La complessa semplicità di Luigi Scorrano

Prima di spendere qualche parola sull’effetto di queste reminiscenze o citazioni – io opterei per questa seconda ipotesi nella quasi totalità dei casi – sulla complessiva resa poetica dell’opera, occorre andare a scovare queste presenze letterarie.

L’analisi che segue non ha ovviamente alcuna pretesa di esaustività; anzi vuol essere un invito a chi, più culturalmente munito dello scrivente, avrà vaghezza di proseguire la ricerca.

  1. Reminiscenze o citazioni occulte.

Già a pagina 19 incontriamo un verbo («strapiomba») di chiara ascendenza montaliana: come il falchetto che strapiomba[1]. Tuttavia la situazione descritta da Scorrano, dove si parla di «rupe» e di «acqua che terribile romba», sembra più vicina allo strapiombo sul mare che ritroviamo in Pirandello: per le marne scoscese dell’altipiano imminente, il quale, poco oltre il borgo, strapiomba minaccioso sul mare[2].

In questa stessa poesia «orecchio intento» rimanda, anche per l’identità di significato dell’aggettivo (intento nel senso di attento, vigile), al Petrarca: e gli occhi porto per fuggire intenti[3]. Luigi Scorrano lo usa ancora a pagina 111 («al cuore intento»).

Nella pagina successiva l’Autore si chiede retoricamente: «Non vivono, forse, i poeti/ una seconda vita?». È il Non omnis moriar di Orazio, certo; ma la forma interrogativa richiama maggiormente i Sepolcri del Foscolo: Non vive ei forse anche sotterra, quando/ gli sarà muta l’armonia del giorno,/ se può destarla con soavi cure/ nella mente dei suoi?[4]. Se per Foscolo giusta di glorie dispensiera è morte[5], sicché le egregie cose rendono immortali, Scorrano accredita ai poeti una seconda vita dalla «durata indefinita». Il tutto è detto da quest’ultimo con minore enfasi e con il tono mite che gli è più congeniale, ma il concetto di fondo non cambia.

Tralasciato l’ultimo verso (come già detto, riportato integralmente), a pagina 22 vi è un’altra citazione dantesca, questa volta variata: «Non vi leggerò avanti ancora un poco» che richiama con evidenza quel giorno più non vi leggemmo avante (Inf. V, 138). Non sfugga la tacita sottintesa comparazione tra l’amore di Francesca per Paolo e quello di Luigi Scorrano per i suoi libri. Infine, l’iniziale negazione viene cancellata e la frase viene implicitamente volta in positivo, poiché, se l’Ulisse che è in ognuno di noi si ridesterà («se mai torni a parlare e a tesser frodi»), allora immediatamente ed immancabilmente rinascerà il fuoco sacro della poesia e della letteratura.

«Balestrucci saettano per l’aria» (p. 27). Il riferimento è al Pascoli: Ave! Tra uno scoppiettio veloce/ di balestrucci, che nel cielo intorno/ gettan ombre di più segni di croce[6].

I balestrucci hanno bisogno del fango per i loro nidi e nel nostro Salento non lo trovan di certo; ma la poesia prescinde dal dato faunistico. Se così non fosse, ricadremmo nell’errore critico dello stesso Pascoli, il quale volle sottolineare, a proposito del mazzolin di rose e di viole del Leopardi, che tali fiori non fioriscono nella stessa stagione! È evidente che il paesaggio di Luigi Scorrano è un paesaggio dell’animo, filtrato dalla memoria (anche letteraria), trasfigurato dall’immaginazione, dalla soggettività, dalla fantasia poetica.

Altre due pagine ed ecco ancora una citazione montaliana, leggermente modificata: «Netta, talvolta, l’ombra nostra stampa/ un vivo sol sul fondo d’una strada» richiama con tutta evidenza e l’ombra sua non cura che la canicola/ stampa sopra uno scalcinato muro![7]. E subito dopo, nella stessa poesia, la Primavera, «di piacer foriera», che «di questo gode» – della pienezza del sole? della nostra noncuranza nei confronti dell’ombra? o di tutto l’insieme? – richiama alla mente Primavera d’intorno/ brilla nell’aria, e per li campi esulta[8]. Qualche pagina dopo, in Primavera una luce di zaffiro, il riferimento a Leopardi diventa ancora più marcato per la ricorrenza di verbi che esprimono il godimento e l’esultanza («…tripudia e se n’esalta/ il cuore della terra risvegliato»). Qui, infine, non può sfuggire il verso iniziale, che dà il titolo alla composizione, per il suo evidente riferimento al dantesco Dolce color d’oriental zaffiro (Purg. I, 13). L’analogia della situazione – il cielo sereno e azzurro del Purgatorio dopo la profonda notte dell’Inferno (aura sanza tempo tinta) in Dante, il cielo luminoso della primavera dopo la cupa invernata in Scorrano – accentua ulteriormente il rinvio.

Si può cogliere un riferimento all’Autoritratto del Manzoni (Giovin d’anni e di senno; non audace)[9] a pagina 32, non solo perché il ritratto che sta guardando Scorrano è un suo «ritratto giovanile», ma soprattutto per l’identità della litote «non audace». Per il resto la lettura di sé è radicalmente diversa. D’altronde, la lirica del Manzoni è giovanile, mentre quella di Luigi Scorrano viene composta nella piena maturità. La scelta del genere sonetto non appare affatto casuale: al sonetto ricorsero, per i loro autoritratti, non solo il Manzoni, ma anche il Foscolo e l’Alfieri.

Infine, sempre in questa poesia, va segnalato un altro verbo montaliano («addenso»): …che il vento/ lacera o addensa[10]. In Scritture feriali lo stesso verbo ricorre anche a pagina 39 («sembra s’addensi»).

«Tremula, azzurra immensità del mare!» di pagina 37 rimanda a conobbi il tremolar della marina (Purg. I, 117); mentre «l’alito vivo della primavera» e «il convegno dei passeri (gioioso/ sbaldore)» sembrano un omaggio a Rinaldo D’Aquino (…le prate e la rivera,/ li auselli fan sbaldore/ dentro da la frondura/ cantando in lor manera;/ infra la primavera, che ven presente)[11] e forse anche a Pirandello: Ma di lì a poco, lo sbaldore ricominciava: ogni passero tornava a inebriarsi del proprio gridìo e di quello degli altri, e il concento diveniva man mano più fitto, più assordante di prima[12].

La chiusa finale «E fu notte per sempre», se staccata dal verso lungo che la contiene, costituisce a pagina 42 un settenario al pari di ed è subito sera di quasimodiana memoria[13]. Solitudine esistenziale nella poesia di Quasimodo, solitudine reale, al timone nella notte fatale, quella di Palinuro.

Palinuro, e il verso lungo, tornano nella poesia successiva, dove l’incipit «Verso le acque fatali» non può non richiamare immediatamente l’inclito verso di colui che l’acque/ cantò fatali del Foscolo[14].

Il «brusio delle voci dei morti» di pagina 44 è forse un riferimento al Pascoli: Ch’io l’oda il suono della vostra voce[15].

Certamente, invece, «Pesa l’erba sul cuore dei morti» della poesia successiva si può ricondurre a Quasimodo: Dolore di cose che ignoro/ mi nasce: non basta una morte/ se ecco più volte mi pesa/ con l’erba, sul cuore, una zolla[16]. Pure la situazione psicologica è la stessa: il dolore dei morti è anche il dolore del poeta, che lo sente come suo per quella “corrispondenza d’amorosi sensi” che unisce i vivi ai morti.

Nella lirica Notturni mari! ma oggi la speranza i versi «strisciano le serpi/ nell’erba alta» rimandano sia al dantesco Tra l’erba e’ fior venìa la mala striscia (Purg. VIII, 100, dove, però, contesto e significato sono affatto diversi) sia al virgiliano latet anguis in herba (Bucoliche, III, 93).

Ancora una citazione montaliana a pagina 54: «il tuono rotola» ricorda quando rotola/ il tuono[17].

In un libro scritto da Scorrano – nel quale, per giunta, è rilevante la presenza di poesie d’amore – non poteva mancare un riferimento al canto di Paolo e Francesca; ed esso giunge puntualmente con «quale infernale bufera ci travolse» (Compagno insolente, Amore), chiara citazione di La bufera infernal, che mai non resta,/ mena li spirti con la sua rapina (Inf. V, 31).

Ovviamente la presenza verbale di Dante – basti considerare il Commento alla Divina Commedia scritto con Aldo Vallone e le altre numerose pubblicazioni da Scorrano dedicate all’Alighieri – è di gran lunga superiore a quella di qualunque altro poeta o scrittore. In aggiunta ai termini o versi sopra già evidenziati si segnalano i seguenti.

La poesia Il metronomo delle cicale si chiude con il quinario «all’aura morta» che immediatamente riporta a tosto ch’io usci’ fuor dell’aura morta (Purg. I, 17); mentre a pagina 73 incorriamo in «vivagno», di cui in Dante numerose sono le occorrenze: si studia, sì che pare a’ lor vivagni (Par. IX, 135; con il medesimo significato di margine di una pagina); perché ci appar pur a questo vivagno? (Inf. XIV, 123); come ’l maestro mio per quel vivagno (Inf. XXIII, 49, nel senso di sponda, orlo); Sì accostati all’un de’ due vivagni (Purg. XXIV, 127).

In Vivi fuochi già accendono i tramonti «La scena, a luci spente, è una petraia/ livida» rievoca col livido color della petraia (Purg. XIII, 9). A pagina 95 è riportato, questa volta senza virgolette, un intero endecasillabo di Dante (Purg. II, 101): «dove l’acqua di Tevero s’insala». E nella pagina seguente: «…smuore/ per sottratta bellezza» fa pensare a sì che, bassando il viso, tutto smore[18].

Tuttavia, forse qui non manca un riferimento al dannunziano Il novilunio, dove, con riferimento alla luna nuova di settembre, l’Immaginifico descrive il viso del satellite che pallido s’inclina/ e smuore e langue[19]. Poiché Scorrano in questa poesia descrive gli effetti dell’autunno, il richiamo all’Alcyone sembra più pertinente.

Accenti biblici ritroviamo in Se mai amasti qualcuno ora dimenticalo: «Saremo ancora/ sola una carne» ben si può ricondurre a Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne (Gen. 2, 24).

In Lontani monti che la nebbia vela, la calma del mare una volta «superata l’onda/ tempestosa» richiama La quiete dopo la tempesta del Leopardi, mentre «e in noi si placa/ ogni irrequieto spirito» riporta a dorme/ quello spirto guerrier ch’entro mi rugge[20].

Gli ultimi versi di Fuggir da Circe fu ammiranda impresa («…tra le grida/ confuse con il canto delle Parche») non possono non rievocare il foscoliano e pianto, ed inni, e delle Parche il canto[21].

Infine, a pagina 99, «fanciulla in fiore dallo svelto passo» ci riporta al titolo del secondo volume di Alla Ricerca del tempo perduto di M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore; mentre «lietezza/ pensosa» si può ricondurre con tutta evidenza al leopardiano lieta e pensosa di A Silvia.

È difficile ricomprendere tutto ciò “nell’orizzonte della quotidianità” sotto un profilo oggettivo e con riferimento al lettore medio; mentre senza dubbio l’asserto risulta verissimo se considerato in un ambito soggettivo e quindi in relazione all’Autore.

Tuttavia, la presenza così numerosa di riferimenti letterari non nuoce affatto alla poesia, che, schietta ed immediata, fluisce nel verso in un afflato lirico che affascina e conquide.

Allora «un canto in cuore/ mi si schiude improvviso» non costituisce solo una felice espressione poetica, ma si pone come sintesi rivelatrice dell’essenza più profonda dell’intera raccolta.

Versi come «tripudia e se n’esalta/ il cuore della terra risvegliato», «Ma oggi la speranza/ verdeggia come un sole di primavera», «quest’aria innamorata/ dell’azzurro del cielo», «Corri, insegui, aquilone, le stelle:/ a te, a me, misteriose sorelle» ci regalano uno Scorrano affatto sconosciuto e ci riconciliano, in questi tempi grami, con la poesia.

  • Numero delle poesie, metrica e figure retoriche.

A prima vista il libro sembra contenere centodue liriche, ma, se si guarda un attimo l’indice, ci si accorge che in realtà le ultime due costituiscono un’aggiunta e che esse sono poste, per dir così, fuori campo (i loro titoli, infatti, a differenza delle altre che precedono, sono scritti in tondo e non in corsivo); sicché in definitiva il libro si compone di cento poesie.

La scelta del numero non è affatto casuale, anzi, voluta e sintomatica, denuncia ancora una volta la vastissima cultura dell’Autore e si pone come elemento strutturale dell’opera.

Cento sono i canti dell’amatissima Divina Commedia, cento le novelle del Decamerone, cento le poesie della raccolta carducciana intitolata Juvenilia.

Quanto alla metrica Luigi Scorrano in Scritture feriali non ci fa mancare nulla.

Accanto al verso libero troviamo poesie costituite da soli endecasillabi (talvolta sdruccioli o tronchi) o da endecasillabi e settenari; al sonetto classico (con le rime canoniche della tradizione) si alterna quello più libero (senza rima e con prevalenza di versi sdruccioli); quartine rigorosamente rimate lasciano il campo ai versi lunghi (un omaggio alla poesia in voga in questi ultimi decenni?); alternanza di versi rimati e versi liberi nella medesima poesia; chiusura di una lirica composta di tutti endecasillabi con due versicoli (che mascherano un endecasillabo tronco) a segnare maggiormente, anche sotto il profilo metrico, la tragedia dei migranti (Terra promessa, terra di promesse).

Già nel primo componimento alla dieresi a fini metrici si associa la rima interna: diverse altre se ne trovano in seguito. Da segnalare una poesia con rime identiche e l’iterazione di un intero verso. Vi è il ricorso alle rime equivoche. Diverse le anafore; numerosi gli ossimori; frequentissimo e pregevole il ricorso all’enjambement.

In sintesi, una magistrale sapienza tecnica. Essa tuttavia non è mai fine a se stessa, risultando sempre funzionale al contenuto, con il quale si sposa stupendamente. Ciò conferisce al verso una musicalità ricca e articolata, capace di modularsi in relazione alle diverse situazioni.

  • Tematiche principali.

Premesso che ogni schematizzazione si traduce inevitabilmente in una deformazione, mi sembra che nella raccolta si possano individuare dei temi principali riconducibili alle stagioni e alla natura, alle problematiche esistenziali, all’amore.

Le stagioni sono tutte presenti; tuttavia le poesie ispirate alla primavera sono di gran lunga preponderanti.

Non si tratta mai di descrizioni oleografiche, poiché ogni stagione, caricata di pregnanti significati ben individuabili, si trasforma in metafora di qualcos’altro.

Così, ad esempio, l’estate diventa occasione per introdurre riflessioni esistenziali sulla vecchiaia che avanza e sulla nuova esperienza poetica – la «cicala vespertina» è, con tutta evidenza, l’Autore medesimo che si avventura in nuovi territori intonando «un canto mai da lei sentito» – oppure momento in cui l’oppressione dell’afa trapassa tout court nel «travaglio della vita», accrescendolo. In altro contesto, essa fornisce il destro per un’originalissima invocazione non già alla Musa, bensì al grillo, perché il Poeta «possa acquistar grazia di donar parole».

Pure quando potrebbe sembrare meramente descrittiva, l’estate, con il suo «furore abbagliante della luce» diventa splendida sintesi dell’essenza stessa del Salento.

Anche la fioritura primaverile trascende immediatamente sul piano più squisitamente esistenziale («la forza fragile/ di qualche tenace illusione»).

Ancora più evidente ciò in Qui, sulle soglie della primavera, dove all’avanzare inesorabile del tempo e della vecchiaia si contrappone la giovinezza dell’animo che è «sogno che non naufraga/ sol perché, nave in viaggio, si allontana».

L’autunno, inducendo alla nostalgia, trasporta il Poeta nel fantastico mondo incantato dell’Orlando Furioso, stupendamente condensato nel solo verso finale («Soltanto ombre del nostro desiderio») che nel contempo costituisce icastica chiusa filosofico-esistenziale.

Anche la poesia sull’inverno, nella parte finale, con le «foglie che cadono leggere», si colora di tinte esistenziali.

In molte composizioni emerge il sentimento del tempo e della vecchiaia che incombe. Emblematica e bellissima, sul tema, Se dolce pianto e doloroso riso. Gli ossimori esprimono splendidamente il dualismo del reale, sicché il riso «invecchiato nei giorni come un fiore» diventa esso stesso espressione di dolore.

Diversi i riferimenti alla morte e agli amici scomparsi, svaniti «come fumo nel vento…».

L’attualità, con il suo tragico fardello di morti, irrompe nelle poesie dedicate ai migranti. Pur filtrate attraverso una rivisitazione dei classici, le «Tombe d’acqua» che «sussurrano lamenti» rimangono scolpite nella mente del lettore in maniera indelebile, mentre l’atroce indifferenza del destino rende ancora più immane la sciagura («Siede il destino/ sul mare»: il verso, nella sua icasticità, ha una grandezza omerica e sembra quasi evocare le antiche divinità della mitologia greca).

E tuttavia, nella weltanschauung di Scorrano riaffiora sempre la speranza, poiché “qui” – ripetuto cinque volte in Qui, nell’agone del mondo – in questo mondo, bisogna «che la mano tra i flutti/ agitata dal naufrago/ non resti la boa morta/ che segnali un’inutile intenzione».

Quanto all’amore, nella raccolta ci sono tante liriche ad esso ispirate che ben si potrebbe parlare di un piccolo canzoniere. E qui colpisce la concezione dell’amore espressa da Scorrano.

Per secoli nella letteratura italiana la donna amata è rimasta iscritta nella cifra del desiderio, della mancanza, dell’assenza ed è stata cantata da tanti poeti in tale dimensione. L’amore era essenzialmente desiderio d’amore, amore impossibile, negato, sogno sempre inseguito e mai raggiunto. Ancora nel Novecento Carmelo Bene soleva ripetere che la donna è bella nell’assenza e non nella presenza.

Ebbene, per Luigi Scorrano non è affatto così. Anzi, la donna amata è colta nella sua più evidente concretezza.

«Brilla nel tuo indicibile sorriso/ sereno il lume delle tue pupille»: il verbo all’inizio concentra l’attenzione del lettore e, direi, il fuoco dell’obiettivo, sul fulgore del sorriso e sulla luminosità dello sguardo dell’amata.

E il mistero dolce del riso dell’amata non viene sentito tanto con l’orecchio quanto e soprattutto con il cuore («Tendo con te l’orecchio, ed il mio cuore/ a cogliere l’arcana/ dolcezza del tuo ridere sommesso»).

Né manca un cenno alla passione («intanto noi ci perdiamo a ricordare/ quale infernale bufera ci travolse»).

L’amore è concepito e cantato quale ristoro alle cure della vita («soavi labbra s’aprono in parole/ che gli affanni leniscono del giorno»). Esso è «onda che guancia fa d’ogni carena». Il paragone sotteso tra carezza ed onda crea una situazione di totale e confidente abbandono in cui scompaiono gli affanni quotidiani (il mare non è forse il seno materno? e l’amata non è, in qualche modo, una seconda madre?).

Ecco allora che l’amore diventa condizione di grazia che consente di attendere serenamente, senza paura, «il passo della sera».

4. Sguardo d’insieme.

L’affermazione sulla ferialità quale quotidianità, in definitiva, è contemporaneamente vera e falsa.

Se non mancano gli accenni alla vita del paese – meravigliosa la satirica descrizione delle pettegole «gazze sapienti» – e del Salento (l’afa soffocante, la calchera, i migranti ecc.), è altresì vero che tutto il quotidiano è poeticamente sublimato e ricondotto ad una dimensione esistenziale avulsa da ogni tempo e da ogni luogo.

Anche il giardino di In un remoto angolo del mondo è, verosimilmente, proprio quello di casa Scorrano, amorevolmente curato dalla moglie. Tuttavia, anch’esso è trasfigurato poeticamente. Soprattutto nel verso finale («bello di sua bellezza il fiore del domani») quel giardino non è più soltanto il classico locus amoenus, ma diventa metafora dell’esistenza e, se vogliamo, anche della poesia.

Lo sguardo è rivolto al futuro, aprendosi alla speranza e alla vita che rinasce. Il fiore è ancora in boccio. Al pari di quanto avviene nella percezione di ogni uomo, esso è più bello in nuce che in potenza. È incomparabilmente più affascinante nella sua bellezza futura, sperata, agognata, sognata che in quella di qualunque altro fiore già sbocciato.

E qui forse ritorna Il Sabato del villaggio e il vago poetico di leopardiana memoria.

Piace notare che la seconda poesia di chiusura, non a caso, è un sonetto dove domina la notte, amica dei poeti; e non a caso si chiude con due verbi della nostra migliore tradizione letteraria. Si tratta di “tralignai”, verbo di chiara ascendenza dantesca (Par. XII, 90: ma per colui che siede, che traligna) e “molce”, verbo usato, tra l’altro, dal Petrarca (Fuor di man di colui che punge e molce)[22], dal Foscolo (…e poi che nullo/ vivente aspetto gli molcea la cura)[23] e dal Leopardi (non ti molceva il core)[24].

Le parole più ricorrenti nella raccolta sono quelle legate all’incertezza e all’attesa (“incerto/incertezza” e “indugio/indugia”), nelle quali si esprime e condensa l’approccio interpretativo del reale utilizzato dall’Autore. Un approccio sempre aperto al beneficio del dubbio ed improntato all’attenta osservazione del mondo e al penetrante scandaglio dell’animo umano.

Ogni poeta torna a scrivere quello che in poesia è già stato scritto e sempre verrà scritto: Scrive/ lui scriba/ il già scritto da sempre/ eppure mai finito,/ mai detto, detto veramente[25].

E anche Luigi Scorrano torna a scrivere sui temi più cari alla poesia di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Da questo punto di vista, Scritture Feriali non appartengono certamente alla quotidianità.


[“Note di Storia e Cultura Salentina” – XXVII, 2017. Miscellanea della Società di Storia Patria per la Puglia – Sezione del Basso Salento “Nicola G. De Donno”]


[1] E. Montale, Non rifugiarti nell’ombra…, in Ossi di Seppia, a cura di Pietro Cataldi e Floriana d’Amely, Mondadori, Cles 2016, p. 64.

Le sottolineaturedel testo richiamato, al pari di quelle che seguono, sono mie.

[2] L. Pirandello, Il libretto rosso, in Novelle per un anno, Vol. III, a cura di Mario Costanzo, Mondadori, Milano 1997, p. 230.

[3] F. Petrarca, Solo e pensoso, Rime sparse, in L. Russo (a cura di et alii),I classici italiani, Vol. I, Parte I, Sansoni, Firenze 1966, p. 562.

[4] U. Foscolo, Dei Sepolcri, in L. Russo (a cura di et alii), I classici italiani, cit., Vol. III, Parte I, Sansoni, Firenze 1968, pp. 139-140.

[5] Ivi., p. 155.

[6] G. Pascoli, Il soldato di San Piero in campo, in Primi Poemetti, in Poemetti, a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1971, p. 175.

[7] E. Montale, Non chiederci la parola…, in op. cit., p. 58

[8] G. Leopardi, Il passero solitario, in L. Russo (a cura di et alii), I classici italiani, Vol. III, Parte I, cit., p. 756.

[9] A. Manzoni, Autoritratto, in Poesie di Alessandro Manzoni prima della conversione, Le Monnier, Firenze 1947, p. 20.

[10] E. Montale, Falsetto, in op. cit., p. 19.

[11] R. d’Aquino, Ormai quando flore, in La poesia Lirica del Duecento, a cura di Carlo Salinari, Utet, Torino 1968, p. 158.

[12] L. Pirandello, Il giardinetto lassù , in Novelle per un anno, cit., Vol. II, Mondadori, Milano 1987, p. 95.

[13] S. Quasimodo, Ed è subito sera,  in Poesie e discorsi sulla poesia, a cura di Gilberto Finzi, Mondadori, Verona 1971, p. 9.

[14]  U. Foscolo, A Zacinto, in op. cit., p. 120.

[15] G. Pascoli, Il giorno dei morti, in Myricae, in La Letteratura Italiana. Storia e testi, Vol. 61, Tomo I, a cura di Maurizio Perugi, Riccardo Ricciardi Editore, Verona 1980, p. 9.

[16] S. Quasimodo, Dolore di cose che ignoro, in op. cit., p. 21.

[17] E. Montale, Arsenio, in op. cit., p. 207.

[18] D. Alighieri, Vita Nuova, XXI, in L. Russo (a cura di et alii), I classici italiani, cit., Vol. I, Parte I, cit., p. 178.

[19] G. D’Annunzio, Il novilunio, in Alcyone, Mondadori, Verona 1963, p. 205.

[20] U. Foscolo, Alla sera, in op. cit., p. 106.

[21]Id., in op. cit., p. 154.

[22] F. Petrarca, Morte ha spento, Rime Sparse, in Le Rime di Petrarca, C.D.C. & S.A.P.E., Madrid 1985, p. 242.

[23] U. Foscolo, Dei Sepolcri, in op. cit., p. 153.

[24] G. Leopardi, A Silvia, in op. cit., p. 753.

[25] M. Luzi, Scrive, lui, in S. Verdino (a cura di), L’opera poetica, VIII edizione, I Meridiani Mondadori, Milano 2015, p. 936.

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