Pur partendo dall’affermazione “Dio non è”, ritorna la domanda, già presente da Feuerbach in poi: “Perché si crede in Dio, se Dio non è?”. La prima risposta di Sartre è che l’uomo pensa Dio perché tende ad essere Dio, cioè soggetto di statuto divino: causa sui. La fede è una “passione”, non una costruzione razionale. Kierkegaard lo aveva detto in Timore e tremore. Pure in Sartre, questa passione non è gratuita ed è dannosa, poiché per inseguirla il soggetto rinunzia alle proprie capacità essenziali, alla costruzione della morale e della storia. Nonostante questi danni, l’uomo non può fare a meno di assumere per sé il punto di vista di Dio, di pensare “come se Dio esistesse”, perché la natura del Dio creduto è la stessa natura dell’uomo, che, però, è specificata dalla contingenza e dalla penuria.
Ancora nel 1974, all’interno dei colloqui-interviste con Simone de Beauvoir, la riflessione si concludeva con il tema dell’assenza di Dio. Sembrerebbe come se de Beauvoir avesse voluto chiudere la sua cérémonie des adieux, riprendendo il grand affaire della loro filosofia: l’uomo è solo come un assoluto[5]. Era l’anti-Agostino. Se per il filosofo di Tagaste l’anima umana, con il suo esse posse velle,rappresentava l’orma della trinità divina, per Sartre era l’immagine di Dio ad essere costruita sull’autoalienazione umana delle proprie possibilità ontologiche.
Qui si colloca il problema della morale, perché, per Sartre l’assenza di Dio apre una domanda che ribalta, ancora una volta, il tema agostiniano: se Dio è, unde malum, e se Dionon è, unde bonum? Il bene di cui si parla non è quello metafisico o fisico: è quello morale. In L’existentialisme est un humanisme si legge che alcuni filosofi laicisti hanno voluto togliere di mezzo Dio “con la minima spesa”. Alla fine dell’Ottocento, osserva Sartre, hanno ragionato affermando che Dio è un’ipotesi inutile e costosa, e che solo per questo andava eliminata. Ma non si può contemporaneamente rinunziare a Dio e ai valori. Pertanto, per quei pensatori, occorreva dimostrare che quei valori esistono a priori anche in assenza di Dio. “Dostoevskij ha scritto: ‘Se Dio non esiste tutto è permesso’. Ecco il punto di partenza dell’esistenzialismo”. Ma Sartre non è d’accordo perché in ciò consiste la condanna alla libertà. L’uomo è “condannato perché non si è creato da solo, ed è, ciò nondimeno, libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto quanto fa”[6]. L’esistenzialismo non vuole essere ateo solo nel tentativo, sartrianamente impossibile, di dimostrare che Dio non esiste, ma afferma che, anche se Dio esistesse, non cambierebbe nulla. Sartre ritiene che la convinzione “fideistica” che “Dio non è” fondi la nuova morale costruita dai soggetti, in cui i valori nascono nella contingenza e sono valori “materiali”, cioè materializzati nella storia, nella praxis, nelle concrete relazioni intersoggettive.
Sartre dichiarerà che per sessant’anni non si è più posto il problema ed ha ragione se ci riferiamo alla eventuale riproposizione della domanda intorno all’esistenza di Dio come opzione della coscienza. Però la questione-Dio continua ad essere presente in molti scritti e nella sua riflessione. Se in L’Être et le Néant l’ateismo è divenuto la pelle di quella filosofia ed è indiscernibile dalla totalità dell’opera, nei Cahiers pour une morale, scritti tra il 1947 e il 1948, il tema-Dio è ripreso in maniera frontale. Quegli appunti presentano una radicalizzazione filosofica dell’ateismo, in maniera organica e articolata come in nessun’altra delle opere sartriane. L’Être et le Néant era stato, infatti, la summa, le discours de la méthode, ma non tutto era stato adeguatamente fondato e giustificato, soprattutto per la morale, tanto che della famosa espressione: “Noi siamo condannati a essere liberi”, Sartre dirà che “ciò che significa […] non lo si è mai ben compreso. È nondimeno la base della mia morale”[7].
Si potrebbe porre il problema Sartre-fede in maniera lievemente diversa. Ci si riferisce a una pièce che Sartre scrisse nel 1940, quando era recluso nel campo di concentramento, e che affronta in maniera diretta il problema del rapporto uomo-Dio. È la stessa Simone de Beauvoir a descriverci la nascita di Bariona, ou le Fils du tonnerre[8]: “Allo stalag XIID a Trèves dove era prigioniero dall’agosto 1940, Sartre intrattenne rapporti eccellenti con parecchi sacerdoti, in particolare con l’abate Page che, mi si dice, aveva guadagnato la sua simpatia per il suo charme e per il ‘rigore con il quale accordava la sua condotta alle sue convinzioni’”[9]. Bariona è già la lotta esplicita tra uomo e Dio, tra le loro due libertà assolute. È il tema centrale di Bariona: il Dio fatto uomo. Mistero pari al mistero del concepimento e della maternità, in cui la madre sente, volta per volta, che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che è Dio. Ci soffermiamo su questa pièce per sottolineare come rimanga in Sartre una esplicita sensibilità verso un humus religioso, visibile nei temi del rapporto con Dio, del distacco da lui, dell’incarnazione come evento che salva e che salda in una universale fraternità, del dovere della speranza, dell’eroismo degli umili.
Ma quale peso può avere un’opera nei confronti della quale l’autore, non volendola pubblicare mai in vita, ha sempre detto che era uno scritto “commissionato”? Anzitutto c’è da fare una premessa metodologica sulle opere postume. In una delle interviste rilasciate da Sartre in occasione dei suoi settant’anni, il tema è focalizzato. Michel Contat, che è l’interlocutore, sottolinea la paradossalità dell’atteggiamento del filosofo che aveva rifiutato la proposta di pubblicare inediti come la Psyché, la Morale del 1947-1949 e i due capitoli inediti della Critique. Sartre chiarisce il proprio punto di vista: i capitoli della Critique non li ha mai finiti e, quanto alla Morale, c’era un’idea di morale che non è stata scritta: “Ciò che ho scritto era una prima parte che doveva introdurre una idea principale”, ma lì si è fermato[10]. Sartre dice ancora di più: quegli scritti dovranno essere pubblicato dopo la sua morte: “Saranno più interessanti, nella misura in cui rappresenteranno ciò che, ad un dato momento, ho voluto fare e che ho rinunziato a terminare, ed è definitivo”[11].
Gli anni che vanno dal 1943al 1948 sono gli anni del radicamento della fondazione di una morale laica e radicale, però Sartre non tralascia occasione per affrontare le problematiche della religiosità, del sacro, di Dio. Ancora nel 1944, Sartre parla del pensiero religioso e afferma che esso rimane anche nei non credenti. Scrive: “L’esistenzialismo non è niente di tutto, se non un certo modo di esaminare le questioni umane rifiutando di dare all’uomo una natura fissata per sempre. Esso andava, altre volte, in Kierkegaard, di pari con la fede religiosa. Oggi, l’esistenzialismo francese tende ad accompagnarsi a una dichiarazione di ateismo, ma ciò non è assolutamente necessario”[12].
Ciò che costituisce, negli anni Quaranta, il nesso Sartre-Dio-morale è la convinzione che la Weltanschauung degli atei sia della stessa natura di quella dei credenti. In L’Être et le Néant la nozione di Dio è vista come trasposizione della nozione di Autre. Vi è, certo, la vergogna davanti a Dio, “cioè il riconoscimento della mia objectivité‚ davanti a un soggetto che non può mai divenire oggetto” ed in ciò è la base della alienazione umana. Allora, la razionalizzazione, non nuova, che Sartre presenta dell’idea di Dio è quella di un essere verso cui la realtà umana tende e che è nel cuore della stessa realtà: Dio è la realtà umana vista come totalità. Per Sartre, insomma, “l’uomo è l’essere che progetta di essere Dio”. Al di là dei riti e dei miti delle religioni positive, Dio è anzitutto “sensibile al cuore” dell’uomo come chi lo annunzia e lo definisce nel suo progetto ultimo e fondamentale[13].
Nel 1946, “Il Politecnico” di Elio Vittorini, rivista vicina al P. C. I. (da cui ripetutamente Sartre si dirà attratto, sino alla morte di Palmiro Togliatti), pubblica alcune domande fatte a Sartre e a Simone de Beauvoir e le relative risposte. Gran parte dell’intervista è dedicata al problema religioso. Sartre ha modo di chiarire alcuni punti importanti della propria concezione, quando dice che anche l’ateismo è un rapporto con Dio. Afferma che è necessaria una conversione filosofica all’ateismo, ma respinge la critica marxiana della credenza in Dio, in quanto questa, secondo il nostro autore, non è originata dal condizionamento storico e sociale, ma dalla situazione umana: “Per dirlo con una formula, si tratta di rovesciare il mito di Cristo. In Cristo c’è un Dio che ci sacrifica perché l’uomo viva; ma in realtà la passione dell’uomo è quella di sacrificarsi perpetuamente perché Dio esista. Sacrificio inutile e dannoso”: inutile perché non produce salvezza, dannoso perché comporta il sacrificio della libertà umana.
Il sentimento religioso è, però, su quelle premesse, una struttura permanente del progetto umano. Sartre è convinto che nell’epoca moderna molti si rendono conto che “Dio è morto”; è però anche convinto che non sarà l’ateismo tradizionale quello che potrà salvaguardarci dagli dei. L’umanesimo ateo non sostituisce a Dio miti o altre formule religiose, perché è rivolto ad espungere ogni residuo religioso. Ma è possibile tutto ciò, se la nostra è una ragione “teologica”? La risposta indiretta è questa: quello sradicamento è possibile, ma produce sofferenza. Tale ateismo, che è segno di emancipazione, si paga con la solitudine e la disperazione: “Esso è la persuasione che l’uomo è un creatore, e che è abbandonato, solo, sul mondo. L’ateismo non è quindi un allegro ottimismo, ma, nel suo senso più profondo, una disperazione”[14].
Nei Cahiers pour une morale il problema di Dio è affrontato in maniera tendenzialmente esaustiva. Qui abbiamo la fondazione più radicalmente filosofica dell’ateismo sartriano e il tentativo di una teologia atea, partendo da una analisi metastorica della condizione umana. Infatti, l’uomo “si vuole Dio o Natura: oscillazioni. In generale tutt’e due le cose insieme”: Dio come causa sui, Natura come permanenza e continuità. L’idea di Dio, come Altro assoluto, genera il Dio mitico, che è il Dio Re o Sovrano o Padrone. La fede cristiana, scrive Sartre, parte appunto dal presupposto che l’uomo si possa vedere con gli occhi di Dio[15].
Nel primo dei Cahiers, Sartre scrive che ciò che conta nell’homo religiosus non è girare lo sguardo verso Dio, ma è, al contrario, sentirsi guardati da Lui. Così Dio è oggetto di una credenza marginale: vi si crede solo quando lo si pensa. Per contro, noi abbiamo l’esperienza perpetua di essere objet-de-regard, perché l’esistenza altrui l’abbiamo nella dimensione originale, presente anche nella condizione di solitudine, d’exister sous regard: “Dio come il sovrano è il milieu della nostra necessità. Uomini di diritto divino”[16]. Siamo creati, in un mondo ordinato dal Bene e dal Male e non basterà lo stesso ateismo essenziale di Sartre ad eliminare queste illusioni trascendentali. Egli lo riconosce. Sentirsi guardati dall’occhio di Dio significa percepire l’essere come dover essere, cioè come morale. Ecco allora la legittimità delle domande lasciate aperte dalla “morte” di Dio: perché la morale e, se c’è, da dove proviene? Poi un’altra domanda: la storia segue l’intenzione morale? Tutto ciò spiega la traslitterazione, operata da Sartre, della raison théologique in raison historique: “Si tratta di essere uomo di diritto divino. L’oppresso è la specie, la natura. L’oppressore è l’uomo di diritto divino. La Storia è storia della inautenticità, cioè della lotta per essere uomo di diritto divino”[17].
Nel secondo Cahier, Sartre trae da queste sue domande delle risposte. L’uomo è il Mitsein di Dio. Sartre cita, a tal proposito, il mistico del XVIII secolo Silesius Angelus: Dio ha bisogno di me. Ma il testimone di Dio non è degno di lui, in quanto non può essere un altro Dio. Dio ha creato l’uomo libero e la libertà è infinita: “Il rischio di Dio è la libertà dell’uomo, proiezione nell’assoluto del rischio del creatore umano che non crea la libertà dell’Altro ma che crea nella dimensione della libertà dell’Altro”[18]. Nella cultura dell’uomo borghese, Dio è morto e l’Eterno è stato sostituito dall’infinito temporale. La morte di Dio ha aperto all’uomo gli spazi che aveva alienato: “Se Dio non esiste, noi dobbiamo da soli decidere del senso dell’Essere”[19].
Qui il nodo essenziale: anche l’ateismo è una della forme della fede: “La decisiva assenza di fede è una fede incrollabile. Il fatto che un universo senza mito sia una rovina di universo – ridotto al nulla delle cose – privandoci eguaglia la privazione alla rivelazione dell’universo…”[20]. Morto Dio, la definizione dei valori spetta all’uomo, nel suo essere società, e alla Storia: “L’uomo si trova erede della missione del Dio morto: tirare l’Essere dal suo sprofondamento perpetuo nell’assoluto indistinto della notte. Missione infinita. Quando Pascal scrive: il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa, parla da non credente, non da credente. Perché, se Dio esiste, non c’è silenzio, c’è l’armonia delle sfere. Ma se Dio non esiste, allora sì, questo silenzio è spaventoso perché non è né il niente d’essere né l’Essere illuminato dallo sguardo. È il richiamo dell’Essere all’uomo; e già Pascal si suppone come passione, trascinato solo in questi spazi per integrarli al mondo”[21]. La disperazione conseguente all’ateismo deriva da questo sentirsi vaganti in un infinito ontologicamente ed eticamente insignificante.
Il problema di una prima filosofia “veramente atea”, che non è bastata a chiudere il discorso su Dio, riapparirà negli scritti e nei colloqui successivi di Sartre che, avendo connesso la morte di Dio alla permanenza, ancora più responsabilizzante per il soggetto, dell’istanza morale, introduce l’esigenza non più di una morale relativa ed individualistica, ma di una etica del soggetto che superi lo stadio delle pure intenzioni e si materializzi in rapporti storici concreti, in cui la liberazione del singolo e dei gruppi sociali sia forma di avanzamento reale della Histoire. La domanda di fondo rimane: qual è il rapporto tra morale, fede e politica? Nel 1951, Le Diable et le bon Dieu, riprende, nello sfondo, il tema di Dio e in maniera diretta quello della morale efficace. L’odio come via per l’amore è, qui, la traduzione di un altro nesso concettuale di Sartre: la violenza come via per il Bene e per la giustizia. È stato scritto che questa opera teatrale è una “stupenda allegoria dell’ateismo militante” di Sartre[22]. Le Diable et le bon Dieu è, sì, la commedia del disincanto, della frustrazione derivata dalle pratiche gratuite e velleitarie del Bene e del Male, ma è anche un testo che sancisce l’ineludibilità dell’etica, pure in un universo ateo. Questa etica sarà un’etica duttile nelle strategie e in cui i valori si misurano sui risultati.
L’opera sartriana apparentemente più lontana dalla tematica religiosa è proprio la Critique de la raison dialectique. La radice del discorso è ancora profondamente etica, perché la rivoluzione, per Sartre, si giustifica soltanto all’interno della dialettica tra Bene e Male. Il tema religioso non è esplicitato direttamente, ma è filtrato da quello etico. Nello stesso periodo Sartre si sofferma su un problema che riappare periodicamente alla sua riflessione: quello della immortalità, così come è presentata dal vissuto di un credente e come viene tradotta nella consapevolezza di un ateo. Leggiamo in Les écrivains en personne, del 1960: “Il cristiano, per principio, non teme la morte perché deve morire per cominciare la vera vita. La vita terrena è un periodo di prove per meritare la gloria celeste. Ciò comporta degli obblighi precisi, dei riti da osservare, ci sono dei voti come: obbedienza, castità, povertà. Io prendevo tutto ciò e lo trasferivo sul piano della letteratura: sarei stato misconosciuto per l’intera mia esistenza. Ma avrei meritato la vita eterna per la mia applicazione nello scrivere e per la mia purezza professionale”[23].
Tra il primo e il secondo tomo della Critique, Sartre si sofferma su Kierkegaard, autore che lo aveva condizionato molto, per quanto costituisse il pendant alternativo alla sua concezione dell’esistenza. Partecipando, nel 1964, al convegno parigino su Kierkegaard vivant, Sartre aveva quasi fatto il consuntivo non solo dell’attualità del danese, ma di quello che questi aveva rappresentato indirettamente per la formazione del suo pensiero. Il riferimento non è limitato al tema religioso, ma si apre anche all’incipiente formazione di un pensiero ermeneutico e di una comprensione diversa dalla conoscenza “oggettiva”, tipica della scienza e dell’antropologia. Uno dei temi kierkegaardiani su cui Sartre si sofferma maggiormente è il paradosso della storicità, congiunta alla transistoricità, di Cristo. Quella congiunzione è, però, in tutti i soggetti. Questo è lo stesso tema del secondo tomo della Critique, ma è anche il tema permanente di come si possa surrogare la nozione cristiana con una parallela nozione laica di immortalità. Scrive Sartre: “E, beninteso, ciò che [Kierkegaard] ha di mira qui è il paradosso scandaloso della nascita e della morte di Dio, della storicità di Gesù. Ma bisogna andare più lontano perché, se la risposta è affermativa, la transistoricità appartiene, allo stesso titolo di Gesù, a Soeren, suo testimone, a noi, nipotini di Soeren. E, come dice egli stesso, noi siamo tutti contemporanei”[24].
Se Abramo era l’uomo della fede, del dogma, della credenza positiva, anche per l’ateo Sartre il tema del dogma è uno di quelli che non possono essere liquidati. La relazione del ‘64 riaffronta in maniera diretta il problema di Dio. L’idea di Dio è in noi, non è costruzione artificiosa, razionale; essa ci costituisce nel momento in cui esistiamo pensando di divenire Dio: “Occorre tornare a Kierkegaard e interrogarlo come testimone privilegiato. Perché privilegiato? Io penso alla prova cartesiana dell’esistenza di Dio per il fatto che io esisto con l’idea di Dio”[25].
Riprendendo tematiche anche freudiane[26], Sartre vede nell’assassinio del Padre, nella bestemmia contro Dio, la indiretta giustificazione della figura paterna e divina. Lì trovano giustificazione l’incarnazione e la morte di Cristo, l’incarnazione e la corporeità come anello che unisce storicità e transistoricità del soggetto e permette anche l’immortalità laica, l’unica possibilità che lo scrittore pensa che si possa raggiungere nell’universo della morte di Dio.
Concludiamo il discorso con un quesito finale: quando Dio è diventato non-problema, la sua idea è ininfluente? Sartre conferma, nei colloqui con de Beauvoir, che in lui sono rimasti elementi dell’idea di Dio. Egli non si sente un granello di polvere apparso nel mondo, ma un essere atteso, provocato, prefigurato; si sente un essere che sembra poter derivare solo da un creatore, da una mano creatrice che rinvia a Dio. Dio permane, quindi, anche nel Sartre settantenne, come orizzonte, come illusione trascendentale, come errore inconsapevole ma ineliminabile. Lo stesso impianto morale è riportato alle nozioni di Bene e di Male assoluti ricevute da Sartre con il catechismo. In lui si sovrappongono il moralismo assoluto e la sensazione illusoria di essere “creatura”. La “critica della ragione teologica”, che era esposta nei Cahiers, non era orientata a sostituire le vécu di un’assenza di Dio, intraducibile in dimostrazioni e concetti filosofici. L’ateismo rimane un’opzione totale nei confronti del mondo. Nello stesso momento in cui lo afferma, però, e sono passati oltre trent’anni dall’opera ontologica, Sartre non ha remore nel dichiarare che gli rimangono dei residui di quella fede in Dio che era il bersaglio forte e qualificante del suo programma intellettuale. È, indirettamente e anche provocatoriamente, l’attestazione di una insufficienza di una criticadella “illusione” teologica. Infine, nelle interviste concesse a Benny Lévy per “Le Nouvel Observateur” e che apparvero pochi giorni prima della morte del filosofo, Sartre ribadisce che l’uomo desidera esser Dio, cioè causa di se stesso. Ma il suo orizzonte si chiarisce, quando affronta il tema della disperazione: “È esatto, io non sono mai stato disperato da parte mia, né ho intravisto, da vicino o da lontano, la disperazione come una qualità che potesse appartenermi. Per conseguenza, era in effetti Kierkegaard che mi influenzava molto su quello”[27].
Sartre è esplicito: il ricondursi al desiderio di essere Dio, cioè causa sui, comporta la coscienza di trovarsi all’interno della tradizione che va dal cristianesimo a Hegel, anche se Sartre dichiara di tentare il superamento dei fini e dei confini del cristianesimo. È la conclusione di una filosofia che ha voluto ricordare, in un’esistenza senza fondamenti, “la passione inutile” dell’uomo: quella di voler essere Dio. Per tutto questo, il filosofo che fu accusato di perversione e di immoralismo, può essere letto come colui che, più di tanti inseriti in orizzonti eticistici, ha cercato di scorgere i fondamenti di una morale-senza Dio, visto che l’ateismo-fede, cioè certezza indimostrabile, rendeva ancora più urgente la costruzione di una morale. Siamo in universo nel quale l’illusione trascendentale di essere “creature” di Dio, pur nella sua ineliminabile erroneità, lascia all’uomo il compito di portare nella Histoire una morale efficace.
2. Parlando dell’idea di Dio in Maurice Merleau-Ponty, per dare una provvisoria definizione, potremmo dire che quel vissuto fu problematico ed articolato[28]. Forse la sintesi più efficace del rapporto tra il nostro pensatore e la dimensione della fede fu data, come già anticipato, da Sartre in Merleau-Ponty vivant quando ricordò che l’amico aveva affermato, forse in maniera troppo tranchante, che si crede di credere, ma, in effetti, non si crede
In Les aventures de la dialectique, del 1955, Merleau-Ponty scriveva che la religione, il diritto, l’economia fanno una sola storia, perché ciascun elemento di uno dei tre ordini dipende in un certo senso dagli altri due, e anche ciò dipende dal fatto che essi si inseriscono tutti nella trama unica delle scelte umane[29]. Questo atteggiamento è tipico della teoresi, dell’antropologia e della visione che Merleau-Ponty ha della storia. Non esiste una sola categoria che da sola possa determinare l’umano: né l’economia né l’inconscio né la sessualità né la fede interiore del soggetto.
Va aggiunto che ciò che criticava Merleau-Ponty era il fatto che la fede, in quanto vissuto, aveva perduto la propria autonomia, anche e proprio perché era stata ridotta a religione, cioè alla sua traduzione in cultura e ideologia. Ancora più esplicito era per lui il rapporto tra la filosofia e il cristianesimo. Questo non poteva essere un semplice rapporto di negazione, da parte della filosofia, con la proposta alternativa dell’interrogazione, perché anche l’interrogazione filosofica comporta, a sua volta, le opzioni vitali, e, in un certo senso, si mantiene e si conserva nell’affermazione religiosa. Quindi la domanda filosofica dimora non solo nella traduzione di ogni fede in sistema culturale e nel suo schiacciamento logicistico che ne avrebbe prodotto la religione (è il fenomeno che Wilhelm Reich aveva definito “l’assassinio di Cristo”), ma anche nel vissuto della fede.
Certo è che, nella scansione antropologica e culturale di Merleau-Ponty, la divaricazione tra filosofo e cristiano è una divaricazione ed uno sdoppiamento che già sono nel singolo cristiano, se è anche filosofo, e nel singolo filosofo, se è anche cristiano. Nel 1956 egli aveva scritto, introducendo una sezione dedicata alla filosofia cristiana: “Tra il filosofo e il cristiano (che si tratti di due uomini o di quei due uomini che ogni cristiano sente in sé) ci sarà mai un vero scambio? Questo sarà possibile, secondo noi, solo se il cristiano, facendo riserva delle ultime sorgenti della sua ispirazione, di cui giudica solo lui, accettasse senza restrizioni l’impegno della mediazione a cui la filosofia non può rinunziare senza sopprimersi”. Il filosofo francese aveva aggiunto che non c’è “la filosofia” cristiana, ma una pluralità di filosofie cristiane. E dei testi che stava presentando in quel saggio-antologia affermava che “danno un vivo sentimento della diversità delle ricerche cristiane. Essi ricordano che il cristianesimo ha nutrito più di una filosofia con qualche privilegio di cui una di esse è rivestita, ma che non comporta per principio una espressione filosofica unica e esaustiva e che, in questo senso, quali che siano le sue acquisizioni, la filosofia cristiana non è mai cosa fatta”[30]. Non c’è mai, insomma, “la” filosofia cristiana, ma una pluralità di manifestazioni in quel senso.
Il tema religioso, quindi, attraversa in maniera non secondaria le opere merleau-pontyane ma rispetto a Sartre, il tema specifico di Dio rientra nel discorso più complessivo della fede e delle religioni. Rileggiamo in Sens et non-sens, del 1948, i saggi dedicati alla difesa dell’esistenzialismo dagli attacchi che provenivano anche dalla cultura cattolica, e vi troveremo la critica di una identificazione di Dio con il potere e l’onnipotenza. Alcuni anni dopo, nel 1952, in Le langage indirect et les voix du silence, si trovava l’attestazione di un rapporto ineludibile uomo-Dio ma anche quella di un cristianesimo che non tollera più una subordinazione verticale. Per Merleau-Ponty sarebbe stato grave dimenticare che il cristianesimo è, tra le altre cose, il riconoscimento di un mistero nelle relazioni dell’uomo e di Dio, mistero che consiste nel fatto che il Dio cristiano non vuole un rapporto di subordinazione. Egli non è semplicemente un principio di cui noi saremmo le conseguenze, una volontà di cui saremmo gli strumenti o un modello di cui i valori umani non sarebbero che il riflesso. Ci sarebbe quindi, per Merleau-Ponty, come una impotenza di Dio senza l’uomo e il Cristo attesterebbe che Dio non sarebbe pienamente Dio, senza sposare la condizione di uomo[31].
In altre occasioni ci fu l’opportunità per l’autore di Phénoménologie de la perception, di riprendere la tematica. Quella forse più aperta e dialettica si ha in una Conferenza-convegno che si svolse, dal 10 settembre 1951, su La connaissance de l’homme au XXe siècle, all’interno dei “Rencontres Internationales de Genève”. Merleau-Ponty vi presentò una relazione, poi pubblicata in Signes con il titolo L’Homme et l’adversité. Tutto il dibattito si rivelò di una ricchezza notevole. Si era svolto un primo incontro privato, due giorni prima, sotto la presidenza di Éric Weil e un secondo incontro sempre privato, tenutosi il 12 settembre, sotto la presidenza di Jeanne Hersch.
La discussione non poteva prescindere da un importante elemento esterno: un anno prima, il 22 agosto 1950, in occasione del suo dodicesimo anno di pontificato, Pio XII aveva emesso l’enciclica Humani generis “circa alcune false opinioni che minacciano di sovvertire i fondamenti della dottrina cattolica”. Tra le filosofie maggiormente imputate era l’esistenzialismo. Il testo pacelliano dichiarava che le false affermazioni del nuovo evoluzionismo, per il quale veniva ripudiato quanto vi è di assoluto, fermo ed immutabile, avevano preparato «la strada alle aberrazioni di una nuova filosofia che, facendo concorrenza all’idealismo, all’immanentismo e al pragmatismo, ha preso il nome di “esistenzialismo” perché, ripudiate le essenze immutabili delle cose, si preoccupa solo della “esistenza” dei singoli individui».
L’esistenzialismo, nello stesso testo del pontefice, è accomunato alle teorie che considerano la possibilità di assimilare un dogma alleggerito da elementi ritenuti estrinseci alle «opinioni dei dissidenti. Inoltre, ridotta in tali condizioni la dottrina cattolica, pensano di aprire cosi la via attraverso la quale arrivare, dando soddisfazione alle odierne necessità, a poter esprimere i dogmi con le categorie della filosofia odierna, sia dell’immanentismo, sia dell’idealismo, sia dell’esistenzialismo o di qualsiasi altro sistema». Infine, era la condanna esplicita di tutte le nuove filosofie ma, ancora una volta, con particolare riguardo all’esistenzialismo: «nessun cattolico può mettere in dubbio quanto tutto ciò sia falso, specialmente quando si tratti di sistemi come l’immanentismo, l’idealismo, il materialismo, sia storico che dialettico, o anche come l’esistenzialismo, quando esso professa l’ateismo o quando nega il valore del ragionamento nel campo della metafisica».
D’altro canto la demonizzazione dell’esistenzialismo era già in atto da tempo nella cultura cattolica italiana. Nel 1948, il gesuita padre Domenico Mondrone, su “La Civiltà Cattolica”, aveva affermato che Sartre faceva parlare a causa della sua sfrontatezza e che trovava i suoi seguaci tra i pensatori non seri, tra i dilettanti, i facili ammiratori dell’assurdo, gli immorali. Lo stesso padre Mondrone rimproverava a Sartre di «aver condotto l’uomo alla conquista di una libertà simile a quella degli assassini»[32].
Nell’incontro già ricordato, il 12 settembre, il discorso riemerse e, con una apparente paradossalità, Merleau-Ponty concordava con la tesi del pontefice. A Charles Westphal, pastore protestante, che aveva rilanciato la questione, il filosofo spiegò perché papa Pacelli aveva ragione. Si trattava di sapere da quale esperienza si parte: «Io non taglio assolutamente niente di ciò che è, né di ciò che fa parte della nostra esperienza. Se voi avete un’esperienza dell’inconoscibile – e non nego che voi ne abbiate una – io ne ho una, senza la quale io non sarei “esistenzialista” come dite». Questa esperienza dell’inconoscibile, che Merleau-Ponty afferma di avere, è altra cosa da ciò che si chiama religione: «Ed è lì che io trovo che il papa ha ragione. Ha ragione del punto di vista di papa. Beninteso, io non sono papa e, di conseguenza, non sono della sua opinione»[33].
L’impostazione del filosofo francese, quindi, negava, in anticipo di un anno, la legittimità del titolo che in Italia Luigi Stefanini pose al suo trattato su esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico. Gli esempi portati da coloro che pensavano a una legittimità, o legittimazione, di un esistenzialismo coniugato con la fede, erano quelli di Kierkegaard, anzitutto, e poi di Gabriel Marcel. Fu padre Daniélou a distinguere, in quell’incontro, un esistenzialismo ateo e relativistico da quello di Kierkegaard. Anche su questo tema si aprì un dibattito molto legato al senso della parole. Merleau-Ponty affermava che, a quanto sapeva, Kierkegaard non era cristiano nel senso del Sillabo e, anzi, rifiutava di dire: «sono cristiano». Daniélou aveva buon gioco nel ribattere che esiste una distinzione tra cattolicesimo e cristianesimo, aggiungendo che Kierkegaard credeva in Dio e in Cristo ed il pastore Westphal era cristiano come lui.
Merleau-Ponty controargomentava alle tesi del pastore-filosofo con queste parole: «Non ho detto che Kierkegaard non era cristiano, ma esiste un testo di Kierkegaard dove egli dice pressappoco: “Il vero cristiano è un uomo che non dirà anche: io sono cristiano”. Dico che giunti a quel punto, non si tratta più di fede, si tratta di silenzio». Ancora una volta la tesi del nostro filosofo trova, paradossalmente, un avallo nella condanna del pontefice: «Trovo che il papa ha ragione di dire che ciò non fa un cattolico, io dirò anche che ciò non fa un protestante – un protestante religioso –; ciò fa un uomo pressappoco come me». Il non definirsi, la scelta del silenzio era quello che faceva del danese un uomo con la propria, forte problematicità. Non dimentichiamo che Timore e tremore, l’opera dedicata ad Abramo ed alla fede come passione, fu presentata dall’autore con lo pseudonimo di “Johannes de Silentio” e si chiudeva con il terzo problema dedicato alla legittimità del silenzio di Abramo nei confronti della moglie Sara.
Jean Wahl intervenne nel colloquio per dire che nel pensiero di Kierkegaard quella affermazione voleva significare: «La determinazione cristiana è troppo alta per me». E Merleau-Ponty, di rimando: «Ciò vuol dire qualcosa di più: vuol dire che sarebbe praticamente negare il cristianesimo dicendosi cristiani»[34]. Cioè, l’autodefinirsi cristiani voleva dire oggettivizzare un vissuto, farne un paradigma, un attributo della propria identità. E una fede non può essere un attributo del soggetto, ma qualcosa che lo costituisce.
Padre Maydieu, della rivista “Sept”, introdusse nel colloque il tema del dialogo tra credenti e non credenti, ricordando che Merleau-Ponty lo aveva definito difficile ma non impossibile. Lo stesso p. Maydieu affermava che, se il dialogo è difficile con i cristiani, la ragione per la quale al suo interlocutore sembrava difficile era che il suo punto di partenza che consisteva nel credere che essi «sono uomini che sanno già», quando, al contrario, «un cristiano non sa. Egli crede, e questo non è la stessa cosa». A Maydieu che, preso dalla polemica, aggiungeva di non aver visto quali fossero le conclusioni dell’interlocutore né nella conferenza né nei suoi scritti, Merleau-Ponty ribatteva: «Io non passo il mio tempo a dire che sono ateo, perché non è una mia occupazione e sarebbe trasformare in negazione uno sforzo di coscienza filosofica tutto positivo. Ma se, in fin dei conti, me lo si domanda, rispondo sì»[35]. Quindi anche l’opzione atea è ricerca, sforzo della coscienza. Certo, aggiungeva, se quelli che contano le schiere dovessero chiedergli dove si collocava, egli avrebbe risposto che si collocava tra gli atei.
Pertanto, la tesi di Merleau-Ponty è drastica e radicale: un esistenzialismo teistico non solo non c’è di fatto, ma neanche è possibile. Ci possano essere, invece, delle «inconseguenza» personali come quella di Marcel: «Poiché voi mi sollecitate, io sto per dirvi quel che penso: non si può assolutamente parlare d’un esistenzialismo teista. Penso che nei fatti esiste, e che Gabriel Marcel è in questa situazione. Solamente, si tratta di inconseguenze individuali»[36].
La conferma delle ragioni del pontefice torna più volte. A padre Daniélou, Merleau-Ponty chiariva che, anche se non aveva capito bene la sua domanda, «ciò che volevo dire, io, è che il papa ha ragione di condannare l’esistenzialismo». Ci sono, in maniera enorme, cristiani ai quali l’esistenzialismo interessa come metodo, come ingresso, ma, in quanto cattolici, per loro non può che rimanere vestibolo e ingresso. Merleau-Ponty introduceva, a questo punto, la distinzione fondata, ma anche utile alla sua teoria interpretativa, tra cristianesimo e cattolicesimo. I cattolici, per il resto, debbono ricongiungersi all’ontologia nel senso classico della parola. «Per me, è la negazione della fenomenologia, della filosofia. Trovo che il papa ha interamente ragione a condannare l’esistenzialismo». Anche qui emerge l’elemento delle inconseguenze personali, «coloro che si interessano in profondità alla fenomenologia o all’esistenzialismo, pur essendo cattolici, penso che siano inconseguenti»[37]. Marcel, come abbiamo visto, sarebbe per lui il caso più noto e rilevante di tali inconseguenze.
Eppure Merleau-Ponty, appena un anno prima, aveva avuto modo di riconoscere il debito culturale del gruppo di “Les Temps Modernes” nei confronti di Emmanuel Mounier. Questi, nel 1946, aveva disegnato l’arbre existentialiste che si divideva in due rami: alle radici sarebbero Socrate, gli stoici, Agostino e Bernardo, poi nel tronco Pascal, Maine de Biran e Kierkegaard che porta alla fenomenologia, da cui dipartono due rami: uno con Jaspers, il personalismo, Marcel, Soloviev, Berdjiaev, Buber, Barth, Scheler, Landsberg, Péguy, Bergson, Blondel e Laberthonnière. La parte sinistra dell’albero, molto meno ricca, vedeva Nietzsche, Heidegger e Sartre[38], cioè autori programmaticamente chiusi al problema di un Dio nella sua concezione classica e mediata dalle confessioni storiche.
Ma quale fede aveva conosciuto Merleau-Ponty? Egli non ha motivo di camuffare i ricordi su questo tema, come aveva fatto talvolta Sartre a fini letterari: «Io ho ricordi di una religione nella quale sono stato educato, che ho anche praticato al di là dell’infanzia»[39]. Quindi, era e si dichiarava di formazione cristiana, anzi cattolica. Ma, tra i venti e i trent’anni, Merleau-Ponty aveva cessato di definirsi cattolico, cristiano o credente. Fu, comunque, attratto da certo cattolicesimo sociale, come il personalismo comunitario di “Esprit” e di Emmanuel Mounier e non invece – e non è un caso – dalla prospettiva politica, molto più strutturata e di fondamento filosofico e teologico del neotomista Jacques Maritain e del suo “umanesimo integrale”. Abbiamo notizia, infatti, di una partecipazione merleau-pontyana ai gruppi di “Esprit” e non è da escludere che il giovane cattolico “di sinistra” di cui parla in Sens et non-sens,riferendosi al 1934, sia egli stesso[40]. Comunque nella Phénoménologie de la perception ribadiva che «la coscienza, se non è verità o alètheia assoluta, esclude quanto meno ogni falsità assoluta»[41]. Il problema è che probabilmente la stessa nozione di verità è ritenuta, dall’autore, inadeguata, tanto che in Signes scriverà: «La verità è un altro nome della sedimentazione, che essa stessa è la presenza di tutti i presenti in noi»[42].
Nel 1935, commentando il testo di Scheler, appena tradotto in francese, e discutendo di cristianesimo e ressentiment, Merleau-Ponty aveva scritto: «Ma a quanti cristiani occorrerebbe anche ricordare l’esistenza di san Francesco d’Assisi? Per comprendere certe animosità violente che il solo termine di cristianesimo solleva, niente è più importante che sentire tutto ciò che i costumi, le convenienze contingenti degli “ambienti” e soprattutto l’ipocrisia del risentimento hanno interposto tra noi e la fede dei pescatori di Tiberiade, quelle atmosfere vendicative ne hanno reso per alcuni tra noi l’approccio così difficile». Il richiamo al francescanesimo, nel periodo in cui, presumibilmente era vicino all’esperienza di Mounier, si spiega tutto[43].
Nei primi anni Cinquanta, la situazione era diversa e, come abbiamo visto, i confronti pubblici portarono più volte Merleau-Ponty a parlare delle proprie convinzioni in tema di fede e del proprio ateismo. Nel dibattito del 1951 il filosofo aveva ripreso il rapporto tra fede, morale e ateismo e aveva affermato che «grazie a Dio» gli uomini sono inconseguenti: «Per me il credente è nello stesso tempo un uomo». Egli ricordava che la religione nella quale era stato allevato nell’infanzia e che aveva praticato anche oltre, gli permetteva scambi culturali e dialogici con i credenti, che per lui non erano nudi e poveri di senso. Aggiungeva, però, che sulle questioni morali, quando discuteva con qualcuno avendone un ritorno culturale e di idee, era con qualcuno ateo come lui[44]. Dichiarava, inoltre, di aver coperto il vuoto dell’assenza di Dio: per lui, la filosofia consisteva nel dare un altro nome a ciò che per lungo tempo è stato cristallisé sotto il nome di Dio[45].
Quale linea trarre da questa permanente riflessione sulla fenomenologia del religioso e delle fedi, iniziata da un Merleau-Ponty venticinquenne e che si prolungherà sino alla fine, con torsioni e sdoppiamenti e, comunque, al di là delle apparenze, prima in dialogo con se stesso e poi con gli altri? Una testimonianza sull’estremo periodo del filosofo, spesso citata, è quella di Xavier Tilliette che ricorda come, scrivendo dei rapporti con la religione, Merleau-Ponty non aveva manifestato che riserve e discrezione e però, quando essa si concretizzava in chiese o gruppi umani, il suo atteggiamento era stato di diffidenza, per le cadute in dogmatismi ed integrismi. Tilliette aveva aggiunto che la distanza primitiva, già palese nei dialoghi dei primi anni Cinquanta, qui analizzati, si era progressivamente trasformata in attenzione, in equanimità, tanto che i funerali religiosi adempirono un desiderio personale del filosofo[46]. Per quello che può valere ricordiamo anche che nel cimitero di Père Lachaise, a Parigi, sono interrati, sotto un’unica lastra di marmo, Merleau-Ponty, sua madre e sua moglie. Su quella lapide è il segno della croce.
Per quanto si sia consapevoli che quelle scelte estreme vadano giudicate diversamente da tutto ciò che è frutto di una esplicitazione filosofica, va aggiunto che si è qui cercato di ricostruire, tramite dialoghi ufficiali, ma intimamente partecipati, quale fosse la posizione di Merleau-Ponty nei confronti della fede in Dio. Si trattava dell’autopercezione di un filosofo, normalmente restio a parlare dei propri vissuti, ma, se sollecitato, pronto a narrare i percorsi che lo avevano portato alle sedimentazioni esistenziali che, volta per volta, costituivano il suo presente. Aveva anche scritto che queste sedimentazioni sono un altro nome della verità.
[1] Questo intervento riprende in parte i temi del mio volume Sartre. Dio: una passione inutile, Messaggero, Padova 2001, pp. 96 e dei miei saggi Jean-Paul Sartre (1905-1980). “Dio-non-è”: l’indimostrabilità di una certezza, in Dio nella filosofia del Novecento, a c. di G. Penzo e R. Gibellini, Queriniana, Brescia 1993, pp. 352-361 (II ed. nel 2004) enella versione brasiliana dello stesso volume: Jean-Paul Sartre (1905-1980) “Deus não esiste”: a indemostrabilidade de uma certeza, in Deus na filosofia do século XX, a c. di G. Penzo-R. Gibellini, trad. di R. L. Ferreira, Edições Loyola, São Paulo 1998, pp. 409-420.
[2] Sartre. Un film réalisé par A. Astruc et M. Contat, Gallimard, Paris 1977, p. 27; trad. it. La mia autobiografia in un film. Una confessione, a c. di G. Invitto,Marinotti, Milano 2004, p. 40.
[3] Cfr. R. Neudeck, L’immortalità postuma di J.-P. Sartre, in M. Suhr, Jean-Paul Sartre tra “esistenza” e “impegno”, ediz. it. a c. di M. Grasenack, Massari, Bolsena 2005, p. 124-125.
[4] Cfr. J.-P. Sartre, Merleau-Ponty vivant, “Les Temps Modernes”, n.184-185, 1961, p. 315.
[5] Cfr. S. de Beauvoir, La cérémonie des adieux, suivi de Entretiens avec Jean-Paul Sartre, août-septembre 1974, Gallimard, Paris 1982; trad. it.: La cerimonia degli addii, a c. di E. De Angeli, Einaudi, Torino 1983.
[6] L’esistenzialismo è un umanismo, ed. italiana, a cura di M. Schoepflin, Pagus, Paese 1993, pp. 48-49 e 102.
[7] Cahiers pour une morale, a c. di A. Elkaïm-Sartre, Gallimard, Paris 1983, p. 447. Di quest’opera esiste una trad. it., a c. di F. Scanzio, Quaderni per una morale (1947-1948), Edizioni Associate, Roma 1991.
[8]Bariona, ou le Fils du tonnerre, in M. Contat-M. Ribalka, Les écrits de Sartre. Chronologie. Bibliographie commentée, Gallimard, Paris 1970. Esiste una edizione italiana: Bariona o il figlio del tuono, a c. di A. Delogu, trad. it. di M. A. Aimo, Marinotti, Milano 2003.
[9] La force de l’âge, Gallimard, Paris 1960, p. 524.
[10] Cfr. Autoportrait à soixante-dix ans, in J.-P. Sartre, Situations X. Politique et autobiographie, Gallimard, Paris 1976, p. 207. Su questo problema cfr. la post-fazione Jean-Paul Sartre: pietra tombale o compito futuro?, della seconda edizione di G. Invitto, Sartre. Dal “gioco dell’essere” al lavoro ermeneutica, Angeli, Milano 2005.
[11] Autoportrait à soixante-dix ans, cit., pp. 207-208.
[12] A propos de l’existentialisme: Mise au point, “Action”, n.17, 29 décembre 1944, p. 11; poi in M. Contat-M. Ribalka, op. cit., p. 655.
[13]Cfr. L’Être et le Néant, Gallimard, Paris 1986, p. 626.
[14] Alcune domande a Jean-Paul Sartre e a Simone de Beauvoir, “Il Politecnico”, n. 31-32, luglio-agosto 1946, pp. 33-35.
[15] Cfr. Cahiers pour une morale, cit., p. 215.
[16] Ivi, p. 155.
[17]Ivi, p. 110.
[18] Ivi, p. 539.
[19] Ivi, p. 502.
[20] Ivi, p. 40.
[21] Ivi, pp. 509-510.
[22] Cfr. R. Massari, Sartre e il buon Dio, in M. Suhr, op. cit., p. 12.
[23] Les écrivains en personne (1960) in J.-P.Sartre, Situations. IX. Mélanges, Gallimard, Paris 1972, pp. 32-33.
[24] L’universel singulier, in J.-P. Sartre, Situations. IX. Mélanges, cit., p. 154. Il testo costituiva la relazione di Sartre al Colloquio su Kierkegaard svoltosi a Parigi nel 1964. Gli atti furono pubblicati nel 1966. Trad. it. in L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la “Critique”, a c. di F. Fergnani e P. A. Rovatti, Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 135-164.
[25] Ivi, p. 154.
[26] Cfr., sui rapporti con la psicoanalisi, Sartre, il cinema, la psicoanalisi, in G. Invitto, L’occhio tecnologico. I filosofi e il cinema, Mimesis, Milano, 2005, pp. 49-78.
[27] L’Espoir, maintenant…, “Le Nouvel Observateur”, 10-16 mars 1980, p. 27.
[28] Questo testo fa riferimento, con una articolazione specifica e diversa, a due miei lavori su Merleau-Ponty. Ambedue i testi affrontavano il rapporto tra la filosofia di Merleau-Ponty e il problema della fede, in particolare l’atteggiamento nei confronti del cristianesimo. Cfr. in particolare Merleau-Ponty interprete di Bergson. Il problema di Dio. Materiali per una rilettura, in Bergson, l’Évolution créatrice e il problema religioso, a c. di G. Invitto, Mimesis, Milano 2007, pp. 83-103 e Merleau-Ponty par lui-même. Un filosofo parla di sé, “Chiasmi International”, n. 10.
[29] Cfr. Les aventures de la dialectique, Gallimard, Paris 1955, p. 28; trad. it. insieme a Umanismo e Terrore, a c. di A. Bonomi e F. Madonia, Sugar, Milano 1965, p. 226.
[30] Partout et nulle part, in Éloge de la philosophie et autres essais, Gallimard, Paris 1953, p. 215.; poi in Signes, Gallimard, Paris 1960, p. 184; trad. it., Il Saggiatore, Milano 1966, p. 194. L’opera collettiva Les Philosophes célèbres, diretta da Merleau-Ponty apparve con Mazenod (Paris 1956), pp. 215.
[31] Cfr. Le langage indirect et les voix du silence, in Signes, cit., p. 88; p. 100. Già in “Les Temps Modernes”, n. 80, 1951, pp. 2113-2144 e n. 81, 1952, pp. 70-94.
[32] D. Mondrone, Il messaggio disperato di J.-P. Sartre, “La Civiltà Cattolica”, febbraio 1948, pp. 224-225.
[33] L’Homme et l’adversité, in Parcours deux 1951-1961, a c. di J. Prunair, Verdier, Paris 2000, p. 366.
[34] Ivi, pp. 366-367.
[35] Ivi, pp. 368-369.
[36] Cfr. Ivi, pp. 365-365.
[37] Ivi, p. 364.
[38] Cfr. E. Mounier, Introduction aux existentialismes, in Oeuvres, III, 1944-1950, Séuil, Paris 1962, p. 70. Il volume specifico, già apparso nel 1947 presso le edizioni Danoël, fu tradotto a c. di A. Lamacchia con il titolo Gli esistenzialismi, Ecumenica, Bari 1981, p. 10.
[39] L’Homme et l’adversité, cit., p. 369.
[40] Cfr. Foi et bonne-foi, “Les Temps Modernes”, a. I, n. 5, poi in Sens et non-sens, Nagel, Paris 1948, pp. 305-306; trad. it., a c. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 202.
[41] Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, pp. 456;trad. it., a c. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 495-496.
[42] Sur la phénoménologie du langage, in Signes, cit., p. 120; trad. cit, p. 131 .
[43] Cfr. Christianisme et ressentiment, già in “La Vie intellectuelle”, VII a., n. s., t. XXXVI, juin 1935, pp. 278-306, poi in Parcours 1935-1951, éd. établi par J. Prunair, Verdier, Lagrasse 1997, pp. 30-31. Merleau-Ponty commenta la trad. franc. di Scheler L’homme du ressentiment.
[44] L’Homme et l’adversité, cit., p. 369.
[45] Cfr. Ivi, p. 371.
[46] Cfr. X. Tilliette, Il neoumanesimo di Merleau-Ponty, in La filosofia dal ’45 ad oggi, a c. di V. Verra, Eri, Torino 1976, p. 149.