di Giovanni Invitto
1. Sartre e Merleau-Ponty sono spesso accomunati, perlomeno fino al 1953, quando i loro rapporti si incrinarono apparentemente per motivi politici. Anche sul problema-idea di Dio i loro percorsi in parte divaricarono. Partiamo da Sartre[1] che, in una intervista del 1972, fa il punto sul tema:
un fanciullo dell’epoca aveva una religione – che era la religione cattolica, per esempio – e che aveva una famiglia molto frantumata dal punto di vista della religione, poiché anzitutto credevano pochissimo gli uni e gli altri – credevano un pochino, il tempo di ascoltare un poco l’organo a Saint-Sulpice o a Notre-Dame, ma in sostanza non molto – e poi aveva ciascuno la propria religione: mio nonno era protestante ma mia nonna era cattolica. Mia madre mi educava nei sentimenti cattolici, il nonno lo aveva permesso, ma egli si faceva beffe di queste cose – in una maniera d’altronde poco importante, non mi sembrava che egli avesse particolarmente ragione – ma semplicemente il fatto cattolico, quando appariva, era contestato. Allora ho perduto la fede completamente verso gli undici anni, o piuttosto mi sono accorto che l’avevo perduta: ero a La Rochelle, attendevo due amichette con cui prendevo il tram per andare al liceo, e per distrarmi mi sono detto: “Toh, Dio non esiste”. È caduto in questo modo e non è mai ritornato.[2]
Rupert Neudeck, a proposito di una citazione dello Spirito Santo in Les mots, afferma che per tutta la sua vita e per tutta la sua oeuvre Sartre non aveva mai potuto rimuovere l’eredità cristiana. Le radici erano nella religione cristiana, nelle due versioni del cattolicesimo (i Sartre) e del protestantesimo (gli Schweitzer)[3]. Ma, tra le varie definizioni con le quali è stata spesso etichettata la filosofia di Sartre, è quella di “esistenzialismo ateo”. Se sulla definizione di esistenzialista Sartre ha manifestato sempre perplessità, sull’ateismo l’ha spesso definito strutturale al suo pensiero. Nel 1961, aveva dichiarato, rifacendosi a Merleau-Ponty, appena morto: “Si crede di credere ma non si crede”[4]. La fede, quindi, era intesa come illusione. Sartre, a questa “passione inutile”, farà riferimento sino alla fine della propria esistenza, segnalando i residui attivi che ancora, di quella fede, operano in lui che si era proposto di scrivere la “prima” filosofia atea.