbia e non si distinguono né confini, né volumi. Poesia a contagocce!, no, a me piace, la fiumana, che irrompe, gonfia, e turbinosa, scoprendo una origine, un letto ed una foce!”.
Successivamente passava ad esaminare gli altri tre libri sui quali in questa sede non ci sembra il caso di soffermarsi: il volume delle Poesie giapponesi tradotte da Marone e Shimoi e le raccolte di versi di Paolo Argira e Armando Curcio. Tutti a suo avviso, rientrano nel fenomeno della “poesia a gocce” verso cui Ravegnani conferma le sue riserve, in quanto, scrive, ripetendo quanto da lui sostenuto nell’Appello neoclassicista, “in arte bisogna costruire e non selezionare, coagulare e non numerare”. Ma per tornare alla recensione del Porto Sepolto, ciò che colpisce, in questo articolo, è l’assoluta mancanza di osservazioni sui motivi di fondo della lirica ungarettiana, sugli elementi stilistici e metrici, sul contesto storico in cui essa nasce e si sviluppa. L’autore insiste quasi esclusivamente sulla struttura frammentaria (“a gocce”) di questa poesia senza riuscire però a comprenderne lo spirito, le ragioni profonde. È significativo tuttavia che, a distanza di poco più di un anno e mezzo dalla pubblicazione del libro ungarettiano, e nonostante la sua limitata circolazione, al suo autore venga riconosciuta già la funzione di caposcuola di un preciso filone della poesia italiana di quel periodo. E questo, forse, è lo spunto più interessante e, per certi aspetti, più sorprendente, che si ricava dall’articolo di Ravegnani.
[In A.L. Giannone, Ricognizioni novecentesche. Studi di
letteratura italiana contemporanea, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2020]
[1] M. Barenghi, Ottant’anni dopo, fascicolo aggiunto a G. Ungaretti, Il Porto Sepolto 1916-1996, ristampa anastatica a cura di M. Barenghi, Comune di Udine, Udine, 1996 p. 4. Sul Porto Sepolto si rinvia alla Bibliografia critica a cura di A. Cortellessa, in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di P. Montefoschi, Milano, Mondadori, 2000, pp. 1574-1631. Si veda anche F. Bernardini Napoletano, “Il Porto Sepolto”: il frammento e l’Opera, in “Critica del testo”, V/1, 2002, pp. 29-47. Per un’edizione commentata cfr. Il Porto Sepolto, a cura di C. Ossola, Milano, Il Saggiatore, 1981 (II ed. Venezia, Marsilio, 1990).
[2] Sulla fortuna critica di Ungaretti cfr. G. Luti, Giuseppe Ungaretti, in I classici italiani nella storia della critica. Da Fogazzaro a Moravia, vol.3, opera diretta da W. Binni, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 441-487.
[3] Cfr. Studi sull’autore in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Milano, Mondadori, 1969, pp. 870-878.
[4] Cfr Bibliografia critica, a cura di A. Cortellessa, cit.
[5] L’articolo di Ravegnani viene ricordato da Gherardo Marone, ma a proposito delle Poesie giapponesi, da lui tradotte insieme a Harukici Scimoi, nella Sommaria bibliografia, in Id., Difesa di Dulcinea, Napoli, Libreria della Diana, 1920, p. 148, dove viene definito “bizzarro e sottile”. Più recentemente è citato da N. D’Antuono, in La Diana. Ristampa anastatica. Saggio introduttivo e Apparati a cura di N. D’Antuono, Cava dei Tirreni, Avagliano, 1990, p. 82, ma nella bibliografia riguardante Fiorina Centi.
[6] Sulla prima ricezione della poesia di Ungaretti cfr. G. Mariani, Per una storia della critica ungarettiana: i primi giudizi sul poeta, in Id. Poesia e tecnica nella lirica del Novecento. Nuova edizione aggiornata e accresciuta, Padova, Liviana, 1983, pp. 221-247, dove manca però un’attenzione specifica riservata agli interventi sul Porto sepolto.
[7] F. Bernardini Napoletano, Introduzione a G. Ungaretti, Da una lastra di deserto. Lettere dal fronte a Gherardo Marone, Milano, Mondadori, p. VII.
[8] G. Ungaretti, Lettere dal fronte a Gherardo Marone (1916-1918), a cura di A. Marone con una Introduzione di L. Piccioni, Milano, Mondadori, 1978, p. 52.
[9] G. Papini, Giuseppe Ungaretti, in “Il Resto del Carlino”, 4 febbraio 1917, ora in Appendice di documenti, in M. Barenghi, Ottant’anni dopo, cit., p. 15.
[10] Ibid.
[11] Ivi, p. 16.
[12] Ivi, p. 17.
[13] Ivi, p. 18.
[14] G. Marone, Il porto sepolto, in “Cronache Letterarie”. Quindicinale avanguardista, IV, n. 3-4, febbraio 1917, p. 6.
[15] Ibid.
[16] Ibid.
[17] Sul rapporto tra Ungaretti e la poesia giapponese si rimanda a: L. Rebay, Le origini della poesia di Giuseppe Ungaretti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1962, pp. 57-63; A. Suga, Ungaretti e la poesia giapponese, in Atti del Convegno Internazionale di Studi su Giuseppe Ungaretti, a cura di C. Bo, M. Petrucciani et alii, Urbino, 4venti, 1981, vol.II, pp. 1363-1367; G. Sica, Il vuoto e la bellezza. Da Van Gogh a Rilke: come l’Occidente incontrò il Giappone, Napoli, Guida, 2012, pp. 148-163.
[18] G. Marone, Il Porto sepolto, in Id., Difesa di Dulcinea, cit., p. 84.
[19] Ivi, p. 83.
[20] G. Marone, Bancarella. Idee, in “La Diana”, a. III, n. 1-2, marzo 1917, p. 20.
[21] Ibid.
[22] Sulla figura della Centi e sul ruolo da lei svolto nella “Diana” cfr. A. Mastropasqua, Controstoria della rivista “La Diana” attraverso le lettere inedite di Fiorina Centi ad Arturo Onofri, in “Avanguardia”, a. 17, n. 52, 2013, pp. 5-32.
[23] G. Mariani, Per una storia della critica ungarettiana: i primi giudizi sul poeta, cit., p. 224, nota 7.
[24] P. Argira (Fiorina Centi), Il porto sepolto, in “La Diana”, a. III, n. 1-2, marzo 1917, p. 18.
[25] Ivi, p. 19.
[26] Ivi, p. 16.
[27] Sulla rivista napoletana cfr. A. Dei, “La Diana”. Saggio e antologia, Roma, Bulzoni, 1981; N. D’Antuono, Wartime e letteratura: ebbrezza e dolore della Jugendkultur, in La Diana, cit., pp. 11-45.
[28] Anonimo (ma Francesco Meriano), Spezzatino, in “La Brigata”, n. 7, febbraio-marzo 1917, p. 165.
[29] Ivi, p. 166.
[30]Ibid.
[31] Ibid.
[32] G. Papini, Giuseppe Ungaretti, cit., p. 19.
[33] E. Jenco, Approdi. Giuseppe Ungaretti, in “Crociere Barbare”, a. I, n. 3, 15 aprile 1917, p. 1.
[34] G. Prezzolini, Ungaretti, in “Il Popolo d’Italia”, 19 maggio 1918, ora in Appendice di documenti, in M. Barenghi, Ottant’anni dopo, cit., p. 21.
[35] Ivi, p. 23
[36] Sulla figura di Ravegnani cfr. Per Giuseppe Ravegnani 1895-1964, Pavia, Antares, 1997. Altre indicazioni in Marino Moretti a Giuseppe Ravegnani. Lettere 1914-’21 / 1952-’63, a cura di L. Benedini e C. Martignoni, con introduzione di C. Martignoni, Pavia, Edizioni N. T. P., 2000.
[37] Marino Moretti a Giuseppe Ravegnani. Lettere 1914-’21 / 1952-’63, cit., p. 12, nota 1.
[38] G. Ravegnani, Appello neoclassico, in Id., Sinfoniale, Ferrara, Taddei, 1918, p. 10.
[39] Ivi, p. 13.
[40] Lo stesso Fiumi nell’articolo Il creatore de “La Diana” Gherardo Marone, in “Messaggero Veneto”, 20 febbraio 1963, poi in Gherardo Marone 1891-1962, a cura di A. Marone, Napoli, Buona Stampa, 1969, p. 127, accennò agli anni “in cui l’Ungaretti mi mandava l’esemplare n. 21 delle ottanta copie del Porto sepolto”,.
[41] G. Ungaretti, Lettere a Giovanni Papini 1915-1948, a cura di M. A. Terzoli, con Introduzione di L. Piccioni, Milano, Mondadori, 1988, p. 87.
[42] G. Ungaretti, Lettere dal fronte a Gherardo Marone (1916-1918), cit., p. 63.
[43] Ivi, p. 64.
[44] G. Ravegnani, Compenetrazioni critiche. La poesia ed il contagocce, in “Gazzetta Ferrarese”, 16 maggio 1918, da cui sono tratte tutte le nostre citazioni. L’articolo apparve poi sulla “gazzetta settimanale” di Bari, “Humanitas”, a. VIII, n. 35-36, 1-8 settembre 1918, pp. 165-167.